LA MIA CLASSE di Daniele Gaglianone, 2013
Valerio Mastandrea insegna l’italiano in una classe di studenti extracomunitari. Un giorno, uno di questi studenti arriva a scuola e dice che il suo permesso di soggiorno non è stato rinnovato. Per lui non c’è più posto in Italia. Il film si ferma, la cinepresa continua a girare. Che fare? Continuare senza di lui? Prendere tempo? Gaglianone, il regista, entra in campo, ascolta quello che viene detto sul set, e alla fine decide che il film non si fa più. Inizia così un’altra storia. Ma forse no… la storia è sempre la stessa.
Giunto al sesto lungometraggio, Gaglianone realizza il suo film forse più bello, certamente il più estremo. Il suo cinema, da sempre in bilico fra realtà e finzione, raggiunge con La mia classe il piano formale che meglio di ogni altro è in grado di rappresentare il mondo che da sempre il regista torinese ama filmare. I dimenticati, gli esclusi, gli umiliati e offesi di Gaglianone non sono più solo testimoni e vittime di una società spietata e ipocrita quale è la nostra; ora mettono in discussione l’atto stesso della testimonianza, rompendo il meccanismo della finzione e il patto con lo spettatore-voyeur che tutto vorrebbe tranne che abbandonare la propria comoda posizione sulla poltrona. D’improvviso, ci è tornato alla mente il mai abbastanza ricordato Anna di Alberto Grifi, con l’ingresso in campo dell’elettricista del film, Vincenzo, a rompere “dal basso” il meccanismo del cinema-verità costruito da Grifi e Sarchielli. Se quel gesto, vecchio di 40 anni, svelava con un’imprevista entrata in campo l’approccio borghese del cinema militante, e diventava profonda riflessione autocritica di Grifi sul suo cinema, in La mia classe, questa rottura riguarda subito tutti.
In un’epoca in cui associare la parola cinema a quella di impegno irrita e rattrista più della foto degli operai fiat abbracciati a Marchionne, e in cui soprattutto porsi domande sul mezzo cinematografico è già una condanna all’isolamento a priori, Gaglianone riesce nell’impresa davvero epica di riportare anche queste domande al centro del discorso, senza pretendere, nemmeno per un istante, di spiegarci “che cos’è il cinema”. In questo senso infatti, in La mia classe non troverete neanche l’ombra di un qualunque atteggiamento intellettualistico, e meno che mai una qualche dichiarazione “d’autore” da cui trarre la lezione. Se ciò è possibile, è anche perché Gaglianone non svela tutto. Quando il film finisce, non abbiamo la certezza assoluta di cosa sia stato messo in scena, e cosa invece no. I piani della realtà e della finzione si confondono. Gli studenti, per esempio, sono veri immigrati, ma sono anche attori, seppur non professionisti. Le loro storie sono tutte reali o sono inventate? Mastandrea è un vero attore e un falso insegnante, ma quando dice al regista che quello che stanno facendo “non serve a un cazzo”, sta recitando la parte o sta dicendo quello che pensa? Il ragazzo costretto a lasciare il film perché privo del permesso di soggiorno, sta fingendo o il fatto è realmente avvenuto? Gaglianone non risponde, ma intanto il film prosegue. Ci si rende così conto che le risposte a quelle domande non sono decisive. Al limite, anche se tutto il film fosse un’invenzione, oppure se fosse il suo contrario, il senso non cambierebbe. Tutti quanti ci ritroveremmo comunque bloccati in una sorta di stallo, in un tempo e uno spazio sospesi, da cui è possibile uscire solo con l’azione. Ma se il massimo dell’azione consiste nel mantenere ognuno i propri ruoli, Gaglianone ci nega l’illusione e la consolazione che dirigere il film, recitarvi e esserne spettatori, equivalga ad avere fatto il proprio dovere di buon cittadino “di sinistra” contro l’ingiustizia.
E poi c’è lo stile. La mia classe andrebbe visto al cinema perché i suoi tempi richiedono quel minimo sforzo di concentrazione che la dimensione casalinga, fra spuntini, minzioni e telefonate varie, raramente permette. Senza quel minimo di concentrazione, diventerebbe più complicato accorgersi di quei momenti di rara intensità che aggiungono valore al film, come il lunghissimo piano sequenza con lenti e ripetuti carrelli laterali che accompagnano l’ascolto in classe della canzone di Daniele Silvestri, che diventa bello perché mentre ti scopri a pensare che quella sequenza rischia di scivolare nel cliché, lo stacco che immagini non arriva, e quella che sembrava una didascalia, acquista un senso diverso, una sua ragion d’essere. Oppure il rapido montaggio di alcune inquadrature del mare e della troupe sulla spiaggia, forse solo 3 o 4 inquadrature in tutto, quasi alla fine del film, brevi come un lampo, ma di una bellezza commovente, che solo gli occhi possono comprendere.
Dicevamo che il film andrebbe visto al cinema non per caso. Perché il cinema, nonostante tutto, continua ad essere la casa dei film. Contro ogni logica però, persino commerciale, La mia classe è stato praticamente sfrattato da quella casa, o quantomeno trattato come un ospite indesiderato. A Torino, dove Gaglianone non solo è di casa, ma anche molto amato dal pubblico, il film è uscito con una settimana di ritardo rispetto a Roma. E quando è uscito, è stato programmato in un’unica sala allo spettacolo delle 18.00. Dopo tre settimane, il film è stato spostato in un piccolo cinema, il Baretti, che almeno lo ha proiettato in orario serale, e infine, all’Esedra, il cinema della Parrocchia di Gesù Nazareno, che è poi il luogo dove dopo mille peripezie siamo finalmente riusciti a vederlo. In città come Napoli e Bologna, per fare un altro esempio, non si è nemmeno riusciti a trovare un cinema di prima visione disposto a mettere La mia classe in cartellone.
Non sappiamo a cosa sia dovuto tanto ostracismo nei confronti di questo film, ma qualunque sia il motivo, nulla può giustificare tanto disprezzo verso pubblico e autore. A noi non resta che prendere amaramente atto del fatto che come accade a quelli che nella vita di tutti i giorni si impegnano per provare a cambiare le cose, anche nel cinema, a pagare i prezzi più alti sono sempre gli stessi.
Kino Glaz
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