Il dato più inquietante è che, dietro la rivendicazione da parte di SNOQ della forma “movimento” o di un qualche suo surrogato, ciò che si cela è il tentativo di autolegittimarsi come espressione politica di tutte le donne e conseguentemente di performare un consenso sociale più vasto, interclassista e costruito su una artificiosa solidarietà di genere alle politiche della ministra. Anche se tale legittimità si fonda sul riferimento alle piazze gremite del 13 febbraio non possiamo non rilevare come la continuità che
Se non ora quando? istituisce con quelle piazze si collochi su di un terreno né politico né sociale, quanto piuttosto mediale, garantito dalla possibilità di accedere alla sfera del visibile e dalla presunzione di accedervi per procura di tutte. In altri termini, che le donne di SNOQ siano ammesse e cooptate sul terreno della
rappresentazione e assunte ad
emblema di tutte le altre è un dato di fatto e una strategia politica di addomesticamento delle istanze di genere; che la loro condizione e le loro rivendicazioni siano effettivamente
rappresentative della maggioranza delle donne (precarie, migranti, disoccupate, esodate) è una mistificazione palese.
In questo senso l’irruzione di studentesse, lavoratrici, operaie che, durante la conferenza alle OGR, hanno preso la parola per ricordare alla ministra e alle organizzatrici che il genere non costituisce un terreno sul quale siglare alleanze fra sfruttatori e sfruttati, sul quale costruire pacificazione sociale attorno all’operato del governo, è un segnale importante. Scopre il retroscena di tutti quei soggetti esclusi dalla rappresentazione emblematica; rivela come ogni interpretazione universalista e monoidentitaria delle donne (che esclude ogni loro ulteriore determinazione in termini di razza, ceto, classe, orientamento sessuale) sia fondata sulla rimozione (violenta!) delle condizioni di vita delle più svantaggiate. Denunciare che la violenza sulle donne non si attua solo fra le mura domestiche ma che lo smantellamento del welfare, la riforma del sistema scolastico, la modifica dell’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro costituiscono altrettante forme di esercizio di una violenza sociale che si accanisce in misura differenziale sui soggetti (colpendo in maggior misura le donne, i/le precari*, i/le migranti, etc) ha rappresentato una demistificazione importante delle messinscene di SNOQ. Tuttavia leggere più nello specifico l’accaduto può essere altrettanto necessario per trarne elementi di analisi e futuri orizzonti di intervento politico, a partire dalla consapevolezza che nessuno spazio di rivendicazione è neutro, omogeneo e privo di contraddizioni soprattutto quando la rivendicazione rischia di sfumare nella richiesta.
Sul terreno ambiguo del lavoro
L’esigenza di reddito da parte delle donne non è una rivendicazione nuova ai femminismi che negli anni ne hanno sperimentato l’urgenza e al contempo i limiti e le aporie di alcune sue possibili contestualizzazioni. Senza pretendere di ricostruirne la storia travagliata, proviamo a confrontarci con uno degli slogan della protesta, “Una donna senza lavoro è una donna senza libertà”, per aprire spazi di problematizzazione e interrogativi su di un terreno scivoloso come quello del lavoro. Che l’indipendenza economica sia non solo una conquista necessaria ma anche un presupposto politico indispensabile per affrontare la questione della violenza sulle donne è un dato di fatto. La possibilità di rompere legami affettivi o parentali con individui violenti spesso sfuma in mancanza di prospettive di reddito autonome. E tuttavia che la conquista di un accesso sul mercato del lavoro (o che la conquista delle donne al mercato del lavoro) incarni un effettivo orizzonte di libertà è un assunto troppo problematico per non essere ulteriormente indagato. La lotta alla violenza sessista e intrafamiliare non può infatti rischiare di divenire apologetica rispetto alle forme (violente) di sfruttamento e messa al lavoro delle donne che vediamo ogni giorno intensificarsi dentro gli attuali assetti produttivi. È vero che la richiesta di occupazione dentro congiunture di disoccupazione massiccia o nel perdurare della segregazione al lavoro riproduttivo e domestico spesso rappresenta una rivendicazione strumentale e transitoria ai fini di un miglioramento della condizione delle donne. E tuttavia il dubbio, il quesito centrale resta se tale miglioramento sia declinabile nei termini di un aut aut fra asservimento domestico e asservimento lavorativo, fra sfruttamento riproduttivo e nuove e conciliative forme di sfruttamento produttivo e riproduttivo insieme. In altri termini, se una battaglia su questo terreno sia effettivamente declinabile a prescindere da una critica più generale allo sfruttamento capitalistico della differenza di genere nella sfera privata come in quella pubblica; da un ripensamento più radicale della forma lavoro. Nella consapevolezza dell’importanza di coniugare la necessità di immediati miglioramenti delle condizioni materiali dei soggetti con prospettive politiche a più lungo raggio, vogliamo provare ad ipotizzare come terreno del conflitto non tanto quello del lavoro quanto quello del reddito. Un reddito che, se indubbiamente negli attuali assetti economici transita per la vendita di sé sul mercato del lavoro, non esclude altre forme di costruzione materiale dell’indipendenza basate ad esempio su pratiche di riappropriazione o di socializzazione del lavoro riproduttivo. Slegare i due termini non è un esercizio retorico; piuttosto incarna il desiderio di pensare linguaggi e rivendicazioni per le donne che non siano apologetici rispetto ad altri, trasversali, dispositivi di produzione delle ineguaglianze sociali, che possano costituire un terreno di confluenza per la molteplicità delle questioni in gioco e degli attori sociali in campo, nella consapevolezza che nessun miglioramento delle condizioni di vita delle donne è pensabile al di fuori di una trasformazione dei rapporti di classe in cui esse risultano calate.
Fra le insidie del dialogo
“Queste donne mi hanno rappresentato in maniera civile i loro problemi di lavoro nelle fabbriche ponendomi delle domande come ministro del Lavoro e come ministro delle Pari opportunità. Ho preso nota attentamente, sono un ministro che valorizza molto il dialogo in qualunque occasione. Certo non posso parlare con tutti e tutte, però credo che il dialogo sia una cosa positiva e lo è stato anche in questo caso”.
Un luogo comune spesso acriticamente introiettato rappresenta quello del dialogo come uno spazio di risoluzione partecipata del conflitto basato su di un imprescindibile riconoscimento minimo dell’alterità e contrapposto alla violenza. Alla studentessa che ne contestava l’operato la ministra Fornero ha rivolto accuse di non democraticità, invitandola al dialogo, cioè a distribuire equamente fra entrambe gli spazi della presa di parola. Tuttavia che questa apertura alla reciprocità della comunicazione abbia instaurato uno spazio di intersoggettività egualitaria è più che un’illusione, è esplicita menzogna: “L’uguaglianza di parola è fondata sulla disparità di cultura, condizione, potere, fortuna” scriveva Blanchot, e difficilmente si potrebbero trovare parole più adatte a descrivere le asimmetrie degli attori in campo. Asimmetrie che, se per lo più regolano l’accesso allo spazio del discorso, possono eventualmente avvalersi di una sua distribuzione più ampia senza perciò distribuire il monopolio della sua organizzazione e della mediazione fra le parti – ragione per la quale le strade hanno da sempre rappresentato il luogo di una presa di parola autonoma piuttosto che concessa! La risoluzione dialogica di una contestazione non solo costituisce un’illusoria mediazione alla pari ma risulta addirittura funzionale alla celebrazione della magnanimità democratica di quello che era il suo obiettivo critico! Dentro lo spazio dialogico e senza grinze dello spettacolo di Se non ora quando? la rimozione di ogni differenza in nome dell’unità del genere riesce a recuperare tutto, a mettere tutte in connessione e la rappresentazione sembrerebbe richiudersi anche su chi desiderava interromperla. Naturalmente questo è quanto i media meanstream restituiscono in accordo con la narrazione di una (quella egemone) delle parti coinvolte. E tuttavia questo apre imprescindibili scenari di riflessione su quanto si concede alla controparte in termini di recupero delle proprie istanze! Il rifiuto del confronto dialogico come plausibile spazio di rivendicazione non è ideologico né aprioristico ma fondato su di un’asimmetria reale che si rende tangibile nelle asimmetriche possibilità di accesso alla rielaborazione e narrazione del confronto. Il rifiuto dello spazio del discorso non è violento più di quanto non lo sia l’egemonia insita nel confronto verbale col potere. Il ricatto del confronto (pena l’accusa di anti-democraticità e violenza) è spesso solo una delle tante strategie di assimilazione del conflitto contro le quali le piazze e la possibilità di una presa di parola autonoma continuano a restare percorsi attuali e percorribili.