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Perché amiamo alcune serie Tv – Into “The Wire” (pt 2)

                                                                                                 Jay Landsman

 

La decostruzione delle narrative convenzionali rispetto al tema della legge e dell’ordine operato da The Wire offre una visione anomala della società americana. E’ anche per questo che si sono succedute molteplici riflessioni rispetto a The Wire, di cui segnaliamo questo interessante spunto (dal quale sono prese alcune citazioni e considerazioni nel presente articolo)e anche un libro: “The Wire: Urban Decay and American Television“.
Dicevamo comunque nella parte 1 che The Wire è sostanzialmente un ritratto urbano, attento ai suoi ritmi dettagli sfumature interstizi soggetti confini intarsiature. Comparato alle opere di Zola, Balzac e Dickens, questo importante spaccato della questione urbana americana è una visione certamente distorta ed a tinte fosche, eppur affascinanti, del lontano adagio weberiano “l’aria della città rende liberi“. Qui non c’è libertà possibile. Si manifesta una sorta di “stato di natura” hobbesiano in cui ognuno è lanciato in una corsa alla sopravvivenza del tutti contro tutti. Non ci sono isole felici: gli amori finiscono in tradimenti e abbandoni; i legami delle gang con l’omicidio o la delazione; sul lavoro ci si frega di continuo vicendevolmente ecc…

La serie si è conclusa nel 2008, e sei anni per una città statunitense possono voler dire trasformazioni anche radicali. Tra l’altro la diffusione della serie ha funzionato anche parzialmente come attrattiva turistica, arrivando a costruire una vera e propria mappa per visitare i luoghi di The Wire, ad esempio. Molto più interessante sarebbe invece poter capire quanto e di che tipo sia stata l’influenza della serie sugli abitanti di Baltimore. Saranno nati tanti piccoli Striger ecc… identificatisi nel modello rimbalzato dalla televisione? Certo, a differenza di altre retroazioni tra “virtuale” e “reale” in cui il primo è stato prodotto astraendo dal secondo (mitizzando certe figure), in The Wire non vi sono canonizzazioni, né giudizi morali e ricerche di Bene e Male. Inoltre il cast è stato fatto anche tra molti abitanti non attori per aumentare la ricerca di realismo. Dunque magari è più difficile produrre un effetto mitizzazione rispetto a figure che ti appaion come quotidiane. Ma chissà…. D’altro canto molti dei personaggi sono effettivamente caratterizzati spesso a partire da figure non realistiche, ma reali.

Omar Little, uno dei personaggi più intriganti (figura anarchica: eroinomane, violento ma con una rigida etica di giustizia, omosessuale, smargiasso, per vivere ruba droga e soldi alle gang in una continua guerra con queste istituzioni dell’imprenditoria illegale), è effettivamente esistito. Il suo nome è Andrew ed è morto un paio d’anni fa. Era appunto un mago del furto di droga in continua lotta con le gang. Nato in un project (casa popolare) di West Baltimore, abusato dalla madre e spettatore del suo primo omicidio a dieci anni (un uomo ucciso per 15 centesimi), ha fatto una vita sempre fuori e dentro dal carcere per varie rapine e vendita di droga. Venne condannato all’ergastolo per due omicidi nel 1987. I due autori di The Wire lo assumono come consulente, aiutandolo ad uscire di galera nel 2005. E probabilmente è a partire dai suoi racconti che sono stati costruiti altri due (tra gli svariati) personaggi degni di nota: Stringer e Avon. Così come Jason Read scrive:
“con Stringer la narrazione centrale è un sogno americano, un’ascesa a partire dalla storia-pretesto del tentativo da parte di un uomo di passare da spacciatore a palazzinaro, se non fosse per una perversione oscura di questa narrazione in cui i due, spacciatore e uomo d’affari, si mostrano essere non così tanto differenti. Il traffico di droga mette in mostra il calcolo spietato che sta alla base del capitalismo”.

 

Mentre nell’articolo citato in precedenza viene detto: “la traiettoria di Bell potrebbe essere letta come una variante di quello che Marx definiva quale “accumulazione primitiva”. Nei capitoli del Capitale sulla cosiddetta accumulazione primitiva Marx fornisce due argomenti distinti ma correlati. First, Marx counters the account of the formation of capital provided by political economy, an account that is presented as a moral tale dividing the thrifty from the wasteful. It is the original template for all Horatio Alger stories. Second, Marx provides his own historical account of the emergence of capitalism from feudalism, an account in which violence is an indispensable element. What is at stake in Marx’s theory (and in the works of such theorists as Althusser, Deleuze, and Negri that have developed these ideas) is less a matter of distinguishing between a positive or negative account of capitalism, in which capital is seen as either moral or immoral, than of working through the complex intersection of morality, desire, narrative, and violence that is at stake in life under capitalism. Capitalism cannot be separated from its narratives that equate financial worth and moral worth, as much as it continually undermines these narratives in practice”.

La traiettoria di Bell nel corso di The Wire non è una semplice illustrazione di questa teoria, ma la spinge sin dentro il presente. La serie mostra come nelle società capitalistiche la legittimazione equivalga al successo finanziario, e come ciò conduca alla svalutazione della vita umana. Per valere qualcosa, è necessario espropriare la vita di qualcun altro. Citando David Simon, egli sintetizza la maggore lezione dello show dicendo che “It’s the triumph of capitalism over human value”.
Ma, avviandoci alle conclusioni, torniamo a quella che abbiamo detto essere la vera protagonista di The Wire: Baltimore. Questa trama urbana che rende plastica ed iconica l’urbanizzazione capitalistica. Difficile fornirne una rappresentazione sintetica. Meglio comporla per frammenti infranti, far scorrere delle scene, alludere a sensazioni. Senza nessuna pretesa di esaustività ma anzi con voluta parzialità, e raccontando un arrivo entro uno di quelli che vengono chiamati “totally fucked up neighborhood”. A differenza di quanto fa Harvey, che guarda Baltimore dal suo “centro” fermo su una collina, attraversiamola a piedi partendo da est, dove si incrociano in aria reti di strade. Piloni di cemento le sostengono. Qualche sparuto capannone. Un drive thru di Mc Donald’s. Erba secca nelle poche aiuole. Un paesaggio per macchine, non per uomini. Non ci sono marciapiedi, ci si può avventurare solo a proprio rischio e a costo di molte suonate di clacson. L’atmosfera lunare e allucinata aumenta quando si iniziano ad assommare fabbriche abbandonate, discariche industriali nelle quali enormi ed affascinanti mostri di fili di acciaio arrugginito poggiate su terreni fangosi paiono come muoversi tra escavatrici senza pale e binari abbandonati che attraversano capannoni fatiscenti e diroccati. L’unico rumore è quello delle auto, e ogni tanto il sole illumina i grattacieli lontani. Proseguendo verso questa direzione si incontra un piccolo quartiere residenziale con alcune vie piuttosto cool, tra distillerie e pub ed un vicino parco con qualche installazione artistica e alcuni campi sportivi (si sta giocando una partita di baseball fra due squadre femminili, tutte bianche). Ma ecco che finalmente si arriva a Middle East, una delle parti considerate più pericolose. Sconsigliatissimo andarci. Quando dici a qualche studente della Johns Hopkins che sei andato lì esclamerà “Why! You are crazy man”. Ma a parte queste note di colore, un’inquietudine sale man mano che ci si addentra. Un po’ perché l’essere l’unico bianco e palesemente estraneo non è comunque sensazione piacevole. Un po’ perché le immagini, viste attraverso uno schermo, non rendono. Ma davanti ai miei occhi ecco molte scene di The Wire, in una versione non realistica ma reale, e talvolta peggio di quanto mostra la serie. Le strade sono sporche. Malmesse. Pochi e piuttosto miseri i negozi, male illuminati a neon. A molti angoli sono seduti tre o quattro giovani ragazzi con atteggiamento vagamente gangsta. I pochi scalini che escono dalle porte sulle strade sono zona di un chiacchericcio lento e di battute tra neri, in un tipico e fittissimo (e incomprensibile) slang. Passa lenta qualche grossa automobile: immancabile l’hip hop a tutto volume, le braccia fuori dal finestrino, gli sguardi glaciali, duri e indifferenti dall’interno, spesso solo intuiti dietro pretenziosi occhiali da sole. Si procede fra silenzi e ronzii lontani. Ci si addentra in stradine contornate da case diroccate. Pare esserci stato un bombardamento da poco. Alle finestre spunta qualche sguardo di donna: talvolta furtivo, ora curioso, ora assolutamente indifferente, ora fiero. Provi ad intuire come può essere l’interno di queste case. Spesso contornate da edifici sbarrati da lastre di legno. Butti una sigaretta per terra. Mancano pochi tiri. Un ragazzo che passa la raccoglie per finirla. Welcome nel deserto del reale. Tanti sorrisi degni e tanta, tantissima desolazione. Pare che alcuni dipartimenti della Johns Hopkins siano pieni di marxisti. Ma si ha come l’impressione che di qui non passino spesso…

Regna un senso di vuoto lasciato dalla distruzione delle relazioni sociali prima e dalla gentrificazione poi. Ma è quando pian piano si esce da Middle East (incrociando una macchina coi vetri fracassati, un cumulo di spazzatura, un paio di ragazzi che fanno rimbombare i palazzi vuoti impennando sulle loro truccatissime moto…) che si inizia a cogliere un senso nuovo. In quella che solo dopo si capisce essere l’ultima via del quartiere, ci si immerge nel pieno del vuoto: solo case sbarrate. Silenzio. Eppure girato l’angolo ecco svettare i palazzi dei dipartimenti di Medicina dell’università. Sono tutto sommato poche le decine di metri che le separano dalla fine di questa via. Metri riempiti da lavori in corso fangosi Si attraversa questo confine, che pare più un muro orizzontale che una frontiera, e ci si addentra tra alti edifici luccicosi dai quali escono bianchi in giacca e cravatta. Prati in aiuole curate ravvivano la vista. Parcheggi. Mezzi pubblici che scorrono. Ancora un po’ di passi e da lontano si può rimirare lo skyline di Baltimore. Il giro della città prosegue e si può farlo per ore. Ma alla fine sono quei pochi metri tra Middle East e la Johns Hopkins ad assumere tratti paradigmatici. A colpire ed in modo plastico mettere in forma una rappresentazione della società americana: povertà estrema e ricchezza, continuo cambiamento, separazioni in una impensabile vicinanza spaziale, fascino e odio. In quei pochi metri si possono cogliere il senso di una città duale, sono quei metri che si possono usare come punto di vista per interrogarla.

Immergersi dunque Into The Wire conferma una delle impressioni che la serie tv lascia: l’impossibilità di immaginare come riformare una scenario simile. Un’impossibilità che non denota tuttavia una tragicità. Nessuna riforma è possibile ma non tutto è scritto o controllabile/prevedibile. Non a caso l’autore di The Wire in un’intervista televisiva, commentando l’impossibilità di una riforma interna (ad esempio nuovi New Deal) e l’improbabilità di cambiamenti nel “systemic moral failure that actually threatens middle-class lives“, conclude che per quanto possa essere dura “maybe the only hope is anger”.

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