Roma di Cuaròn è un film anti-femminista?
Una bella nota pubblicata su Non una di Meno Milano mette a critica un set di opinioni ricorrenti sul film di Alfonso Cuaròn, Roma, vincitore del Leone d’oro al festival di Venezia, secondo le quali i punti di forza della pellicola sarebbero i temi della solidarietà femminile e della resilienza. Una percezione dell’opera filtrata da un femminismo mainstream al servizio nei fatti di un ordine del discorso anti-femminista. Un punto di vista interessante che ci interessa sviluppare anche tornando su questo bel film.
“In questi giorni viene sottolineata soprattutto la “bontà” della solidarietà femminile che scaturirebbe dal lavoro di Cuaròn – si legge nella nota di Non una di Meno Milano – Pare che dal film si percepisca una sorta di alleanza tra le due protagoniste femminili: quella che chiamerei la signora bianca e ricca della borghesia e Cleo, una “gringa” al suo servizio come domestica, tata e tuttofare. Ciò che lascia perpless* è proprio la percezione di un carattere positivo in una tale relazione, in cui l’aspetto gerarchico è quanto mai evidente. (…) Una solidarietà che non è né libera né attiva, che non rompe gli schemi e che pare non potersi mai davvero esprimere in una condizione paritaria o di gioia. Da qui, un’altra esaltazione tipica del nostro tempo: la resilienza. Ovvero: la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Una resilienza che viene spesso utilizzata come strumento di controllo, inconsapevolmente da parte di chi la esalta. La resilienza è utile per continuare a vivere, e fin qui siamo tutt* d’accordo, ma può anche essere il prodromo di un’accettazione passiva dello status quo e uno strumento di controllo soprattutto su una potenziale ribellione femminile. Cleo possiede la resilienza e sembra trovare quasi uno stato di pace nel lavoro di cura.”
In effetti basta dare un’occhiata a una recensione a caso sul film in uno qualsiasi dei rotocalchi femminili presenti sul mercato delle opinioni alla moda per le donne di oggi per accorgersi di come in fondo il discorso sulla resilienza femminile, la capacità di superare un trauma e fortificarsi, “attraversi anche le differenze di classe”. Per rimuoverle (1). Si rappresenta l’immagine di una donna forte la cui forza, “non abolendole”, sostiene però le linee gerarchiche della propria subordinazione: classe, razza e… genere. Della virtù della resilienza o della solidarietà femminile nella serva Cleo resta in fondo solo la condanna a subire la propria condizione, ma con in più il corredo di una nuova mistica della femminilità, incarnata da un corpo di donna ma mai proclamata da una donna per se stessa. I valori sono imposti e proclamati dai soggetti dominanti e condivisi dai soggetti inclusi e invisibilizzati nel governo della civiltà mediante questi stessi valori. “Hai perso la lingua?” domandano a Cleo dopo il tragico evento che la travolge. Sì, Cleo è muta perché della sua forza a lei non resta niente secondo questa lettura. Allora, una volta di più la recensione su Io Donna ribadisce che di questo film, “siccome l’ha girato un uomo, nessuno oserà mai dire che è “roba da donne”. L’universale è un valore aggiunto per le ammiratrici della resilienza antifemminista, perché l’universale prima di tutto non è femminile.
Ma in Roma a noi pare di percepire ben altro. Perché queste sono grosse pennellate, sentimenti ingombranti mossi da istanze di valore, morali e prescrittive: la donna deve essere, la donna è… forte, resistente, solidale, disponibile al sacrificio, impegnata nella cura. Tutto troppo posticcio per i toni di un film dimesso, che sembra cercare altre corde. Perché al centro del film non ci pare esserci una solidarietà e una resilienza femminile che tutto cancella e neutralizza fino a rimuovere le linee di classe, razza e genere. Insomma attorno a questo film di Alfonso Cuaròn c’è chi vuole vedere ciò che non c’è, in malafede. Un po’ è quanto suggerisce il testo delle compagne di Milano. È un fatto di sguardo. Allora in cosa questo sguardo denunciato come anti-femminista è deformante e frutto di una critica disonesta?
Innanzitutto questa cattiva lettura fa leva su un malinteso di base: il cinema rappresenta la vita e deve rappresentarla. Il cinema rappresenta i valori, vissuti, emozioni presenti e la direzione secondo la quale dovrebbe andare lo sguardo progressista della società. Ma è vero? È così? Il cinema fa e deve fare questo? Si tratta di uno sguardo inquisitore al quale ogni buon film sfugge. Lo sguardo della macchina da presa non solo non è quello dell’uomo dietro la macchina da presa – come fissato fin dalla storica lezione del cineocchio di Vertov – ma non è nemmeno lo sguardo della società di cui l’uomo dietro la macchina da presa o ancor di più davanti lo schermo è rappresentante. Il cinema non rappresenta nulla. Sì, ma allora se non rappresenta nulla cosa si vede nel cinema?
In un intervento del 1995, in uno dei suoi rari contributi sulla settima arte, il filosofo francese Jean François Lyotard avanza l’ “Idea di un film sovrano”. Cosa significa? Lyotard sostiene che c’è un modo di filmare che, pur appartenendo a una forma narrativa del racconto cinematografico, rivendica una parziale autonomia dalla sintassi del racconto, con una sua specifica sovranità, così si esprime seguendo il concetto di sovranità di Bataille secondo il quale è sovrana un’esperienza che non è autorizzata e non fa appello a nessuna autorità, un’esperienza o un’esistenza che accade senza alcuna relazione con il diritto a rivendicare ciò che essa è. Essa in altre parole esprime una realtà relativa al mondo così com’è ma con una specifica indifferenza rispetto a questo, alle sue dimensioni spazio-temporali, alla sua verità. Lyotard si spinge fino a parlare di un’immagine trascendentale in senso kantiano, ovvero una condizione a priori dell’esperienza stessa, immanente allo scorrere del tempo e al muoversi nello spazio ma resistente al loro divenire per poterne sintetizzare una concezione nell’esperienza di chi percepisce. Il cinema non racconta una verità in sé della realtà. Non mostra la realtà, la coglie piuttosto nella sua ambiguità, come ebbe a dire Bazin del neorealismo (2). È per questo che il cinema non ha da di-mostrare nulla, non ha da rappresentare il dover esser della realtà: né in ciò che è né in ciò che gli attribuiamo. Per il filosofo questo modo di filmare si affermerebbe nel dopoguerra, con il neo-realismo.
Scrive Lyotard: “Nel neo-realismo o nei neo-realismi degli anni 1940-1960, la forma dei movimenti può mantenersi e continuare a esercitare la sua autorità sulla narrazione filmica in tutte le sue componenti. Ma essa ammette o tollera, in diversi gradi, dei momenti che non scorrono con lo stesso ritmo del flusso dell’insieme, dei blocchi di temporalità sospesa la cui l’aritmia relativa non segnala necessariamente che ci si trova al culmine della narrazione. (…) Ora, nei migliori film “sperimentali” regna una sorta di ingenuità, una buona ingenuità d’esploratore: si crede di poter sopprimere il realismo che è legato alla forma narrativo-rappresentativa e fare un film totalmente sovrano. Ma la sovranità è assolutamente allergica alla totalità. Essa occupa degli spazi vuoti [vacuoles] o dei blocchi di tempo nello svolgimento realista-narrativo. Questi momenti-blocchi che si trovano nei film “neo-realisti” possono essere recuperati nel movimento generale della forma narrativa, ma possono anche non esserlo: questa indifferenza alla loro sorte manifesta la loro sovranità”. Un cinema sovrano non è “non è sottomesso al progetto di raccontare, illustrare, fare capire”, eppure esprime una realtà costruita come immagine filmica, porta a vedere qualcosa nello sguardo specifico del cinema, in una dimensione nuova che parla certo del nostro mondo, che proviene da questo ma che è indifferente alle sue condizioni, alla legalità sua propria la quale quasi si eclissa, come “un oggetto fissato a lungo dallo sguardo si sottrae fino a non essere più visto perché perde i suoi riferimenti nel contesto”.
Allora vediamo come in Roma, ambientato nel Messico degli anni ‘70, la storia, la società, la politica resti un fuori campo rispetto al film. Incrocia la storia di Cleo, pure le fa violenza, ma non come una storia sua propria perché non è il compito del racconto del film. Cleo e la nonna si imbattono nella manifestazione studentesca, ma il film non rappresenta e non deve rappresentare la tensione politico-sociale del tempo. Ma certe cose della coscienza collettiva sono presenti come fuori campo nella messa in scena già solo perché è una messa in scena. Il cinema non è una didattica per immagini, ha ovviamente bisogno di mostrare dell’altro perché ogni illustrazione è già un giudizio e il giudizio fa la conoscenza o conferma la legge ma non produce esperienza estetica. In altri termini, per tornare al nostro problema, le contraddizioni incarnate dal corpo di Cleo ci sono mostrate già solo nella presenza filmica di Cleo, non sono rimosse nel solidarismo, non sono redente nella resilienza femminile. Si può voler leggere quello, ma è un’operazione politica (disonesta) e non è quanto il film mostra. Perché non ha da sciogliere alcuna contraddizione il cinema, non ha da di-mostrare un bel nulla. Dichiara Cuaròn in un’intervista: “non volevo fare un film militante, non m’interessava il messaggio politico. Volevo inserire una donna ben precisa in uno scenario sociopolitico ben preciso, ma soprattutto analizzare le relazioni affettive di un gruppo di personaggi e le conseguenze emotive che questi rapporti comportano. La politica non spetta a me”.
Se abbiamo provato a mostrare come si faccia un torto allo specifico dello sguardo cinematografico nel sovrapporgli uno sguardo morale, didattico e illustrativo di una mistica contemporanea del lavoro di cura, della resilienza e della solidarietà femminile, occorre però anche rispondere a un’altra domanda: è poi vero che nel film di Cuaròn la provenienza di classe di Cleo venga soppressa nell’amore familiare? Come il colore della sua pelle sia indifferente nell’economia domestica di amore e sofferenza che lei stessa gestisce con il suo corpo di donna costretto alla cura della casa?
L’incedere quotidiano del lavoro di Cleo scandisce il tempo lento del film: le pulizie, i panni che vengono lavati, la cucina, il servizio al tavolo dei padroni di casa. Cleo resta questa dall’inizio alla fine del film. La struttura della sua condizione è taciuta perché non sovverte mai il suo ruolo oppure essa emerge in ogni caso? Anche qui serve spogliare il nostro sguardo da ogni filtro morale. Un buon film premette di farlo, un cattivo spettatore non riesce a farlo. Come a un film non va mai chiesto cosa debba rappresentare e cosa no, allo stesso modo i suoi personaggi non vanno giudicati anche perché nessun regista lo fai. È in fondo la condizione minima per poterli filmare: che dispongano di una libertà dal giudizio morale e che in virtù di questa siano altro dal pensiero di chi pure li immagina e li fa nascere. A Cleo non si può chiedere l’insubordinazione. Eppure l’ambiguità della sua realtà, e dunque anche la sua forza potenziale nell’imprimerle un segno comunque traspare in tutta la sua materialità: è Cleo che pulisce la merda del cane, così si apre il film (il padrone di casa la calpesta e se ne lamenta, ma è lei a pulirla), è Cleo che sente parlare di sé da dietro una porta, è Cleo che si alza prima di tutti al mattino e spegne per ultima le luci alla sera. La subalternità, la separatezza, la fatica. Tutto scivola placido e normale come i movimenti di macchina che seguono Cleo negli ambienti della casa. Cleo resta la serva della casa del dottore, “Cleo è una di noi”, dicono i suoi figli ma… ma, parafrasando Vertov, resta sempre a noi la “possibilità di rendere visibile l’invisibile, di rendere chiaro ciò che è oscuro, palese ciò che è nascosto, di smascherare ciò che è celato”. C’è Cleo, la serva indigena. Roma la mostra, la si può vedere, dobbiamo guardarla. Ma imparare a farlo spetta a noi.
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1) Per un punto di vista femminista di critica alle retoriche contemporanee del lavoro di cura si legga il contributo di Kathi Weeks, Abbasso l’amore. Critica femminista e nuove ideologie del lavoro
2) André Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano, 1973, p. 90.
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