La sovversione fasulla di Sabina Guzzanti
“Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo…” esordisce la regista nel suo ultimo film, La Trattativa. È attorniata da attori che vestiranno i panni di Enzo Scarantino, Vito e Massimo Ciancimino, Gaspare Spatuzza e altri protagonisti della stagione di segreti che dal 1992 (12 marzo, omicidio di Salvo Lima) arriva ai giorni nostri, con le polemiche politico-giudiziarie e il coinvolgimento del capo dello stato. “Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo: tecnici, attori, registi” fu anche l’esordio di Gian Maria Volonté in Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, cortometraggio di Elio Petri del 1970, che tentò di ricostruire i contraddittori resoconti polizieschi sulla morte dell’anarchico milanese. Una citazione, un collegamento ideale: perché? Quattro anni di lavorazione, tutto il materiale girato all’interno di un teatro di prosa, gli scenari ricostruiti in digitale, La Trattativa è un film posticcio che esibisce il suo carattere di messa in scena reale e virtuale (“brechtiana”, dicono al Massimo), benché ambisca a ricostruire un mosaico di verità. Ma riesce ad essere all’altezza del suo stesso intento?
La messa in scena cinematografica parte dall’affresco di un’altra messa in scena, altrettanto accurata: come nel caso di Petri riguardo a Pinelli, è la messa in scena giudiziaria di un misfatto che l’autore della stessa rappresentazione (lo stato) ha commesso. Un ragazzo di quartiere del tutto ignaro, Enzo Scarantino, viene arrestato a Palermo alla fine del 1992, seviziato per mesi e torturato poco dopo l’uccisione del giudice Paolo Borsellino in via d’Amelio, affinché confessi la strage (cui non ha preso parte) e accusi altre cinque persone innocenti. Ventitré anni dopo piazza Fontana e dodici anni dopo la stazione di Bologna va in scena l’ennesimo depistaggio, sia pur in un contesto completamente diverso: le vittime non sono persone comuni, ma uomini dello stato (il giudice e la sua scorta), mentre il presunto colpevole non è un movimento sovversivo, ma un’impresa capitalistica illegale: quel crimine organizzato siciliano che tante volte, da Portella della Ginestra all’omicidio Impastato, agli uomini dello stato aveva fornito collaborazioni, aiuti, servigi.
Il poliziotto che si fece carico di creare l’ennesima verità fittizia non si chiamava, stavolta, Calabresi o Subranni, ma Arnaldo La Barbera; nove anni prima di guidare l’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova, fu il capo della mobile di Palermo (e agente del Sisde) a occuparsi di organizzare la farsa delle indagini per il processo Borsellino. Sedici anni dopo quelle falsità pilotate, però, nel 2008, il boss siciliano Gaspare Spatuzza decise di parlare ai magistrati, rivelando che fu lui (e non Scarantino, né gli altri innocenti, condannati all’eragastolo) a compiere l’attentato, e che ad esso parteciparono persone a lui sconosciute, che non appartenevano a Cosa Nostra. Due anni prima, nel 2006, il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, Massimo, aveva cominciato a raccontare altri retroscena della morte di Borsellino e sull’azione dello stato in quelle settimane.
Un generale dei carabinieri, Mario Mori (che ha ammesso più volte questa circostanza) si era più volte recato a casa di Ciancimino (uomo molto vicino a Totò Riina e Bernardo Provenzano) chiedendo un’interlocuzione indiretta con i due boss, al fine di trovare un accordo che facesse cessare gli omicidi eccellenti di Cosa Nostra. In quello stesso 1992 erano stati uccisi il politico andreottiano Salvo Lima, accusato di non aver mantenuto la promessa di proteggere i boss dal maxi-processo contro Cosa Nostra, e il giudice Giovanni Falcone, che quel processo aveva istruito. Borsellino aveva saputo dell’esistenza di questa trattativa dal ministro della giustizia Claudio Martelli e, non condividendone metodo e fini, aveva lasciato intendere di voler intervenire personalmente: “Ci penso io”, aveva detto a Martelli. Pochi giorni dopo, fu convocato dal ministro dell’interno Mancino (che, oggi imputato a Palermo per questa circostanza, nega) per un colloquio che lo sconvolse, al punto che disse a sua moglie, quel giorno: “Ho visto la mafia negli occhi”. Pochi giorni dopo, morì.
Sono quindi le deposizioni che Spatuzza e Ciancimino hanno reso ai magistrati, assieme a molte altre, che hanno permesso ai “lavoratori” della Guzzanti di operare non soltanto una decostruzione della messa in scena poliziesco-giudiziaria seguita alla strage, ma anche una ricostruzione, poliziesco-giudiziaria a sua volta, di ciò che sulla “trattativa” tra carabinieri e Cosa Nostra è ad oggi emerso – e sul suo vastissimo (e interessantissimo) sfondo politico. Non si sono limitati, come i lavoratori di Gian Maria Volonté, a esibire la versione del potere perché lo spettatore potesse vederne le contraddizioni, ma hanno affidato al potere stesso il ruolo di demistificatore della messa in scena che aveva allestito, in altri tempi, per nascondere le proprie malefatte. La luce parziale gettata da settori delle istituzioni sui fatti dei decenni passati non viene interpretata come il tipico rituale con cui il potere espelle da sé le responsabilità del passato riverniciandosi nel presente, ma come indizio dell’esistenza di due stati, di due poteri, di due forze che – dentro le istituzioni – si combattono nel corso del tempo. Una concezione idealistica, in cui l’esito dei processi di potere non dipende dalla sua necessità di fornire di sé una sempre rinnovata legittimazione ma, semplicemente, dalla “buona” o “cattiva” volontà dei protagonisti.
Non a caso il fondamento sociale dello stato e delle sue pretese di legittimazione, o di Cosa Nostra nel suo innegabile radicamento popolare, resta invisibile nel film: di un simile sfondo non c’è non soltanto la descrizione, ma neppure la menzione, e i rapporti tra i protagonisti appaiono perciò enigmatici, irrelati alle loro cause e ai loro presupposti concreti, ridotti risibilmente alla pura e semplice contrapposizione tra bontà o malvagità. Altra potenza critica avrebbe avuto il film, crediamo, se anziché evidenziare le diverse inclinazioni morali o le diverse azioni (pur molto interessanti, questo è indubbio) dei protagonisti, avesse cercato di affrescare il disegno complessivo che da questi fatti, storicamente, si potrebbe oggi trarre, mostrando (al pubblico italiano, ma anche straniero) non tanto che al mondo “ci sono i buoni e i cattivi” (come affermava un’impagabile nonna siciliana in un film di Scorsese), ma che lo stato democratico moderno ha, come ogni forma statuale precedente, i suoi modi per conservare lo status quo sul territorio nel corso del tempo – anche a costo di sacrificare, senza esitazione alcuna, i suoi servitori.
Così striminzito e parziale, invece, il reale portato critico del film (orientato, spiega al pubblico la regista, con la più tipica retorica di una certa sinistra amarcord, contro “piduisti, golpisti, mafiosi e fascisti” che avrebbero trovato, peraltro plausibilmente, in Berlusconi il loro rappresentante ideale) è limitato. Si ostina a pensare, come il Pci di sessant’anni fa, all’uso delle relazioni di potere esistenti (anzitutto istituzionali) contro sé stesse, come se lo spazio istituzionale potesse essere di per sé, nel suo complesso, immaginato come politicamente neutro. Se c’è una cosa che la storia narrata sembra mostrare è invece, paradossalmente, che esso non è neutro e non intende diventarlo, a costo di dilaniare i propri stessi giudici e poliziotti. Allora? È “la mafia” il problema? È lo stato? Sono i suoi “traditori”? È qualcosa che trascende entrambi questi corni o campi, reali o presunti, qualcosa di cui entrambi sono espressione? Il film non lascia spazio a questa discussione, ma tenta di proporre un’interpretazione preconfezionata, per di più piuttosto arretrata sul piano politico.
Conseguenze sul piano formale? Alla (pretesa) presa di distanza “brechtiana” degli attori dal set, attraverso la propria presentazione al pubblico come lavoratori, e della propria “messa in scena” come lavoro (procedura, tecnica, “arte”: oggetto da cui possiamo criticamente distanziarci) era seguito, nel cortometraggio di Petri, uno smontaggio delle ipotesi del potere. Esso lasciava spazio alla riflessione autonoma del pubblico: come sono andate realmente le cose? Qual è stato il loro significato? Quale la soluzione, per noi? La Trattativa, al contrario, chiude, sia pur involontariamente, simili spazi di meditazione e sperimentazione intellettiva (che sarebbero stati meno ideologici, ma molto più “politici”). Il pacchetto è completo: se volete cambiare le cose, fate i magistrati o i poliziotti, o supportateli quando sono “onesti” (se lo erano davvero, lo saprete tra vent’anni, in un altro film e in un altro processo). Allora, a costo di essere severi, dobbiamo prendere atto che la “messa in scena” più profonda del film si situa proprio nella citazione iniziale: quella di un processo di distanziamento “brechtiano” che non ha in verità luogo, ma si capovolge ben presto nella più vieta ricerca dell’identificazione emotiva dello spettatore. Identificazione con cosa? Con le simbologie drammatiche predilette da ogni potere: i pianti, le bare, i tricolori, le divise, le lapidi e la musica struggente.
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