QATAR 2022, L’ipocrisia utile
Se si potesse dare una definizione alla discussione sulle prese di posizione – tutte simboliche, per carità – mostrate da alcune nazionali europee in questo avvio di qualificazioni ai Mondiali di calcio Qatar 2022, partirebbe da una domanda: serve davvero darne una lettura moralista?
Spieghiamo. Nessuno crede alla favola dello spontaneismo attivista dei calciatori della Norvegia, come di quelli di Germania, Olanda e Danimarca, citando le tre realtà che in ordine di tempo si sono rese protagoniste di questa chiamata a raccolta in difesa dei “Diritti Umani“, guardandosi però bene dal tirare in ballo esplicitamente la prossima FIFA World Cup, per non incappare in sanzioni o squalifiche. Una considerazione che è tanto ovvia da non richiedere nemmeno grosse argomentazioni, ma non costa nulla ribadirlo: siamo tutti consapevoli di quanto il Qatar sia già una presenza solida – e in costante crescita – nel mondo del calcio, in termini di controllo dei club, sponsor, organizzazione eventi e altro ancora; e, soprattutto, siamo altrettanto consapevoli di quella che è la cruda realtà, ossia il continuare a spendere energie per seguire e raccontare ciò che ci pungola di uno sport in cui convergono lucidamente tutti i peggiori vizi del sistema capitalista.
Un’altra premessa è che la parola “boicottaggio” finora non è mai stata effettivamente menzionata dagli addetti ai lavori, se ne parla tra tifosi e opinionisti come tra avventori in una trattoria (pre-Covid). Joshua Kimmich, centrocampista del Bayern Monaco e della Germania di Low, nonché uno dei principali calciatori a farsi carico dell’urgenza di un impegno condiviso su questi temi, ha però anche aggiunto – come riporta l’Equipe – che, secondo il suo parere, ormai non ha senso mettere a rischio la competizione:
Avremmo dovuto pensarci per tempo al boicottaggio. Siamo in ritardo di 10 anni.
JOSHUA KIMMICH
Tanta indignazione e poco altro. Tutto riassumibile nelle dichiarazioni del capo dell’ASF, la federcalcio svizzera, Dominique Blanc: «Vogliamo usare il nostro dialogo con Amnesty International e la FIFA per fare una campagna attiva per il rispetto dei diritti umani e il miglioramento dei diritti dei lavoratori, sfruttando così al massimo la nostra influenza. Anche Amnesty non è a favore del boicottaggio. Siamo convinti che il calcio sia un potente strumento per promuovere valori fondamentali come la tolleranza, il rispetto o l’uguaglianza. Ma sempre usando il dialogo e non coi mezzi del boicottaggio, che secondo noi è meno efficace».
Come sempre, più schietto e in qualche modo illuminante Mino Raiola, tra i principali manovratori di atleti e affari del pallone contemporaneo, che alla trasmissione Studio Voetbal ha messo la cornice al quadro Qatar 2022: «Penso che la politica vada tenuta lontana dai giocatori […] La FIFA ha chiaramente dichiarato nei regolamenti che non è consentito fare dichiarazioni politiche durante una partita di calcio. Bisogna dire: I giocatori sono fuori, è qualcosa che riguarda FIFA, Qatar e federazioni affiliate».
Se i giocatori vogliono fare una dichiarazione da soli, va bene, hanno i loro canali social per parlare.
MINO RAIOLA
Insomma, non c’è nessuna posizione estrema con cui schierarsi, e lo stesso ct della Norvegia – federazione che si è esposta maggiormente – ha parlato tuttalpiù di “pressione” per far sì che vengano prese «misure volte a migliorare le cose». Detto ciò: fosse anche solo questo, non sarebbe meglio comunque parlarne, piuttosto che buttarla in fallo laterale tirando in ballo l’endemico irriformismo del calcio?
Se ritenessimo inutile affrontare le battaglie in questo campo, che senso ha avuto – fino all’altro ieri – spingere i più disattenti a cogliere i link tra repressione allo stadio e repressione nelle piazze?
Inoltre, se persuadessimo il pubblico più giovane all’idea che non c’è un calcio “per forza” e che un giorno – magari non succederà stavolta – sarebbe anche bello che lo show saltasse, non avremmo comunque contribuito ad alimentare un po’ di senso critico?
Se anche soltanto alimentandone la discussione si riuscisse a tenere aperti gli occhi su un’organizzazione che ha portato – stando ai numeri del FairSquare Projects pubblicati dal Guardian tempo fa – ad almeno 6.500 operai caduti durante o causa dei lavori per tirare su le strutture dei Mondiali Qatar 2022, e le autorità qatariote si ritrovassero così costrette a mettere in campo azioni per evitare ulteriori vittime e migliorare le condizioni di tutto l’indotto, non sarebbe forse un piccolo passo avanti?
Una t-shirt con la scritta Human Rights indossata dal giovane bomberone (del giardino Raiola) Erling Haaland non salverà mica il proletariato. Marcus Rashford, che nei giorni scorsi ha criticato anche il trattamento salariale di Deliveroo – peraltro sponsor della nazionale inglese – non diventerà di certo Nelson Mandela.
Aspettarsi la rivoluzione da professionisti multi-milionari è una pretesa che persino noi, utopisti per attitudine, dovremmo mettere da parte, onde evitare di andare incontro a brutte figure. Ma il mondo dello sport non è fatto solo di Smith, Carlos e Muhammad Ali – anzi, ne ha visti davvero pochi – quindi ben vengano adesso tutte le strade per portare a galla il peggio.
A chi guarda, ricostruisce e pretende di raccontare spetta, poi, il compito di prendere solo il meritevole da queste operazioni, di rimuoverne l’opacità, sezionando progressismo e opportunismo. Partecipazione e strategia.
In fondo, se qualcuno volesse veramente approcciare al tema seguendo profondi canoni etici e ideologici, Minuto Settantotto (e un mondo di pagine come la nostra) non dovrebbe nemmeno esistere, oppure dovrebbe parlare di alpinismo. Invece viviamo la contraddizione del pallone con tale consapevolezza che non vediamo alcuna buona ragione per negarla. Il calcio ha un’enormità di mali, non è che non sappiamo se sia meglio o peggio della società che lo contiene: è proprio questo paragone ad avere scarso appeal.
Perché a noi il pallone tutto sommato piace – ognuno a suo modo – e finché così sarà indagheremo tutte le vie per renderlo sempre un po’ più speculare al nostro modo di vedere la società – aperto, conflittuale, aggregante, spontaneo – perché continuiamo a pensare sia l’unica grande passione capace di condizionare testa ed esistenza di donne e uomini che lo praticano e lo guardano. Questo è il fascino che lo sport ha avuto, possiede tuttora ed avrà nel futuro, nonostante la velocità con cui i tempi moderni metabolizzano idee e fenomeni.
Il Mondiale in Qatar ci sarà, lascerà capitoli di vergogna tanto quanto ogni edizione disputata a oggi, e passerà. Diamogli almeno il modo d’essere utile.
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