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Perché amiamo alcune serie TV – Breaking Bad

Sin dalle origini della televisione la creazione di serie tv ha sempre avuto un ruolo di primo piano. Molto più dei film, questo tipo di prodotti ha avuto un ruolo importante nell’intrattenimento e nella costruzione dell’immaginario popolare. Non a caso negli anni ’40 la Federal Communication Commission statunitense elaborò un rapporto nel quale si dettavano i codici per poter avere l’autorizzazione a trasmetterle per i vari nework. Essi implicavano che si dovessero propagandare valori come famiglia, nazione, ordine, e soprattutto legge. In particolare col maccartismo la serie basate sulla famiglia e sulla cattura di fuorilegge da parte di zelanti forze dell’ordine saranno pervasive, orientando inoltre le paure della popolazione. Star Treck negli anni ’60 sarà una piccola rivoluzione, divenendo monumento della science fiction ed in parte ribaltando l’immaginazione cupa rispetto alla tecnologia ed al futuro che si trasmetteva precedentemente. Ma è con gli anni ’70, la diminuzione della censura e le lotte sociali che nuovi temi divengono oggetto delle serie tv, dal razzismo alla corruzione (anche se all’oggi rimangono solo Happy Days e Starsky&Hutch). Gli anni ’80 saranno un periodo intermedio, di grandi successi ma assoluta mancanza di autorialità, nel contesto di una produzione per lo più “leggera”: dall’A-Team a Baywatch a Miami Vice, si afferma definitivamente su scala globale questa cultura americana. Nei Novanta altri successi si aggiungono a questo filone, da Friends a 90210, accompagnati però da serie più “sperimentali” a là X-Files o Buffy, dall’esplosione del fenomeno Simpson e da elaborati d’autore come Twin Peaks di Lynch. E’ col nuovo millennio che tuttavia le capacità di penetrazione del mercato delle serie tv sopravanzano definitivamente il cinema, e si assiste ad un’esplosione di filoni e opere. Lost, C.S.I., Sex and the City… Decine le produzioni (sempre di matrice statunitense) che invado i palinsesti, e soprattutto negli ultimi anni grazie allo streaming la loro diffusione è ulteriormente aumentata. Pochi rimangono tuttavia gli esempi di una produzione che ecceda il mero intrattenimento, se non la riproduzione di immagini sociali stereotipate o connotate dall’originaria tensione propagandistica di “valori capitalistici”. Tuttavia si sono negli ultimi anni concluse due serie che fortunatamente eccedono questa metodologia. Stiamo parlando di The Wire e Breaking Bad. Pubblicheremo dunque alcune riflessioni rispetto a queste serie tv suddivise in due puntate ciascuna.

Iniziamo con Breaking Bad, che è stata oggetto di cinque articoli scritti tra il 2009 e il 2013 da parte di Jason Read, filosofo americano autore di The Micropolitics of Capital (SUNY Press 2013). Pubblicati sul suo blog Unemployed Negativity, questi interventi di lettura filosofico-politica sono stati successivamente raccolti in una conferenza dal titolo Perché amiamo Breaking Bad: Lavoro, Austerità, Autonomia tenutasi nell’aprile scorso all’Università del Southern Maine. Di seguito riproponiamo i primi due articoli originali tradotti da G. P., che ringraziamo per averceli inviati.

 

 

1. Questa è la tua TV drogata

Come sorta di osservazione preliminare è curioso che tre delle reti via cavo conosciute per le loro serie TV di prima fascia (quelle che finiscono nelle liste dei critici TV, nei cofanetti, e nella “roba che piace alla gente”) hanno programmi che hanno a che fare con la “lotta alla droga”: HBO ha The Wire, Showtime ha Weeds, e AMC ha Breaking Bad. Senonché queste serie non trattano realmente della “lotta alla droga”, o almeno non esclusivamente: persino The Wire, che ha il più forte riconoscimento di autenticità e spende la maggior parte del tempo in dettagli sul narcotraffico, in ultima analisi fa delle droghe una sorta di lente rifrangente da cui osservare il declino della città americana. In ognuna di queste trasmissioni il traffico di droga diventa l’equivalente dei mostri e degli alieni nei vecchi film horror: la domanda è: cosa significa? cosa rappresenta?

Ci si potrebbe chiedere cosa sta succedendo culturalmente e politicamente per far diventare la “lotta alla droga” una metafora. Dopotutto essa non è scomparsa, fa ancora soldi e riempie le prigioni. Sembrava però essere sfumata sullo sfondo della coscienza culturale, tanto che non potrebbe funzionare da sola come materiale narrativo; deve rappresentare qualcosa. In un certo senso i generi sono costituiti da questa simbolizzazione: il noir, il western, i film di samurai o la fantascienza sono tutti cratterizzati dalla loro mitologizzazione della propria base narrativa, che è il simbolo di qualcosa. Tuttavia, in tutti questi casi il simbolismo ha luogo a posteriori, o relativamente a una condizione immaginaria, mentre con la lotta alla droga stiamo mitologizzando la nostra realtà.

Non ho intenzione di scrivere su The Wire in questa sede, avendolo già fatto in precedenza, ma devo dire che The Wire rimane per me il non plus ultra di quello che può essere fatto con il mezzo televisivo. Da quando l’anno scorso è finito The Wire ho cercato invano qualcosa che ne riempisse il vuoto. Ho provato con Roma, Deadwood, Mad Men, Generation Kill e ora Breaking Bad, con vari gradi di successo. Ho guardato alcune di queste serie fino alla fine mentre altre si sono affievolite, ma non ho scritto di nessuna fino ad ora.

Uno dei molti modi in cui The Wire mi ha rovinato ha a che fare con la sua particolare struttura narrativa. The Wire schiva le insidie di quello che passa per profondità, i flashback e le sequenze oniriche che ci forniscono un accesso privilegiato all’interiorità dei personaggi, focalizzandosi piuttosto sulle istituzioni che strutturano l’azione degli individui. La prospettiva istituzionale è combinata con un’estetica egualitarista in cui i personaggi minori salgono alla ribalta mentre quelli principali sfumano sullo sfondo, almeno temporaneamente. Ciò mi ha reso intollerante alla struttura più convenzionale della serie con i suoi protagonisti, con una data profondità, e i suoi personaggi minori, caratterizzati nei termini di stereotipi.

La trama di Breaking Bad è abbastanza semplice: Walter White, un insegnate di chimica, scopre di avere un cancro incurabile ai polmoni ed entra nel business della droga (meth in cristalli) per provvedere al futuro della sua famiglia (ho saputo che questa trama di base è simile a Weeds, che non ho mai visto). La trama di base è complicata dal fatto che il cognato è un alto ufficiale della DEA, e il suo socio d’affari Jesse è un suo ex-studente fallito. È in buona sostanza lo studio di un personaggio, o di due personaggi, ma comunque è meno interessata alle strutture socio-economiche del traffico della meth in cristalli rispetto all’effetto di questo traffico sugli individui coinvolti. Nonostante tutto ciò, ho trovato Breaking Bad convincente.

Walter White è interpretato da Bryan Cranston, attore famoso soprattutto per la parte del padre in Malcolm. Ha un talento da attore comico per la farsa, e nella prima stagione utilizza questo talento per incarnare l’onta della vita contemporanea. È un insegnante appassionato, ma il suo entusiasmo è risulta in un effetto comico davanti a una platea di studenti annoiati. I soldi sono tirati, per cui dopo la scuola Walter lavora in un autolavaggio dove lava le macchine di alcuni di questi stessi studenti. All’inizio la sua diagnosi e la sua discesa nel crimine liberano Walter, che diventa, per così dire, un uomo tra due morti. La sua sentenza di morte è stata è stata emessa, dunque è un uomo libero. Egli usa questa libertà non solo per intraprendere una nuova vita come barone della droga, ma per fare fronte agli oltraggi della vita quotidiana – lasciare il lavoro all’autolavaggio e fronteggiare odiosi bulli e yuppie. Sarebbe sbagliato però vedere Walter come un ribelle, qualcuno che si è liberato dalle norme della società, tutta la sua impresa criminale si riduce a un onnicomprensivo ideale virile: essere un buon padre di famiglia. Una cosa è fuggire dalla paura della morte, una paura che ci impedisce di prendere dei rischi, ben altra cosa è fuggire dalle nostre ideologie più interiorizzate. Walter, l’ex insegnante di chimica dai modi pacati, può fronteggiare un signore della droga, può persino commettere un omicidio, ma non può sopportare l’idea che la sua famiglia prenda dei soldi da altri.

Questo ideale del padre di famiglia diventa via via più patologico nella seconda stagione, quando Walter distrugge la sua posizione di padre, marito e insegnante allo scopo di fare più soldi. Per salvare la sua famiglia deve distruggerla. So che molti sono rimasti delusi dalla tanto attesa puntata finale della stagione, quando le scene di distruzione anticipate per tutta la stagione si sono rivelate qualcosa di diverso rispetto a un drammatico confronto con i cartelli messicani. La vera devastazione è però avvenuta pochi secondi prima, quando Walter si dimostra incapace di riconoscere il rispetto della propria famiglia, vedendo solo la necessità di fare più soldi. Il denaro si configura dapprima come una sorta di polizza assicurativa, poi come un modo per pagare le cure per il cancro, e infine diventa esso stesso il fine, un puro simbolo del potere maschile.

C’è un senso in cui la parabola di Walter è strutturalmente simile a quella di Stringer Bell di The Wire. Con Stringer la narrazione centrale è un sogno americano, un’ascesa a partire dalla storia-pretesto del tentativo da parte di un uomo di passare da spacciatore a palazzinaro, se non fosse per una perversione oscura di questa narrazione in cui i due, spacciatore e uomo d’affari, si mostrano essere non così tanto differenti. Il traffico di droga mette in mostra il calcolo spietato che sta alla base del capitalismo. La storia di Walter è la storia di una caduta da rispettato uomo di famiglia a spacciatore di meth, ma la rifrazione è la stessa. Quello che la serie mette in mostra, o patologizza, non è tanto la spietata capacità di calcolare, ma la mascolinità stessa, o almeno un ideale di mascolinità come padre di famiglia.

Come considerazione finale aggiungerò che una delle cose interessanti della serie è che si tratta per molti aspetti di una serie sulla conoscenza e i suoi limiti. In primis della chimica, che funziona come metafora centrale della serie (la composizione e decomposizione delle relazioni, l’immagazzinamento e il rilascio di energia) mentre simultaneamente serve anche come modo di pensare effettivo. Walter è ingegnoso nell’usare la chimica per risolvere ogni problema, da una batteria d’auto morta a un corpo morto. Tuttavia, egli non ha la minima idea di come funzioni il traffico di droga, ed è qui che entra in gioco Jesse, il suo ex-studente. Gran parte dello humour nero della serie deriva dai battibecchi delle conversazioni tra l’insegnante di chimica e lo spacciatore di basso livello, ciascuno ignorante rispetto al bagaglio di conoscenza dell’altro. Infine, la serie parla di un altro limite del linguaggio, non quello della chimica o quello della strada, ma una ignoranza fondamentale riguardo se stessi. Nonostante tutto il suo sapere Walter reagisce a tutto emotivamente, passando dalla disperazione alla rabbia. A costo di scadere nel cliché socratico, egli non sembra conoscere sé stesso, e questo – non i messicani o la DEA – sarà la sua rovina.

Nelle scorse settimane ho anche letto la critica culturale e politica alla contemporaneità di Bernard Stiegler. Una delle cose che egli sottolinea è che la società moderna iperindustriale è una società di pulsioni, di impulsi, non di desideri. I nostri media attuali ci stimolano a provare rabbia, umiliazione, lussuria, ecc., mentre distrugge ogni senso di valori condivisi, dei valori sublimati necessari per il desiderio. Nonostante la sua intelligenza, Walter è pienamente una figura di questo regime degli affetti, prova un profondo senso di rabbia, umiliazione e, a volte, orgoglio, ma tutti questi affetti sono immediati e intransigenti. Egli non è tanto un personaggio, una persona con una storia e un posto nella società, quanto un insieme di affetti e impulsi.

In ultima analisi questo potrebbe spiegare la centralità della “lotta alla droga” come metafora per comprendere la società contemporanea. Essa offre la più chiara illustrazione del bisogno, della dipendenza, della cupidigia, del mercato come fonte di tutti i nostri dolori e piaceri.

 

2. Il methlab della democrazia: Ancora sulla micropolitica del neoliberismo

In un episodio recente del Daily Show, Jon Stewart, in una battuta più arguta di quanto egli stesso creda, si è riferito all’Arizona come al “methlab della democrazia”. Il suo riferimento era soprattutto alla legge sull’immigrazione: probabilmente Stewart intendeva dire semplicemente che la legge dell’Arizona è folle, e dunque un methlab (folle e razzista, ed effettivamente lui centra alcuni punti anche riguardo al secondo aspetto, paragonando la legge alla legislazione dell’era schiavista). Tuttavia, credo ci sia una buona ragione per cui la “meth” è la droga della nostra era, allo stesso modo in cui l’erba, il crack e la coca sembravano tutte in relazione metonimica con le rispettive ere, esprimendo la ribellione “di evasione” degli anni Sessanta, la povertà urbana dell’era post-diritti civili e l’“esuberanza irrazionale” degli anni novanta (qualcosa, questo, che la sottovalutata serie TV Breaking Bad ha recuperato: essa non parla solo di meth ma è ambientata nei negozi a schiera e nelle aree residenziali del New Mexico, riflettendo la nuova dimora spirituale dell’America). L’ingrediente principale della meth è sintetizzato nei laboratori delle corporation, ma è “cucinato” nei campi caravan. La meth rappresenta insomma il breve circuito tra potere corporativo e rabbia rurale che sembra definire la politica americana contemporanea.

L’ultimo numero di Harper’s Magazine offre poi una disamina dell’Arizona come laboratorio politico d’America, un luogo in cui il “tea party” ha già preso il potere. Forse la parte più interessante dell’articolo è la citazione seguente di un anonimo dipendente del governo:

“La gente che ha le piscine non ha bisogno di parchi pubblici. Se ti compri i libri da Borders non ti servono biblioteche. Se i tuoi figli vanno alle scuole private, non ti serve che l’educazione sia pubblica. La gente qui, o per lo meno quella che vota, non vede la necessità di un governo. Siccome la maggior parte della popolazione non sono cittadini, il messaggio che passa è che il governo esiste per aiutare gli immeritevoli, quindi non dovrebbe esistere del tutto. La gente pensa che vada bene tagliare le spese perché i corsi di inglese per stranieri sono per chi si rifiuta di assimilare e la previdenza sociale paga per i clandestini.”

Lasciando da parte per il momento la bizzarra e razzista identificazione tra non-cittadini e immeritevoli alla fine del passaggio, la prima parte è sorprendentemente simile a un passo dell’analisi del neoliberismo di Wendy Brown:
“Convertendo ogni problema sociale o politico in termini di mercato, il neoliberismo li converte in problemi individuali con soluzioni di mercato. Gli esempi negli Stati Uniti sono una marea: l’acqua in bottiglia in risposta alla contaminazione dell’acqua del rubinetto; scuole private, charter school e buoni scuola in risposta al crollo di qualità dell’educazione pubblica; sistemi antieffrazione, guardie di sicurezza private e comunità (e nazioni) recintate in risposta alla produzione di una classe di rifiuti e alla sempre più intensa diseguaglianza economica; farmaci di marca in risposta allo sgretolarsi della sanità pubblica; il controllo genitori in risposta all’esplosione di materiale violento e pornografico di ogni tipo sul piccolo schermo; strumentazioni e tecnologie ergonomiche in risposta alle condizioni di lavoro del capitalismo dell’informazione; e, ovviamente, antidepressivi finemente etichettati e titolati in risposta a una vita priva di significato o in alternativa a una disperazione vissuta tra ricchezza e libertà. Questa conversione di problemi socialmente, economicamente e politicamente prodotti in oggetti di consumo depoliticizza quanto è stato storicamente prodotto e in modo particolare depoliticizza il capitalismo stesso. Inoltre, delegando al privato tanto i problemi politici quanto la loro risoluzione, la razionalità politica neoliberale dissolve la vita politica o pubblica: il progetto di navigare il sociale si trasforma interamente in quello di individuare, permettersi e procurarsi una soluzione personale a un problema socialmente prodotto. È depoliticizzazione a un livello mai visto prima: l’economia le si attaglia a misura, la cittadinanza ne viene organizzata, i media ne sono dominati, mentre la razionalità politica del neoliberismo la fissa concettualmente e la promuove.”

Come ho argomentato altrove, il passo di Wendy Brown e le considerazioni sull’Arizona mostrano una sorta di micropolitica del neoliberismo: il modo in cui il neoliberismo opera non solo al livello della politica statuale ma al livello delle pratiche quotidiane e delle transazioni giornaliere. Queste pratiche e transazioni producono un soggetto che si percepisce come isolato e autonomo, producendo una disconnessione che oscilla tra libertà assoluta e alienazione totale.

Quanto sopra si propone come un collegamento al recente editoriale di J.M. Bernstein per la sezione di filosofia del New York Times. Bernstein scrive quanto segue:
“La mia ipotesi è che ciò che tutti gli eventi che accelerano il movimento del Tea Party hanno in comune è il fatto che essi hanno mostrato, enfaticamente e incondizionatamente, quanto è profonda l’assoluta dipendenza di tutti noi nei confronti dell’azione del governo, e così facendo hanno minato la diffusa finzione dell’autonomia individuale e dell’autosufficienza che sono parti integranti della collettiva immagine di sé che gli americani hanno.

L’accordo implicito che molti americani hanno stretto con le istituzioni statali che supportano la vita moderna è che esse possono essere politicamente accettabili solo nella misura in cui rimangono invisibili, e che in ogni intento e scopo ogni cittadino possa continuare a credere di essere sovrano sopra la propria vita. Egli continuerà, ovviamente, a pagare le tasse, a utilizzare strade e scuole, a usufruire di Medicare e della previdenza sociale, ma solo fintanto che queste possono essere percepite non come dipendenze radicali bensì semplicemente come le condizioni per condurre una vita autonoma ed autosufficiente. Gli eventi recenti fatto questo accordo in brandelli.”

Bernstein vede il Tea Party soprattutto come un conflitto tra due visioni della libertà: una liberale, in cui la libertà è naturalmente data e deve essere realizzata, e l’altra hegeliana, in cui la libertà è un prodotto storico, reso possibile dalle istituzioni. Va tutto bene, ma Bernstein sostiene poi che il Tea Party è una ribellione metafisica piuttosto che politica: non ha nessuna proposta concreta e reagisce soprattutto alla perdita di un’idea metafisica, quella dell’individuo. L’opposizione tra metafisico e politico tralascia del tutto la dimensione dell’economia politica, o, come preferisco chiamarla seguendo le indicazioni di Wendy Brown e dell’anonimo cittadino dell’Arizona, la micropolitica dell’economia politica, il punto in cui l’economia politica interseca e trasforma la soggettività. Una risposta adeguata alla congiuntura attuale non può ritornare semplicemente all’opposizione tra Locke e Hegel, o tra politica e metafisica, ma deve prendere sul serio le intersezioni trasversali tra politica, economica e metafisica. (Peraltro, questo è ciò che Hegel fa nella sua discussione della “società civile”.)

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