Sui fatti di Rebibbia: non parliamo di fatalità
La notizia, terribile e agghiacciante, di quanto avvenuto due giorni fa nel carcere di Rebibbia – dove una donna detenuta ha lanciato dalle scale i suoi 2 figli, uccidendoli – sta sollevando un piccolo dibattito su una delle aberrazioni peggiori del sistema penitenziario del nostro paese: la detenzione in carcere assieme alle madri dei bambini minori di 3 anni.
Un dibattito piccolo, dicevamo, rispetto alla tragicità di questa vicenda che ci ha fatto gelare il sangue e caratterizzato in troppi casi da dichiarazioni e sciacallaggi indegni.
Attualmente nei penitenziari di tutta Italia ci sono una sessantina di bambini, con 52 madri, di cui la metà si trova nei cosiddetti “Istituti a custodia attenuata” creati nel 2007, l’altra metà in carcere (la maggior parte proprio a Rebibbia). La ragazza dell’episodio di due giorni fa era stata arrestata alla fine di agosto per il possesso in concorso di 10 kg di marijuana. Dell’erba fatta passare alla frontiera. A quanto si apprende nei giorni scorsi aveva dichiarato la propria difficoltà a reggere l’ambiente carcerario e a doverlo condividere con i suoi due bambini piccoli. E anche nel carcere erano a conoscenza di episodi di sofferenza psichica manifestati in passato da parte della donna. L’avvocato aveva chiesto delle misure alternative alla detenzione preventiva in carcere, vista la tenuità del fatto, che sono state però negate.
A poche ore dalla notizia già si scatenavano le prime speculazioni politiche, prime tra tutte quelle dei sindacati di polizia. Questi non solo hanno chiesto al ministro della Giustizia un generico e urgente “intervento” sulla situazione carceraria, ma hanno usato senza alcun ritegno questa vicenda per lagnarsi come da copione delle condizioni in cui, a loro dire, sono costretti a lavorare gli agenti della penitenziaria. Giusto qualche parola di circostanza su un evento
definito “tragico e improvviso”, ma il vero problema per i sindacati di polizia rimangono le condizioni di lavoro “stressanti” dei secondini, mica quelle dei detenuti e delle detenute stipati nelle sovraffollate carceri italiane o dei bambini costretti a crescere dietro delle sbarre. E il corollario, manco a dirlo, è l’ennesima richiesta di un’ulteriore stretta nella gestione dei penitenziari.
Sulla vicenda si è poi espresso il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che dopo essere andato in visita a Rebibbia ha sospeso Ida Del Grosso, la direttrice della casa circondariale, la sua vice, Gabriella Pedote, e la vice comandante della Polizia penitenziaria, Antonella Proietti. Una decisione a effetto che sembra più che altro dettata dalla necessità di dare in pasto alle telecamere l’impressione di aver preso qualche provvedimento. “Nel mondo della detenzione non si può sbagliare” ha affermato lapidariamente Bonafede (quindi, nel dubbio, rinchiudiamo tutti? Neghiamo i permessi?). Salvo poi invitare al silenzio e ad aspettare gli accertamenti quando gli è stata posta l’osservazione che quella donna in carcere non ci dovesse proprio stare.
La mancata riforma delle carceri, elaborata poi pavidamente affondata dal PD a pochi mesi dalle elezioni, l’ipocrisia del Min. Bonafede e la bonaria fratellanza tra la Lega e i sindacati di polizia stanno già relegando questa notizia a orribile fatalità senza inquadrarla per ciò che è. I fatti di Rebibbia sono la conseguenza straordinaria del funzionamento ordinario del sistema penale italiano che non fa eccezione neanche per le madri con figli minori. Le due linee sadiche su cui giudici e PM continuano a muoversi sono sempre le stesse: un abuso punitivo delle misure preventive per i reati comuni e uso delle misure alternative alla detenzione in carcere come semplice strumento di riduzione dei costi di gestione del sistema carcerario e non di riduzione dell’afflittività della pena. Ci vuole tanto a capire che nessun bambino deve stare dietro le sbarre?
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