QUANDO C’ERA BERLINGUER di Walter Veltroni, 2014
che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa
passando da Malcolm X attraverso Gandhi e San Patrignano
arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano
L. Cherubini – Io penso positivo
Confessiamo che è con notevole sforzo, pari a quello che ci è servito per recarci in sala, che ci accingiamo a parlare di questo film, diretto niente meno che dall’inossidabile ex direttore de L’unità, ex sindaco di Roma, ex segretario del PD, ex candidato premier Walter Veltroni. Visto lo spazio sul quale scriviamo, qualcuno si potrebbe chiedere chi ce l’ha fatto fare, e tutto sommato la domanda è pertinente. Il punto è che quando un film tratta di storia e politica del nostro paese, e più specificamente degli anni settanta, diventiamo curiosi. Per l’argomento in sé, e perché ci piace confrontarci con l’intelligenza del nemico. Anche perché sono poi i film come questo, quelli che finiscono in televisione e nelle scuole, e che vengono usati per raccontare ai “giovani” la storia. Comunque, che ci crediate o no, abbiamo guardato il documentario, per quanto umanamente possibile, senza pregiudizi, ostilità e partito preso.
Il film racconta, in quasi due ore, la carriera politica di Enrico Berlinguer, dagli esordi in Sardegna sino alla morte avvenuta nel 1984, attraverso immagini e filmati d’epoca, e contemporanee testimonianze di vari personaggi, essenzialmente appartenenti al mondo dei partiti.
C’è anche un prologo, in cui viene a chiesto ad alcuni studenti, insegnanti, lavoratori, pensionati chi fosse Berlinguer. La maggioranza delle persone non sa cosa rispondere, compresa un’elegante e lievemente imbarazzata professoressa di un qualche istituto superiore romano. E’ allora evidente che c’è bisogno di rinfrescare la memoria. A fare questo, ci pensa Walter.
Veltroni però, come dice il titolo della sua prima fatica cinematografica, non si limita a raccontare chi fosse Berlinguer. Il film si propone infatti di contestualizzare la figura del segretario del PCI, per raccontare anche cos’era l’Italia di quegli anni. Il problema è che questa operazione viene compiuta operando delle vere e proprie forzature storiche che riscrivono quegli anni secondo una prospettiva che mira a nascondere ogni possibile asprezza e ambivalenza del racconto, che per Veltroni deve invece sempre filare liscio come l’olio. A tutto vantaggio di una visione piatta, edulcorata e autoassolutoria della storia italiana.
Succede così che quando c’era Berlinguer, in Italia agivano, fra le altre organizzazioni, le Brigate rosse. E allora Veltroni intervista il più triste e inattendibile degli ex-brigatisti, Alberto Franceschini, il quale si cala nella parte dell’utile idiota e si premura di affermare che le Br furono lasciate “libere” di compiere il sequestro Sossi, e che se lo Stato avesse voluto, le avrebbe subito fermate. Franceschini cioè, avalla le tesi false, inverosimili e dietrologiche secondo cui le Br erano eterodirette, controllate, e strumento di chi voleva impedire al PCI di andare al governo. Che, guarda caso, era più o meno la tesi del PCI.
Oppure succede che quando c’era Berlinguer, c’erano anche dei giovani che non amavano Berlinguer, come per esempio gli autonomi. E’ davvero subdolo il modo in cui Veltroni liquida in pochi secondi (senza ovviamente nominarlo) il movimento del 77: ci sono dei giovani che ballano nudi nel fango, e poi ci sono le parole di Paperina nel film di Alberto Grifi sul parco Lambro che terminano con la frase “qui di democratico non c’è un cazzo!”. Fine.
Ma se queste forzature erano in un certo senso, per quanto ingiustificabili, prevedibili, sicuramente lo erano meno quelle riguardanti ruolo e scelte del PCI durante la segreteria Berlinguer, all’interno della cosiddetta vita democratica e parlamentare del partito.
Alcuni degli invitati alla prima del film a Roma
Piuttosto scomposta, per esempio, la mistificazione operata rispetto al referendum sul divorzio (ce ne sono altre, tipo i 37 giorni di occupazione della fiat nel 1980, sulle quali sorvoliamo, perché il meccanismo della mistificazione è lo stesso). Veltroni costruisce un lungo segmento del film proprio su questo particolare momento della storia italiana, recuperando addirittura gli spot televisivi realizzati all’epoca per invitare a votare contro l’abrogazione della legge che consentiva il divorzio. Il segmento è una vera e propria celebrazione dei fasti del PCI, e di Berlinguer stesso. I toni si alzano, l’entusiasmo sale alle stelle. La vittoria del No al referundum abrogativo viene mostrata, senza pudore, come una battaglia e una vittoria del PCI. Peccato che Veltroni si dimentichi di dire che il PCI tutto avrebbe voluto, tranne che fare quel referendum. E che fino all’ultimo, lottò per NON farlo. Un po’ come recentemente è accaduto in occasione del referendum sull’acqua pubblica. Ma tant’è. Cambiano i nomi, cambiano le facce, ma la sostanza resta sempre la stessa. D’altra parte, non è un caso se l’unico intellettuale chiamato a esprimersi nel film sulla figura di Berlinguer dal regista Veltroni è quel Lorenzo Cherubini, autore dei versi posti in apertura di questo testo. E’ lui la figura di garanzia sulla bontà e correttezza dell’opera. Tutti gli altri intervistati, da Bianca Berlinguer fino a Giorgio Napolitano, parlano, ma in veste di testimoni. Cherubini invece è nel film per creare una sponda, un sostegno su cui possano poggiare e possano identificarsi tutti quelli che, soprattutto giovani, magari non hanno nemmeno mai sentito nominare Berlinguer, ma in compenso “pensano positivo” e credono davvero che Madre Teresa, Che Guevara e Muccioli facciano idealmente parte dello stesso mondo.
La semplificazione e conseguente banalizzazione della complessità storica, la distorsione degli eventi, lo spianamento delle differenze – trait d’union fra le filosofie della storia di Cherubini e Veltroni – sono tutti elementi che indirizzano la biografia filmata verso il traguardo che il regista si era prefissato: riconfermare, sempre e soltanto, che Berlinguer era una brava persona. Altro non è dato sapere. E infatti nient’altro ci viene mostrato. Non vengono mai spiegate, o almeno accennate, le conseguenze delle scelte politiche di cui si fece carico il partito, e le ricadute sulla società. La resa dichiarata del compromesso storico, il volere ostinatamente tenere sempre il piede in due scarpe, le profonde ambiguità che tutte insieme ci hanno consegnato in eredità politiche sociali devastanti e uomini del calibro di D’alema, Bersani, Veltroni stesso, sono i frutti e le inevitabili conseguenze di precise scelte operate quando alla guida del partito comunista c’era Berlinguer. Pure sul piano “umano”, in due ore di film, non emerge nemmeno per errore alcun lato problematico, qualcosa che spinga alla riflessione o ponga dei quesiti. Nessuna ombra, nessun interrogativo, nessun dubbio. Solo affermazioni, tutte inesorabilmente in positivo. Veltroni cioè, elimina scientificamente ogni possibile contraddizione, sotto ogni punto di vista e angolazione, e con essa ogni possibile sussulto, fosse anche solo emotivo. Pure cinematograficamente parlando, un inganno: nel cinema di Veltroni, il controcampo non è altro che uno specchio. Ma intanto il mattone nel muro è stato posto. Torniamo così ai motivi per cui siamo andati a vedere il film. Perché il rischio maggiore è sempre quello di sottovalutare la portata di certe operazioni di riscrittura storica. Nessuno si fa male, la realtà pare non modificarsi. Ma quando in futuro i nostri figli, o gli amici dei nostri figli, tornando da scuola, ci diranno che Berlinguer era un buon uomo, e che il PCI era bello e giusto, almeno non ci troveremo impreparati.
Kino Glaz
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