Un nuovo territorio dell’estrattivismo: l’editoria scientifica
Recentemente ho scritto un articolo sulla politica predatoria delle grandi case editrici che gestiscono la pubblicazione dei lavori scientifici, uscito su Scienzainrete (https://www.scienzainrete.it/articolo/fuga-dei-redattori-dalle-riviste-che-speculano-sulla-produzione-scientifica/davide-lovisolo).
di Davide Lovisolo, da Volere la Luna
Non sono uso a fare autopromozione, ma mentre lo scrivevo mi sono venute in mente considerazioni più generali, che riguardano il ruolo dell’economia capitalista in settori che parevano fino a poco tempo fa “neutri”.
In sintesi, si tratta di una vicenda apparentemente marginale, relegata nel mondo specialistico della pubblicazione scientifica: l’intero comitato editoriale di una rivista di neuroscienze di buon livello si è dimesso in blocco, per protestare contro i prezzi esosissimi (3450 $) che la casa editrice richiede per pubblicare un lavoro nel formato Open Access. Una considerazione aggiuntiva a quanto scritto nell’articolo: i costi che il ricercatore (o la sua istituzione, il che vuol dire comunque, nella stragrande maggioranza dei casi, soldi pubblici) deve pagare per poter pubblicare le sue ricerche nel formato Open Access sono altissimi anche perché negli ultimi anni c’è stato (guarda caso) un fortissimo processo di concentrazione, e oggi il mercato (valutato in 25 miliardi di $) è in mano sostanzialmente a quattro-cinque multinazionali: Elsevier, Taylor & Francis, Wiley-Blackwell, Springer e Sage.
Pubblicare in Open Access vuol dire che tutti, anche chi non è abbonato alla rivista (cosa costosissima, che molti individui e istituzioni in giro per il mondo non possono permettersi) può leggere – e citare! – l’articolo; e siccome la quantità di citazioni è il motore della carriera, ecco che l’amo è gettato e il ricatto è servito. Le proteste che fanno notizia sono per ora limitate, anche se sono a conoscenza di casi di dimissioni di singoli membri di comitati editoriali. Nessuno sa quanti siano questi casi. Va aggiunto, per completare il quadro, che, a quanto mi è stato riferito, alcune riviste assegnano i recensori (passo delicato, che decide della sorte dell’articolo, che nel caso di pareri negativi viene rifiutato) con automatismi basati sull’intelligenza artificiale (AI), e spingono per aumentare il numero degli articoli pubblicati, due scelte che contribuiscono ad abbassare il livello di qualità del processo (si potrebbe aprire la parentesi sull’uso dell’AI in questi, come in altri, casi: la spinta è diciamo così “neutra”, volta a velocizzare tutto; il risultato neutro non è, perché fa aumentare i profitti delle case editrici).
Ma per tornare al punto: mi pare che questo sia un esempio interessante, e neanche tanto marginale, di come l’economia capitalistica riesca a trasformare attività umane che tradizionalmente non rispondevano alle leggi del “mercato” in una ricca fonte di profitto. Non che i legami fra ricerca scientifica e profitto siano una novità (basti pensare alla vicenda dei vaccini), ma qui c’è una novità: è l’attività di comunicazione dei dati e dei risultati all’interno della comunità dei ricercatori che diventa fonte da cui estrarre valore. E allora vien da pensare a quanti altri aspetti della nostra vita, a partire da quella sociale, sono diventati miniere che arricchiscono un ristretto giro di oligarchi, come si potrebbero definire.
Non è che l’approccio estrattivista sia una novità per il capitalismo: la fase dello sviluppo industriale dell’occidente è stata preceduta dall’espansione coloniale, che, con la rapina di risorse a livello globale ha costituito la base per l’accumulazione che ha sostenuto la fase successiva. Ma il capitalismo è pensato abitualmente, anche dai suoi più decisi critici, come un sistema che oppone capitale e lavoro, all’interno del processo di produzione su cui si fondano più o meno tutte le economie “sviluppate”. Il capitalismo in realtà, è sopravvissuto a tante crisi anche perché ha molte carte da giocare. Già Fernand Braudel scriveva che esso può vivere e prosperare in quanto domina forme di produzione non capitalistica, e da esse estrae valore. In questi decenni abbiamo visto che quando questo bacino si restringe, è in grado di ricreare nicchie precapitalistiche al proprio interno, come nel caso della (ri)comparsa del lavoro servile nelle nostre società avanzate. Ma nell’esempio sopra riportato, come in molti altri, mi pare di cogliere un salto di qualità: ogni aspetto dell’attività umana, dalle attività riproduttive, a quelle ricreative, a quelle intellettuali, può e deve diventare fonte di accumulazione. Si tratta ancora di profitto o si deve parlare di rendita? D’altra parte, nel finanzcapitalismo, il confine fra le due forme di appropriazione tende a svanire.
Pensiero finale: il capitalismo ha dimostrato di superare molte sfide spostando sempre più in la contraddizione, come si sarebbe detto un tempo. Ma una volta che ha succhiato tutto, proprio tutto, della nostra esistenza, dove potrà spostare la frontiera? Nelle miniere di metalli rari su Marte? Auguri a tutti noi.
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