Su Giacomo Leopardi
Perché tanto spazio in questa sede per un film su un autore fra gli autori? Perché crediamo che se il film di Martone è un’occasione persa per parlare del Leopardi, forse potrà non esserlo stata questa serie di recensioni. Che qui hanno senso per quanto già brevemente accennato. Ciò che come compagni ci deve interessare di Leopardi è la metodologia, il procedere situandosi e le conclusioni cui arriva, e certe conclusioni per cui passa, nel breve arco della sua vita densissima e ipersensibile.
Innanzi tutto. Sono noti quei compagni che intorno al Leopardi hanno studiato e scritto. Che hanno, in particolare sulla base dell’ultimo periodo della sua vita, strutturato un discorso attorno al Leopardi politico. Non stiamo qui a recuperare quel dibattito, limitiamoci a qualche breve considerazione su quella scia (che comunque renda o lasci intuire qualcosa, che produca il desiderio di approfondire). Partiamo da una domanda: cosa dà o potrebbe dare la lettura di Leopardi ad un compagno o ad una compagna? Il metodo, l’abbiamo già detto. Un modo di stare nella propria solitudine, nella propria città, nel proprio mondo e nel proprio tempo. Potrebbe essere un’occasione per non perderlo: per non perdere, con quel metodo, la frequenza d’onda della propria epoca, il suo darsi nell’immediato e nel lungo periodo, la sua situazione e l’intuizione, l’anticipazione del suo divenire. Potrebbe essere poi un’occasione per non annoiarsi invano, per fare della propria solitudine un momento di ulteriore approfondimento lirico e politico della stessa, cioè per dare alla nostra insoddisfazione, crescente e rivendicata, forme insieme ragionate e liriche. Insomma, per continuare a scoprire che se stiamo così ci sono dei perché e dei colpevoli che per la maggior parte stanno sulla Terra (ad eccezione ovviamente dell’ineludibile contraddizione finitezza uomo-indefinitezza spazio-tempo, e grandezza natura piccolezza uomo. Qui si aprirebbero parentesi ed opportunità d’analisi smisurate.
Le alluvioni di questi giorni, e poi la Tav in Val Di Susa, e chi più ne ha più ne metta, ci danno costantemente l’opportunità di notare nei fatti l’interazione capitalismo-natura, su due livelli: prima speculazione edilizia, quindi grandi spostamenti di soldi altrimenti spendibili per necessità più stringenti di certa parte della popolazione, la seconda ed inevitabile risposta naturale, che certo senza coscienza (natura in Leopardi, come ovunque del resto, non è mai intelligente) si organizza per riprendersi il suo posto, devastando gli esiti della speculazione, scialacquando definitivamente tanti soldi e offendendo, o alla peggio uccidendo, le stesse persone prima vittime dell’uomo e ora della natura). Con Leopardi siamo poi di fronte allo strutturarsi in fieri di un serio materialismo adialettico; lo vediamo nascere, crescere e riprodursi (ma mai morire). Perché è importante per noi e per chiunque? E’ sulle basi di quello che si organizza il suo acceso antiliberalismo, la sua forte critica alle superstizioni, a quanto di codino, realmente reazionario c’è nell’educazione cattolica che anche Leopardi stesso ha ricevuta. (Se per Goya era il sonno, in Leopardi è il sogno della ragione a generare mostri. Queste sono le magnifiche sorti e progressive).
Viene immediatamente da chiedersi cosa avrebbe risposto all’editoriale del Corriere “Gli antagonisti di sinistra, ecco chi sono i nuovi reazionari “ (scritto inseguito ai recenti fatti di Bagnoli), in cui si dice che noi saremmo i veri conservatori perché le nostre lotte sono contro il progresso. Possiamo immaginarci Leopardi scrivere la Ginestra proprio in risposta ad una continua aggressione di questo tipo a lui e alla sua filosofia. Sì, noi siamo contro il vostro progresso, contro la vostra proposta di umanità. Questo implica mettere il Corriere tra i liberali e Leopardi tra i compagni? La prima certamente. La seconda è forzata. Seguendo questo ragionamento non si può legittimamente dire che Leopardi nella Ginestra, nell’ultimo periodo, annunci il socialismo, che lo postuli su basi ontologiche. Si può dire che postula e dimostra su basi ontologiche che quello che noi intendiamo per socialismo, per comunismo, per società e socialità liberate, sono l’unica migliore soluzione possibile ad un dramma generale degli uomini, sia che questi lo sentano, sia ne siano distanti perché vittime di altre illusioni (dell’intelletto, non dell’immaginazione). Leopardi non parla né alle classi, né di lotta di classe, né tantomeno si riferisce ad un soggetto politico. A lui non interessano che le sorti del genere umano preso nel complesso, come comunità una prima del loro ruolo per e nelle istituzioni politiche. E’ chiaro che discute assai di politica, anzi!, per lui non v’è altro scopo nell’uomo che l’agire pratico per la collettività, del suo spendersi per un interesse generale. Condanna la sua società perché divisa per teste, individualista, dove ognuno procaccia il proprio bene, la contrappone a quelle dove la virtù si esercitava per il popolo. Leopardi parla di moltitudine e non di soggettività. Questo non deve fuorviarci. Possiamo, anzi dobbiamo, portarlo con noi sotto il passamontagna. Possiamo perché la diacronia del suo ragionamento, empirico perché uscito dall’esperienza sulla pelle, cutanea!, delle contraddizioni di un’epoca, è sulla nostra stessa frequenza d’onda: conosciuto il proprio tempo, odiato, cercare le vie della sua sovversione.
E’ poi interessante il rapporto che Leopardi intrattiene con la memoria, anch’esso esito del suo materialismo. Leopardi non vuole il ritorno dell’antica Roma se non come metodo di società, di attraversamento attivo della stessa. Quello che dell’antichità desidera è la vitalità per la collettività. Quando si chiede dov’è il suono di que’ popoli antichi? or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio che n’andò per la terra e l’oceano? Non spera in un ritorno esatto, uguale e tondo della Roma storica. Desidera semmai, come altrove, il recupero di quel suono, di quel fragorio. Cioè di quella vitalità, che era metodo, etica viva. Inizialmente Leopardi tiene presente una collettività nazionale (la sua prima collettività non è quella della Ginestra, all’inizio è formata dalle geometrie nazionali ), odiava classicisticamente lo straniero, nemico e potenziale minaccia per il proprio Stato. Chi sono gli stranieri in Leopardi? (Altra domanda da porsi necessariamente durante la lettura di questo momento della diacronia leopardiana). Sono certi austriaci, certi tedeschi, sono i romantici e la loro cultura progressiva in senso liberale (cioè la borghesia uscita dalla Rivoluzione), sono gli industriali e gli intellettuali della perfettibilità, gli spiritualisti del folklore (mi chiedo, ci chiedo, quanti sono gli stranieri che oggi noi odiamo? Molti! Non discriminiamo la pelle, e neanche Leopardi l’ha mai fatto, discriminano gli orizzonti diversi! Non immaginiamoci Leopardi che odia stranieri dalla pelle diversa, ma un altro Stato che minaccia il suo per propri interessi. Ma questo non è anche sentimento nostro? Non odiamo forse anche noi chi nelle nostre zone ribelli e liberate minaccia di introdurre altri valori? I fascisti nelle università, i liberali in Val di Susa, i sindacati gialli ai cancelli. Ecco Leopardi dello straniero non odia la pelle, il suo odio è politico). Leopardi medita sempre sulla memoria, ne soffre, ne vive la catastrofe, ne sperimenta il fallimento dialettico (e qui scema l’iniziale patriottismo) sul suo proprio popolo, quello direttamente erede di quella classicità fitta e densa di valori più vicini alla natura, a quella vitalità immaginativa e pratica che rappresenta gli albori della sua morale eroica. Che resterà sempre ma muterà coniugazione. Leopardi odia i romantici anche per il loro irrazionale, non materialistico culto della memoria. Sa che il folclore, la memoria ancestrale è superata senza possibilità di essere recuperata dal continuare del tempo.
Quella di Leopardi è una memoria assai situata, non dialettica, chi è stato è stato, ciò che è stato non sarà mai più: adesso, su queste basi, possiamo ricordare. E’ lo stesso sentimento che la Fotografia lascia in Barthes. Non è più, ma resta come immagine. E solo come tale. (Didascalia ad una fotografia di un condannato a morte: E’ morto e sta per morire). Con nessuna speranza dialettica. Leopardi questi stranieri odia, chi da altri Stati propone valori ostilissimi alla sua etica, valori nemici della sua analisi del vero (Assai materialista, assai antiliberale, Leopardi non è misantropo né filantropo. Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, senz’amor, senza vita; ed aspro a forza tra lo stuol de’ malevoli divengo: qui di pietà mi spoglio e di virtudi, e sprezzator degli uomini mi rendo. Qui, qui a Recanati! Qui e soltanto qui accade di poter odiare gli uomini, per come sono qui, nel luogo particolare e provinciale Recanati! Leopardi non ama né odia gli uomini in generale, in sé, degli uomini in sé pensa solo che si devono rimboccare le maniche e piangere il meno possibile). Arido. Ma vero. Lui sa che tutto al mondo passa e quasi orma non lascia (quasi, è lì che è veramente materialista, empiricamente materialista, qualcosa resta, catastrofe della memoria non è oblio), ma lo sa bramosamente, cioè con coraggio, qui la sua grandezza. Non c’è dialettica col passato, non c’è sintesi, non c’è da cercarla in cielo, in costanti ideologiche o culturali, la sintesi non c’è ma si deve comunque restar qui, bramosamente, a vedere l’aridità di questa condizione, erta la fronte, armati, renitente a questo fato, con la schiena dritta e determinati a reagire. Su queste basi ontologicamente discusse, eticamente affrontate, su queste basi dopo un naufragio su un’isola deserta, cioè la nascita, la forza e il giusto impegno consistono nel situare via via forme di solidarietà e conforto e compagnia reali (Con la sua analisi Leopardi arriva a dare gli strumenti agli uomini per essere massimamente degni, per consegnare alla morte una goccia di splendore). Non si può dire che annunci il socialismo, lui non tiene presente le classi. Quando dice: erta la fronte, armato e renitente al fato non ha il fucile in mano, non per questo è meno combattente in senso rivoluzionario.
E’ come se dicesse: gli uomini liberali si pascono di illusioni ostili e contrarie al vero, alle vere illusioni, i liberali deviano stoltamente, su fallaci strade i cuori e gli intelletti degli uomini. Non parla della lotta di classe come metodo, semmai dà le basi ontologiche della sua necessità per una vita migliore. Ecco, lui schiera due eserciti, i liberali e i romantici da un lato, i filosofi del vero dall’altro. Ma non s’immagina la battaglia! Se Leopardi non annuncia la lotta di classe, se non annuncia il comunismo come movimento reale, si può forse dire che tiene presente ciò che noi chiamiamo comunismo come ciò che deve stare al posto di. Ha in testa questa immagine di società nuova e la usa per strutturare, descrivere, accusare il suo tempo che ne è il contraltare. Il suo punto di vista è da osservatore esterno rispetto alla sua epoca, questa è la meraviglia relativistica della sua analisi! E’ come se parlasse dal giorno dopo la rivoluzione, vedesse il mondo finito per quello che è stato e desse le basi di una nuova umanità che ha visto complessivamente l’epoca da cui è appena uscita. Leopardi di fronte a sé non ha una strategia, un orizzonte politico di superamento pratico, processuale del suo secolo. In questo senso non annuncia il socialismo. Semmai approfondisce con la sua esperienza ed opera la legittimità ontologica di quello che noi chiamiamo comunismo. Il suo punto di vista è in un certo senso astratto, astratto dal come, ti dà tutti i contorni del perché. Non stiamo infatti parlando di uno scienziato politico, di un militante, ma di un filosofo e lirico.
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