Sócrates. Viaggio nella vita di un rivoluzionario
“Un Giorno cosi triste cosi felice. Sócrates viaggio nella vita di un rivoluzionario” (di Lorenzo Iervolino, 66thand2nd, 2014) è un libro che si districa tra aneddoti e racconti di vita della figura di Sócrates, personaggio atipico, diverso dagli altri atleti, difficile da comprendere se lo si pensa solo all’interno della sfera calcistica.
Tutto parte da quel giorno così triste ma allo stesso tempo cosi felice per i tifosi del Corinthias: il 4 dicembre 2011, giorno della morte di Sócrates e giorno in cui allo stadio Pacaembu, nell’ultima giornata del Brasileirão, il Corinthas conquista il titolo nazionale. Tutta la squadra si raccolse a centrocampo per il minuto di silenzio per commemorare la sua stella con il pugno chiuso, il gesto che un tempo era stato del Doutor. Tempo prima alla domanda di un giornalista: “Come immagini la tua morte?”, lui rispose profeticamente “Quero morrer em um Domingo e com o Corinthians Campeão” (voglio morire di domenica e con il Corinthians campione”).
Non vedeva se stesso come un calciatore. Diceva della sua carriera “Passai tra i professionisti per pagarmi la benzina, la birra, l’università, non pensavo mica a fare il calciatore. A me interessava diventare medico.” Ai dirigenti del Botafogo che gli proposero il primo ingaggio professionistico, lui rispose che prima di tutto voleva diventare medico e che sarebbe stato disponibile per le sole partite. Lo stipendio serviva a pagare gli studi in Medicina, nei quali si laureò andando poi a esercitare la professione a fine carriera a San Paolo.
O Doutor trattava di principi non di soldi. Pensava al giocatore di calcio solo come a un rappresentante del popolo. Qui sta tutta la statura di Sócrates un uomo che attraverso il calcio viveva la lotta del suo paese contro il regime militare imposto con il colpo di stato del 1964.
Il regime militare prende il potere in Brasile nel marzo del 1964 con un colpo di stato militare. Il triennio più sanguinoso è quello che va dal 1968 al 1970, anni in cui nel Paese si sperimentano quelle pratiche repressive (torture, rapimenti, infiltrazioni) che andranno a segnare due generazioni in America Latina. Il tutto venne nascosto dietro la maschera demagogica del trionfo mondiale di Messico ’70. «Se la Nazionale di Pelé avesse parlato, si fosse schierata,» dichiarò Sócrates anni dopo «forse le cose sarebbero andate diversamente».
Nel corso degli anni Settanta l’economia brasiliana subisce un lento ma inesorabile declino economico, tanto che la repressione e la censura sono costrette ad allentare la presa. Poi, all’inizio degli anni Ottanta, qualcosa irrompe nei campi di calcio, attraversa gli stadi Pacaembu e Morumbi e trasforma uno spogliatoio in un laboratorio politico. Così il cerchio di centrocampo diventa l’unico luogo del Paese in cui si vota, si fa opposizione, si trascorrono mezze giornate a decidere democraticamente il destino di un ristretto numero di cittadini brasiliani: i giocatori e i lavoratori del Sport Club Corinthians Paulista. Questo qualcosa prenderà il nome di Democrazia Corinthiana.
L’ingegno del Tacco di Dio, che con il suo tacco smarcante riusciva a trovare i suoi compagni quasi giocasse sempre in anticipo rispetto ai suoi avversari, passa attraverso la sua capacità di immaginare una ribellione contro un regime che invade ogni cosa, dalla vita di squadra alle libertà individuali di ogni abitante del Brasile.
«Ogni cosa che riguarda la squadra da oggi in poi deve essere votata» propone il numero 8 del Corinthians: «A ciascuno, un voto». Votano tutti, dai giocatori più importanti a quelli che fino a quel momento sono stati ritenuti marginali nel lavoro del club, come i magazzinieri o il massaggiatore, e tutti hanno la possibilità di esprimersi. Anche il direttore sportivo conta solo come un voto, anzi è lui a portare le decisioni prese dalla squadra al presidente e al consiglio perché le ratifichino. Questo meccanismo piano piano inizia a decidere vari aspetti della gestione del club: la campagna acquisti, gli investimenti del club, la ridistribuzione delle entrate economiche, le sponsorizzazioni, gli stipendi, i premi partita e l’abolizione dei ritiri prepartita. Responsabilità, non anarchia, è la parola che ricorre maggiormente nella stagione della democrazia corinthiana. Un percorso che divenne un laboratorio della democrazia da riconquistare, un modello di partecipazione collettivo e un processo politico che, nato nello spogliatoio del Corinthians, si saldò con le oppresse aspirazioni di libertà di una nazione intera. Esempio emblematico rimane la simbolica battaglia contro i ritiri prepartita che assunse una rilevanza nel dibattito nazionale anti-autoritario. Da questo momento cambia tutto, nessuno potrà dirsi neutrale verso questa esperienza, sviluppatasi di pari passo con la radicalizzazione del sentimento antiautoritario nel paese: si può essere a favore o contro ma indifferenti no. L’autogestione del Corinthias diventa strumento di lotta.
La democrazia fu in grado di sfruttare l’impatto sociale e mediatico del calcio riuscendo a far coagulare insieme la passione e la voglia di lottare per un Brasile democratico. Il club portava all’esterno una lotta per il cambiamento; un prodotto sociale affine alla maturazione di un sentimento popolare. Ecco così apparire sulle maglie alvinegro l’invito al voto (DIA 15 VOTE) in occasione delle elezioni municipali e statali, oppure la scritta Democracia Corinthiana.
La Democrazia Corinthiana diventa così la spalla dei movimenti di protesta, delle lotte sindacali, degli scioperi di piazza, e protagonista della cultura progressista del Paese a fianco di artisti come Chico Buarque, Fagner, Rita Lee, Toquinho, Caetano Veloso.
Emblematico, per capire come si intersecano a vicenda calcio e politica nel Brasile di Sócrates, è la data del 31 marzo 1983 in cui viene presentato l’emendamento Dante de Oliveira con il quale si chiede di ripristinare l’elezione diretta del presidente della Repubblica, annullata dal colpo di Stato del 1964, proponendo di fatto un referendum nazionale contro la dittatura. La Democrazia Corinthiana e Sócrates sono in prima linea con il popolo che scende in piazza. Questa repentina mobilitazione prende il nome di Diretas Jà, elezioni dirette subito, contraddistinguendosi con il colore giallo. Sócrates, in supporto al movimento, decide di giocare indossando i calzini gialli e corti sopra quelli bianchi e lunghi consentiti dal regolamento. Quando i giornalisti gli domandarono “State combinando la rivoluzione?” lui rispose “no, stiamo rimettendo le cose a posto”.
Poi il 25 aprile 1984 la Camera boccia la proposta di ripristinare le lezioni dirette per il presidente della Repubblica. «Se la mozione non passa,» aveva dichiarato Sócrates davanti a un milione di concittadini «io me ne vado da questo Paese!». Le parole del capitano della Nazionale brasiliana non bastano a convincere i parlamentari. Il Doutor, però, ha tracciato il suo destino e la stagione successiva andrà a giocare alla Fiorentina.
Non si sentiva un guerrigliero o un ambasciatore della lotta, ma un brasiliano che lotta insieme agli altri. Non amava parlare di calcio, amava parlare di politica, ma anche quando parlava di calcio era sottinteso il valore politico delle sue parole :
“Il calcio è uno sport collettivo, quanto più forza collettiva esiste, quanta più amicizia,complicità e unione collettiva, tanto maggiori sono le chance che hai di vincere”.
Il libro di Lorenzo Iervolino attraverso vari scorci di vita del Doutor descrive la grandezza di un giocatore di calcio che attraverso il suo talento e un percorso politico e soggettivo ha provato a cambiare il suo paese e il modo di intendere il futebol.
La transizione democratica degli anni ’80 ripristinò, anche a partire dall’esperienza corinthiana, i meccanismi democratico-formali della vita istituzionale del paese, lasciando però inalterati i blocchi di potere e il modello di sviluppo definito dal regime militare. Pensare al Brasile oggi, vuol dire pensare ai Mondiali 2014, alla FIFA che richiede al governo brasiliano di delimitare delle “zone di esclusione” in un raggio di due chilometri attorno agli stadi, alla distruzione di interi villaggi, allo sgombero di intere tribù, allo slogan, eco di un movimento popolare, NAO VAI TER COPA (la coppa non si deve disputare), alle proteste contro il caro trasporti dell’anno scorso al grido “se la tariffa non si abbasserà, bloccheremo la città”, alla repressione poliziesca.
Allora vengono in mente le parole di nuovo profetiche del Doutor, scritte con il figlio e pubblicate sulla Folha de S. Paulo nel 2007:
“Quello che volontariamente ignorano, e vogliono che anche noi ignoriamo, è il potenziale di questo fenomeno giocato con i piedi: un potenziale di trasformazione sociale. Se solo questo aspetto del calcio affiorasse nella sua evidenza, non troverebbe barriere nella capacità di cambiare la realtà attuale, di integrare culture e persone, di formare cittadini e coscienze. E infinene, di servire da mezzo per lo sviluppo e per l’uguaglianza. (…) Mondiale per chi? Per chi farà sentire la sua voce, per chi occuperà le strade chiedendo sanità istruzione trasporti, invece dell’oppio di un pallone. Quel che ho detto adesso è quel che ho sempre detto, con il pugno chiuso, con il sorriso, senza fare mai un passo indietro. Le mie parole sono pronte a rinascere in altre voci.”
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