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Piazza Tiananmen, 25 anni dopo: Intervista a Jean-Philippe Bejà

In molti sostengono che la grande sfida della Cina di oggi consista nel trovare un nuovo motore capace di sostenerne gli attuali ritmi di crescita economica. Ciò in seguito ai problemi derivanti dalla crisi del 2008, dal seguente calo della domanda internazionale, nonché dalla tendenza di molte aziende a spostare i propri investimenti in altri luoghi più profittevoli. Il passaggio da un’economia export-led ad una guidata invece dal consumo interno, nonché la creazione di una nuova classe media di consumatori, sembrano diventare sempre più un imperativo per il PCC. Concorda con questa lettura?

E’ una possibilità, è ciò che tutti gli economisti pensano; del resto significherebbe solamente seguire lo sviluppo avuto da tanti paesi dell’Asia Orientale prima della Cina. Io però non capisco cosa si intenda con questa “creazione di una nuova classe media” : se per questa si intende la volontà da parte del governo di costruire una classe di consumatori, questa a mio avviso esiste già. Secondo le fonti ufficiali la classe media rappresenta il 19% della popolazione, anche se la definizione di classe media è molto complicata e non tutti gli analisti sono concordi a riguardo. Ad ogni modo, il fatto che la Cina abbandoni in futuro il modello economico fondato sull’export per passare ad uno a trazione del consumo interno è molto probabile.

Uno dei punti di dibattito è quello riguardante la disciplina dell’hukou, il sistema di registrazione della residenza. Un dispositivo che nei fatti si qualifica come un grande ostacolo nei confronti delle aspirazioni di vita dei veri artefici del miracolo cinese, la “popolazione fluttuante”, i nonmingong. Il terzo plenum del Comitato Centrale del PCC di novembre ha fatto trasparire, anche nel Communiquè finale, la volontà di procedere con dei cambiamenti in questo senso; cambiamenti da inserire all’interno del complessivo progetto di sviluppo dell’economia interna. Cosa c’è stato di concreto da allora in poi, a livello di reali implementazioni?

Se ci sarà o meno una riforma dell’hukou è difficile per me dirlo, non mi sbilancio a far previsioni: fatto sta che la riforma dell’hukou è un tema di cui si parla da trent’anni, ed ogni volta sembra la volta buona. Il punto è che bisogna andare a capire qual è la funzione dell’hukou, viaggiare un po’ nella storia. L’hukou è un dispositivo di controllo sociale, per prima cosa, e in quanto tale non è detto che il Partito lo voglia abbandonare. Lo può rilassare, abbassare i controlli, come è stato già fatto negli ultimi vent’anni per incrementare la mobilità geografica e sociale soprattutto riguardo ai contadini che andavano a lavorare nelle fabbriche. Eppure non c’è mai stata una codificazione dei diritti acquisiti dai migranti, una garanzia della loro presenza.

Ora si parla di una grossa riforma dell’hukou, che concernerà però solo le città medio-piccole: qualcosa che contrasta con un’analisi dell’immigrazione cinese, dato che i contadini preferiscono andare verso le città più grandi dove ci sono maggiori possibilità di lavoro e di reddito. Inoltre, anche se ci fossero maggiori servizi sociali in nuove città, non è detto che la masse rurali non preferiscano piuttosto pagare cifre maggiori, rimanendo comunque vicini alle grandi città; dove il welfare, ad esempio, è migliore a livello di efficienza. Ma questo le riforme annunciate non lo prendono in conto, le decisioni annunciate non risolvono i problemi dei 25 milioni di migranti tra Pechino e la sua periferia, e di tanti altri milioni a Shanghai, a Canton.

Diciamo che almeno la metà dei nongmingong non avrebbero un reale cambiamento da questo tipo di riforma; i contadini dovrebbero acquistare un hukou nuovo, il quale gli garantirebbe un welfare tutto da vedere quanto a qualità, e al prezzo di abbandonare la loro terra. Ora come ora i nonmingong possono installarsi nelle piccole città senza cambiare hukou: non hanno accesso al welfare, ma le prestazioni di quest’ultimo non sono in generale così tanto eccezionali; i loro bambini a scuola comunque ci possono andare pagando. Probabilmente questa riforma annunciata servirebbe più che altro ai governatori locali per recuperare la terra e poter avere maggiori introiti fiscali.

Come valuti nello specifico il processo di urbanizzazione lanciato dal governo? Strategia lungimirante del partito che riuscirà nel suo ipotizzato piano, ovvero costruire immobili a centinaia nelle zone meno sviluppate destinate ad ospitare i nuovi cittadini urbani, mantenendo intanto l’ordine sociale? Oppure puro e semplice regalo agli interessi della speculazione, con i rischi di una bolla immobiliare che alcuni commentatori già prefigurano?

E’ difficile dirlo. Si parla di un piano enorme, che dovrebbe trasformare 250 milioni di persone in cittadini da qui al 2020, e che essendo fatto su iniziativa del Partito ricorda un po’ il modus operandi del grande balzo in avanti. Bisogna essere cauti, e infatti non è stato fatto alcun passo concreto dopo aver annunciato la decisione. Detto questo l’urbanizzazione è stato molto più un fenomeno spontaneo, con i primi lavoratori migranti che mettevano piede nelle città e poi costruivano intorno reti via via più grandi intorno alla loro comunità. Uno schema classico. E’ difficile dire se la riforma dell’hukou possa cambiare questa situazione, evitando la creazione di enormi bidonville ai margini delle città: questa questione dell’urbanizzazione implica la creazione di 150 milioni di posti di lavoro! Chi lo fa? Con quale soldi? Come? A me sembra un grande sogno, ma non troppo realistico. L’urbanizzazione continuerà, il governo incoraggerà lo sviluppo di città medie per evitare il sovraffollamento delle città più grandi, ma vedremo con quali risultati.

Tempo fa avevi espresso alcune tue considerazioni riguardo l’importanza di quanto successo a Wukan, nel Guangdong, dove avvenne una forte protesta popolare contro le requisizioni governative della terra di qualche anno fa. Ora si parla di una riforma della proprietà della terra, al fine di favorire l’urbanizzazione; incrementando le possibili vendite di terreni, si sgancerebbe la popolazione rurale dalle campagne indirizzandola verso le città in via di sviluppo. E’ una strategia che può avere frutti?

C’è un grosso dibattito sul tema della proprietà della terra da almeno 15 anni. C’è chi dice che potendo vendere la terra, che è di proprietà collettiva ma data in usufrutto ai contadini, questi perderebbero l’ultima fonte di reddito sicura a loro disposizione, un posto dove tornare se dovessero perdere il lavoro in città. La terra è una garanzia sociale, anche se durante l’ultima crisi poca gente è tornata a coltivarla. Se si va nelle zone rurali, nei villaggi si vedono solo anziani e bambini; comunque non ci sono dati o cifre ufficiali su questo.

C’è chi è per mantenere questa forma di garanzia sociale e chi invece punta al dare ai contadini maggiore autonomia di poter decidere se rinunciare o meno, dietro compensazione, all’usufrutto del loro pezzo di campagna. Quest’ultima ipotesi innalzerebbe senza dubbio flessibilità e mobilità sociale, anche se nell’ultimo Plenum anche su questo non si è visto alcun discorso reale oltre le parole del Communiquè finale. Mantenere la proprietà collettiva inoltre servirebbe anche ai governi, che possono vendere la terra per fare cassa quando serve, compensando la gente ma a prezzi che vogliono loro, aggirando le poche regole esistenti. I contadini al momento vendono solo le case che costruiscono sulla terra che hanno da coltivare, spesso a cittadini urbani che acquistano la seconda casa in campagna. Ma la terra ancora non si può vendere.

Quanto invece ritieni importante, nel complesso momento storico del paese, le conseguenze dell’aumento esponenziale negli ultimi anni della conflittualità sui luoghi di lavoro, contro le requisizioni dei terreni, contro la deteriorazione ambientale e territoriale? C’è stata una spinta sociale che ha in qualche modo costretto il governo a dover modificare alcune sue politiche? Puoi farci una breve cartografia degli “incidenti di massa”, come li chiama il governo?

Si sono moltiplicati, senza dubbio, i cosiddetti “incidenti”, se non sbaglio erano 120.000 nel solo 2012, ma la definizione stessa di “incidente collettivo” è molto vaga. Nel Guangdong, nel Delta del Fiume delle Perle è sicuro, anche secondo China Labour Bulletin, che questo aumento abbia incoraggiato il negoziato collettivo nelle fabbriche, anche se ancora non è tanto diffuso. Il governo locale, di fronte alla moltiplicazione di questi scioperi, sta cercando nuove soluzioni: in alcuni casi si va verso un riconoscimento (seppure minimo), verso un’accettazione della contrattazione tra impresari e i rappresentanti degli operai, delle ONG, sulle condizioni dei lavoratori, anche se questo meccanismo resta completamente non istituzionalizzato. Nel frattempo di tanto in tanto a Shenzhen la polizia obbliga gli impresari a cacciare i sindacalisti, arresta leader di scioperi..la situazione non è per niente definita. Il governo del Guangdong comunque deve limitare i disordini che si stanno moltiplicando, e che hanno costruito un’immagine negativa della regione all’estero dopo soprattutto quanto successo nel 2010.

Per le lotte che riguardano la terra, il caso di Wukan fu importante, ma due anni dopo si vede che il segretario locale del partito è tornato al potere. Dipende tutto dai rapporti di forza locali: ci sono le guidelines del governo centrale sulla gestione dei conflitti, ma questo tende a intervenire pochissimo perchè non gli conviene farlo. Interviene solo in caso di problema internazionale, reprimendo o procedendo a negoziati, anche se spesso chi si rende protagonista di quest’ultima opzione non ne guadagna in termini di carriera. Sul fatto che diversi conflitti abbiano aumentato la coscienza dei diritti dei cittadini non c’è dubbio: sui cambiamenti della politica governativa è meno difficile esprimersi con sicurezza. Bisognerà capire se coscienza dei diritti e abilità tattica nel gestire i conflitti costringeranno il governo a cambi nelle politiche su questo tema, ma è ancora presto per dirlo.

Altre due questioni sono al centro del dibattito politico. Una è la questione dell’inquinamento e delle ricadute di questo in termine di conflitti sociali ma anche di crescita distorta dell’economia sotto forma di costi aggiuntivi. Un altro invece è il tema della corruzione, sempre più presente a livello locale ma anche sempre più insopportabile per la popolazione. E, con la cosiddetta campagna contro “tigri e mosche”, contrastata anche nella retorica ufficiale del Partito.

La corruzione è il grande cavallo di battaglia di Xi Jinping sin dal suo avvento al potere. Corrisponde a due cose. Primo, al fatto che Xi Jinping usa le risorse del maoismo per consolidare il suo potere. Xi chiama i quadri del partito a ristabilire lo stile corretto di lavoro, a riprendere quello spirito di servizio verso il popolo portato all’estremo durante la Rivoluzione culturale. Vuole ristabilire la rigidità del Partito facendo leva proprio sulla “buona tradizione del PCC”, su un passato mitizzato dove i quadri non erano corrotti ma anzi davano la vita per il loro popolo. Se si guarda la tv tutti i giorni c’è una piccola trasmissione propagandistica dove c’è sempre la storia di un eroe altruista– non solo del partito – che ha dato la vita, ad esempio pompieri che muoiono salvando vite e cosi via. E’ un dispositivo, un uso delle risorse ideologiche maoiste per rafforzare la legitimità del Partito.

La seconda ragione della campagna anticorruzione è ovviamente una rincorsa populista, dato che chi lotta contro i corrotti ottiene l’appoggio popolare, come aveva ottenuto ad esempio Bo Xilai. C’è quindi sia una funzione ideologica, importantissima nella politica di Xi, sia politica, di chiamata del popolo ad appoggiarlo e a legittimare la sua leadership e le sue mosse. Ovviamente è anche un modo di rafforzarsi internamente al partito, ma questo è molto rischioso. Non si vedono infatti chi possano essere i suoi alleati.

Prendiamo il caso di Zhu Yongkang. Se verrà apertamente processato, non come adesso che è ai domiciliari, allora tanti altri potrebbero iniziare a essere critici verso Xi. Quest’ultimo dice di voler fare la lotta ai gruppi di interesse che si sarebbero sclerotizzati all’interno del partito e che hanno in mano le chiavi dell’economia. Però come fa, lui contro tutti? E’ probabile che, anche se Zhu Yongkang non ha molti amici, altri potrebbero iniziare a dirsi “Se ha toccato lui, perchè un giorno non dovrebbe toccare me?”. Quindi ci sono problemi se processa Zhu, ma anche se non lo processa, perchè questo poi macchierebbe la sua immagine di fronte al popolo. La situazione è molto difficile, e Xi ha cercato di uscirne concentrando tutti i poteri nelle sue mani. Anche questo però è da vedere nella materialità dei processi, non è detto che Xi riesca a seguire in prima persona la questione economica, la questione della sicurezza, la questione del controllo sulla rete..bisogna capire chi lo appoggia, quali fazioni lo appoggiano.

Molto spesso in Occidente, a fini ovviamente politici di creazione dell’altro, di nemicizzazione, il PCC è visto come un monolite inscalfibile, popolato da automi quasi privati di volontà. Qual è la realtà del dibattito interno al Partito, tra le fazioni che invece lo compongono?

Questa non è una questione relativa alla narrazione occidentale, ma della stampa cinese, di come questa narra il Partito, dicendo che non ci sono differenze interne, che non ci sono fazioni, discussioni e così via. La stupidaggine occidentale è di bersi queste cose senza riflessione critica. La stampa cinese è quella che afferma che il partito è unito, ha una meta precisa, è saldo e sicuro nella sua guida e via di questo passo. Non c’è trasparenza, si possono fare solo congetture su chi è per cosa o chi per altro. E’ difficile dire se un dato politico è più vicino alla società o all’elite. C’è anche una divisione di ruoli fra il segretario generale e il capo del governo, con il primo che è il “buono” e il secondo che è il “cattivo”, sin dai tempi di Mao Zedong. Non ci sono mai dibattiti istituzionalizzati nel partito, anche se i membri hanno tutte opinioni diverse queste vengono espresse in privato, e quelle critiche sono concesse solo ai membri più anziani della struttura.

Ultima domanda. Hai descritto la guerra dell’oppio come l’ingresso della Cina nella modernità, e il 4 maggio 1919 come l’ingresso degli intellettuali nella sfera politica cinese. Rispetto a queste riforme annunciate dal partito, si può immaginare anche l’inizio di un processo politico che possa ridare maggiore libertà di manovra ai cosiddetti intellettuali? Siamo anche nel venticinquennale di TienAnMen..

L’intellighenzia cinese è sempre stata divisa tra due posizioni, talvolta assumendole entrambe nello stesso momento. Una è quella di essere il consigliere del principe, l’altra di essere portavoce della società. Nell’89 si è visto benissimo il passaggio; fino al 13 maggio continuava ad essere consigliere del principe, per poi passare, dopo la fase degli scioperi della fame, dalla parte della società. Ovviamente stava in quella fase cercando di fare una legittima mediazione tra i riformatori nel Partito e il movimento sociale, cercando di evitare lo scontro tra i due e riversando questa unione contro i conservatori. Si voleva anche impedire che un forte disordine potesse contribuire ad una dura reazione del Partito, che poi c’è stata nei termini che conosciamo.

Negli anni ’80 la grande parte dell’intellighenzia uscendo dalla Rivoluzione Culturale era favorevole alle riforme, appoggiandosi nelle figure di Hu Yaobang e Zhao Ziyang. Nell’89 si è dimostrato che la riforma era pericolosa, dato che si rischiava, stando con la società, di finire in galera: dopo i fatti di Tienanmen non finirono in galera solo operai e studenti ma anche tanti intellettuali. Nel ’92 si è invece firmato una sorta di contratto tra Deng e l’intellighenza: in cambio di una situazione materiale corretta, della possibilità di viaggiare all’estero e diventare professionista, di partecipare alla vita scientifica internazionale l’intellettuale doveva disciplinarsi e non mettere in questione il potere del Partito.

A questo punto ci sono state diverse posizioni: c’è chi ha accettato questo contratto, dicendo che la Cina non era pronta per la democrazia. C’è chi invece, in un’analisi assolutamente marxista, si esponeva in questi termini: nell’89 si è fallito perchè la base economica per una “società civile” autonoma non c’era. Bisognava quindi sviluppare questa struttura economica, e solo dopo questo sviluppo ci sarebbero potute essere le basi per la separazione tra società e Stato e per l’organizzazione contro di questo; un’analisi non certo stupida, ma che consentiva comunque di accettare il fatto compiuto smettendo di rischiare. E poi ci sono invece i cosiddetti dissidenti, come Liu Xiaobo, che hanno rifiutato questo pensiero, rinominandolo “La filosofia del maiale”, ovvero il partito-contadino che mette all’ingrasso il maiale-intellettuale che sta bene e non pensa, attaccando quindi duramente le altre scelte.

Una serie di posizioni che ovviamente vanno lette anche alla luce del nuovo ruolo acquisito a livello geopolitico dalla Cina..

Nei primi 3-4 anni dopo il 2000 e dopo le Olimpiadi, la Cina è diventata nuova potenza mondiale e molta dell’intellighenzia ora supporta attivamente il Partito e il Sogno cinese di Xi Jinping: del resto questo sogno è quello di ridare alla Cina una forte posizione sulla scena mondiale. Una parte di intellighenzia dice che bisogna quindi evitare il caos, evitando di battersi per la democrazia perchè questa potrebbe danneggiare la crescita cinese, necessaria per una società felice. Bisogna appoggiare il Partito perchè così la Cina diventerà sempre più potente. Questa è una parte importante dell’intellighenzia, anche se rimangono parti, soprattutto nell’ambito della sociologia, che continuano a battere sul tema dei problemi sociali e ritornano ad essere in alcuni casi portavoce della società. Lavorano quindi anche per lo sviluppo della società civile, criticano il Partito dicendo che il ruolo dell’intellettuale dev’essere proprio quello di critica al Partito.

Gran parte dell’intellighenzia liberale, che pone l’accento sui diritti civili e sulla democratizzazione, continua ad avere voce sebbene sia molto spesso repressa. Molto forti sono invece i nazionalisti, o meglio gli Statisti veri e propri, che supportano fortemente le politiche dello Stato. Paradossalmente la Nuova Sinistra, molto maoista, appoggia la struttura del potere in Cina; dice che il Partito erra talvolta nella sua politica, ma che il sistema è innovativo e la democrazia non serve, anzi. Talvolta trovano eco nelle posizioni dei neo-confucianisti, quindi della destra dell’intellighenzia, e spesso vengono, insieme a questi ultimi, ripresi e utilizzati anche dall’intellighenzia interna al Partito, del Dipartimento della Propaganda.

Diciamo che la situazione è polarizzata tra una metà liberale e una metà delle altre varie posizioni (neo-maoisti, nazionalisti, neo-confuciani). E poi ci sono i dissidenti, che ultimamente si stanno molto legando alle esperienze di avvocati difensori dei diritti civili. Ad esempio abbiamo avuto il Movimento dei Nuovi Cittadini, ma soprattutto il Movimento degli Avvocati che esiste dal 2003 e usa il suo attivismo per fare applicare realmente la costituzione del paese nei tribunali, usando tutti i metodi legali e mixandoli con un utilizzo tattico della stampa. Il Movimento Nuovi Cittadini è invece più sulla strada, più movimento politico. C’è quindi una sorta di cyber-spazio, di serie di reti che esistono e non sono formalizzate, e che si stringono e si allargano a seconda dell’intensità della repressione. Uno spazio non strutturato, in un contesto che non vede una società civile istituzionalizzata, e che riesce a scappare dal controllo del Partito e che continua ad esistere..

Chongtu

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