Viaggio nel 41bis
La norma di legge che nel 2009 ha ulteriormente ristretto gli esigui spazi di vita delle persone soggette al regime detentivo ex art. 41 bis co. II O.P., ha, nella generale indifferenza, quando non nel cinico compiacimento, limitato le ore di socialità e di passeggio portandole da quattro a due.
Due ore, dunque, da distribuire tra “aria” e “socialità”, “attività diverse” dalla cella.
Va subito chiarito che di norma, pressoché in tutti gli Istituti di pena che hanno reparti di detenzione differenziata, le c.d. “attività diverse” si riducono all’accesso ad una biblioteca fornita di pochi e malconci volumi consultabili; nessun utilizzo di p.c. neppure a scopi di formazione e di istruzione per gli iscritti alle università che spesso vedono mortificati anni di studio e di sacrificio, anche economico, dallo sbarramento imposto all’accesso ad attività informatiche o di laboratorio richieste dagli Atenei per perseguire l’obiettivo didattico. Nessuna struttura per attività fisica.
Il detenuto resta all’interno della propria cella per 22 ore al giorno con buona pace della funzione rieducativa della pena, del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e del rispetto della dignità della persona.
Lo spazio riservato al passeggio è angusto, rettangolare, murato, asfittico, morto.
Non sceglie il detenuto quando uscire per “l’ora d’aria”. Gli viene comunicato e imposto quando può, quando è il suo turno.
A volte piove a dirotto o il sole spacca la pelle, ma se rinunci quando ti viene offerto, hai perso la tua occasione, aspetterai domani.
Molte sono le persone malate e sofferenti che giorno dopo giorno si scontrano con l’impossibilità fisica di accedere all’agognato momento di luce, per il tempo, perché devono scegliere se uscire o accedere alla terapia che serve loro per vivere, o riposare dopo un pasto.
Dopo alcuni anni di 41 bis i detenuti cominciano a perdere la vista. E’ il c.d. “distacco del vetrino” che menoma gli occhi sottratti per lungo tempo alla luce.
Le celle non hanno finestre. Hanno sottili feritoie protette dalle “gelosie”, schermi di romantica evocazione che oscurano, proteggono, inibiscono, velano, seppelliscono.
Alla stessa stregua, la norma che preclude al detenuto in regime differenziato di cuocere i cibi, manifesta appieno il vistoso e stridente difetto di correlazione tra l’ulteriore compressione dei diritti individuali del detenuto con la tutela di esigenze di sicurezza pubblica.
Cucinare in cella è vita, è fantasia, organizzazione, tempo speso in qualcosa che dà frutto, che si traduce in soddisfazione.
Non fomenta il crimine, non agevola la veicolazione di messaggi all’esterno, non deturpa le coscienze, non nuoce, in alcun modo.
Invero, la riduzione delle ore di socialità e di passeggio come il divieto di cuocere i cibi non si conciliano affatto con la natura di misura di prevenzione della norma, ma appare evidente che siano stati voluti e creati al solo scopo di punire il detenuto che non collabora con la giustizia; di spezzarlo nel fisico e nello spirito; di annichilirlo; di strappargli la speranza, la proiezione, il respiro lungo della vita, l’essenza stessa di uomo.
Maria Brucale
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