
La domandina

La burocrazia si esprime con un linguaggio simbolico che dice cose molto  chiare. In carcere poter chiedere non è un diritto ma una concessione,  un premio, come la carota da rosicchiare. L’unica facoltà di  autodeterminazione riconosciuta al recluso è quella di poter chiedere,  “alla signoria vostra” come recitava la formula di rigore alcuni anni  fa. Solo i prigionieri politici e pochi altri si rifiutavano. Questa è  la costituzione materiale della prigione, il suo codice genetico, poi,  solo poi e molto dopo, viene la costituzione, l’ordinamento e il  regolamento penitenziario stampati in bella carta.
 Basta che manchino le domandine e non si può chiedere più nulla. Capita l’antifona! E’ molto facile staccare la spina. E sia chiaro, non basta chiedere una volta. L’atto deve essere ripetuto continuamente. Quale è il fine di tutto ciò?
 Intanto suscitare una situazione d’indeterminatezza continua. Nulla è  mai veramente acquisito, tutto resta sempre incerto. Ogni risposta  dipende dal responsabile di turno, dal suo umore, dalle sue  inclinazioni, dalla sua economia libidinale, dal livello di sadismo che  lo soddisfa.
 Il detenuto è così privato d’ogni autonomia e capacità di autodeterminazione. Scrive in proposito Salvatore Verde (Massima sicurezza,  Odradek 2002): il processo di sorveglianza che la domandina innesca,  trasforma l’originario desiderio in una istanza ridotta alla dicotomia  sì/no, cioè al linguaggio binario che infantilisce la comunicazione  piegandola all’esercizio del principio di autorità. E’ da ciò che deriva  il diminutivo DOMANDINA, così simile a frittatina, passeggiatina,  gelatino, parole che suscitano in tanti di noi ancora un fremito  bambinesco. «In fondo, io sono come una madre per voi», mi disse una  volta una direttrice. Senza offese dottoressa, ma in questo caso  preferisco diventare orfano.
da insorgenze
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