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“Stare con la sposa.” Intervista a Valeria Verdolini


Il rimosso è dare centralità al significato di queste spinte verso il “nostro mondo”, per questo è importante andare a vedere come il soggetto che vuole passare le frontiere si è mosso. Il rischio contrario è che prevalgano le narrazioni dell’invasione oppure quelle del “buonismo” della società civile delle city della Fortezza Europa. La contesa sul confine Italo-Francese a Ventimiglia e i Siriani in viaggio verso il vecchio continente (un vero e proprio movimento di massa) sono dei buoni esempi su cui è possibile ragionare. Due esempi che ci rimandano immediatamente alla determinazione e alla rigidità con cui si può agire lo scontro con i confini e le frontiere. Una dimensione di massa, che si assume la responsabilità anche di una opposizione diretta con il potere.

Per cercare di avere un racconto in presa diretta di ciò che è accaduto, individuare elementi utili per una analisi e porre al centro la parzialità del soggetto che spinge alle frontiere riteniamo interessante parlare con Valeria Verdolini – sociologa del diritto, ricercatrice precaria, che nel 2013 aveva già accompagnato un gruppo di siriano-palestinesi nel viaggio divenuto poi il documentario “Io sto con la Sposa”, Presidente di Antigone Lombardia – che ha aderito alla carovana di solidarietà che ha supportato i Siriani in fuga in questa spinta alle frontiere, svoltasi il 6 Settembre 2015.

Il tuo film ha fatto molto successo e ovviamente torna attuale in questi giorni; cosa volevate trasmettere con quest’operazione che possa essere usato come chiave anche per analizzare quello che accade oggi? Ma soprattutto ti senti sia stato ri-narrato dai media generalisti nella maniera corretta?

Il documentario era stato soprattutto un’operazione politica. Nasceva dall’esigenza e dall’urgenza   dei naufragi del 3 e dell’11 Ottobre 2013, e voleva provare a ribaltare la cosiddetta “estetica della frontiera” e il classico racconto delle migrazioni. Da una parte, infatti, si era scelto di adottare un registro di festa (“chi fermerebbe mai una sposa o un corteo nuziale?”) pur veicolando percorsi dolorosi quali le vicende dei nostri protagonisti sopravvissuti ai naufragi. Dall’altra il progetto era un progetto collettivo, teso a cambiare il rapporto abituale sulle migrazioni, passando dal classico “noi” e “loro” ad un “noi”. Con l’azione di disobbedienza civile, infatti, il rischio era condiviso, così come il viaggio. Inoltre, la scelta era stata ampiamente supportata dai 2617 crowdfounders che hanno finanziato l’operazione, permettendo di completare il lavoro di montaggio e portando il film a Venezia. In tal senso, il film oggi appare ancora molto attuale, mettendo a confronto un’Europa che vuole essere diversa, disposta a disobbedire con l’Europa raccontata dei muri e delle frontiere.

Raccontaci dell’ultima esperienza a cui hai partecipato? Come si è svolta? Qual è stato il suo senso politico?

Forte dell’esperienza precedente, e dopo aver visto di persona la situazione sulle coste di Kos, a fronte della chiamata collettiva degli attivisti tedeschi ho deciso, discutendone all’interno dell’associazione di innovazione culturale Che-Fare, di partire. Siamo arrivati a Vienna io e il mio compagno, partiti da Milano, e la mattina di domenica ci siamo presentati all’appuntamento senza sapere bene cosa aspettarci. Con una certa, piacevole sorpresa le macchine presenti erano circa 200, e il “konvoi” poteva chiamarsi davvero tale. Il progetto aveva due obiettivi principali: portare aiuti alla prima accoglienza a Budapest e, al contempo, accompagnare oltre il confine ungherese i richiedenti asilo. Dieci giorni fa la stazione di Keleti era al centro dei passaggi dalla Serbia verso l’Austria e la Germania, prima che il governo di Orban intensificasse la chiusura nei confronti dei richiedenti asilo con le ormai celebri immagini provenienti dal campo di Rotzke e dal confine serbo. L’operazione non aveva, ovviamente, una funzione risolutiva, ma voleva essere una risposta politica e simbolica alla marcia nelle strade ungheresi. Inoltre, l’azione aveva un contenuto disobbediente esplicito: era stata annunciata e le macchine erano in coda alle spalle di un veicolo rosso con i lampeggianti sempre funzionanti: non era un passaggio visibile, ma un passaggio dichiarato di critica e denuncia nei confronti dei regolamenti di Dublino e, nello specifico, delle scelte del governo ungherese.

Passiamo alle immagini simbolo di quest’ estate: “Aylan Kurdi” e la “marcia dei rifugiati”. Secondo te che immagine ne viene data dell’Europa e degli europei? C’è una deriva di pietismo e di moral washing oppure è una risposta al populismo reazionario che pare dilagare? Secondo te la narrazione che i media ne hanno dato rispecchia la realtà, o piuttosto esprime una spoliticizzazione della stessa?

Il conflitto siriano è iniziato nel 2011, il flusso di migranti è continuo e significativo da quasi 3 anni: le immagini rappresentano un frammento di un percorso più lungo e difficile. Sono due immagini differenti: da una parte, la foto di Aylan sulla spiaggia di Bodrum commuove per due ragioni: da una parte c’è la solitudine del bambino curdo, dall’altra la assoluta mimesi con qualunque bambino che conosciamo. Direi che la prima segue il filo della compassione, e si muove volutamente su un piano non politico, ma ha avuto il pregio quantomeno di svegliare una risposta di sdegno e denuncia (prima mancava anche quella…). La seconda immagine, invece è, dal mio punto di vista molto più interessante: è una marcia, di dissenso (per dirla con Ranciere) che colloca i rifugiati all’interno di una comunità politica. Di nuovo, non siamo “noi” e “loro” ma siamo un “noi”. E questo noi, che ci tocca e ci chiede di rispondere politicamente, è sottolineato dalla bandiera dell’Unione Europea che apre il corteo. Il racconto mediatico, in generale, preferisce muoversi sul binario buono/cattivo, nel registro dell’Umanitario, che, purtroppo, è stato sempre più spoliticizzato.

Non pensi che le mobilitazioni della società civile create ad arte da interessi politici del riformismo e della borghesia Europea porti invece al rischio contrario – ovvero ad una accentuazione di una approccio tecnocratico e neo-liberale e quindi ad un aumento delle problematiche legate alla Fortezza Europa e ai suoi confini?

Non mi sento di giudicare la rete di solidarietà che è stata messa in atto negli ultimi mesi. Credo che sia importante, e utile, ma di certo non è risolutiva. Nessuno, al momento, si vuole assumere la responsabilità politica di dare il via al corridoio umanitario che viene esplicitamente richiesto. Importante, in tal senso, la campagna #crossingnomore che è stata lanciata da Edirne, la città sul confine turco dove è stato costruito un muro e che non è più il naturale passaggio via terra. La costruzione del muro sull’Evros è stata una delle cause dei nuovi attraversamenti marittimi dell’Egeo. Il punto fondamentale, secondo me, rimane uno: ci sono 4 milioni di siriani sfollati tra Libano, Giordania e Turchia. Sono persone che partiranno, che hanno il diritto di scegliere dove vivere. Per rispondere a questo bisogno servirebbero due tipi di azioni: una, diplomatica, per cessare il conflitto in Siria (scelta poco percorsa, in parte perché sono ri-iniziati i bombardamenti, in parte perché il pacifismo non è più un tema politico…); dall’altra, un’azione di revisione delle norme sull’accesso e il transito nel territorio UE. Il sistema veramente “idraulico” che viene proposto in questi giorni, basato sulla sola emergenza e urgenza al confine, non è e non sarà una soluzione, e di certo non rappresenta l’Europa che immagino e in cui mi riconosco come cittadina.

Secondo te l’Europa possiede ancora quell’inconscio collettivo fondamentalmente razzista” di cui parlava Fanon, oppure ci sono le possibilità di scoprire dietro a quella voglia di “restare umani”, che molti hanno espresso in questi giorni, delle persone in grado di rinnovare il concetto di solidarietà e confliggere “da dentro” la Fortezza Europa? A quali condizioni questo potrebbe accadere?

Credo basterebbe offrire ai cittadini la possibilità di scelta. Da una parte quell’inconscio collettivo fondamentalmente razzista c’è, lo raccontano le vicende ungheresi e quelle in provincia di Brescia. Tuttavia, non si riesce a quantificarlo. E da inguaribile ottimista, credo che le persone pronte ad attivare la rete solidaristica e umana siano molte di più. Forse più silenti, e purtroppo, meno politicamente spendibili.

Dal punto di vista del controllo – una volta capito che il potere non rincorre la libertà, ma è la stessa che al massimo lo sfida in campo aperto – una spinta con tali caratteristiche (determinazione, rigidità) espressa dai casi di Ventimiglia e dai Siriani in fuga, potrebbe mettere in crisi i meccanismi di contenimento tipici delle frontiere?

Ventimiglia prima e la marcia in Ungheria ci raccontano che quelle frontiere non esistono: la comunità politica c’è già, e si esprime, ed esige i propri diritti. Ora si aspetta solamente che quella voce possa essere ascoltata.

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