Una granita di traverso. Note a caldo dalla piazza catanese
L’Estate italiana tour non procede nel migliore dei modi per Matteo Salvini: la Sicilia orientale ha ieri riservato un’accoglienza tutt’altro che festosa all’attuale ministro dell’Interno.
Letojanni, Taormina, Catania, Siracusa: una giornata campale che ovunque ha riservato alla Lega nient’altro che fischi, insulti e contestazioni. A Catania centinaia di persone, radunatesi spontaneamente, hanno costretto il ministro dapprima ad entrare frettolosamente in Comune da un ingresso secondario e poi ad annullare frettolosamente la prevista passeggiata in centro con tanto di selfie e granita. La precipitosa fuga in auto del capitano era stata preceduta da quella dell’esigua claque che avrebbe dovuto accoglierlo trionfalmente: la rabbia di tutte e tutti ha sfidato al grido di “Fuori i leghisti da Catania” i cordoni della polizia, costringendoli più volte ad arretrare. Circondati da tutti i lati e letteralmente braccati da una piazza coraggiosa e determinata, i pochi razzisti presenti sono stati cacciati da piazza Duomo, rifugiandosi in una via poco distante. Dalla piazza di ieri emergono alcune considerazioni a nostro avviso fondamentali.
Al di là del lessico stantio della sinistra, ieri non abbiamo assistito ad una giornata di resistenza, anzi. La piazza ha assunto con naturalezza un assetto offensivo, ha rifuggito la passività mettendo a più riprese in crisi il dispositivo fisico di controllo: un’attivazione spontanea che ha messo in campo per ore una pratica continua e ostinata dell’attacco. È questo forse il dato più interessante: il protagonismo dirompente di un soggetto politico trasversale e delle sue condotte conflittuali, la cui emersione non sempre è scontata, ma la cui esistenza è più di una convinzione dai risvolti quasi metafisici. Dopo il venticinque agosto scorso, quando una piazza determinata aveva affrontato le cariche della polizia all’ombra della Diciotti, Catania si riconferma terra ostica per il capitano, lanciando uno strale che ha colpito nel segno. Il silenzio rumoroso del solitamente strombazzante apparato social di Salvini ne è la miglior conferma.
Una considerazione cruciale che emerge dalla piazza di ieri riguarda la sua composizione: da un lato una ventina di leghisti spauriti, tra i quali si potevano notare senza sforzo le facce di qualche noto fascista e dei fuoriclasse del trasformismo appartenenti al peggior ceto politico cittadino, dall’altro centinaia di persone compatte e determinate, particolarmente eterogenee per età, genere, classe sociale. Una composizione trasversale e spuria, dunque, che non solo neutralizza sul nascere le ormai trite frecciate su centri a-sociali et similia, ma mette radicalmente in crisi la narrazione del consenso universale e compatto di cui Salvini godrebbe nei quartieri popolari e tra le fasce meno abbienti e ne rivela la vera natura, quella, appunto, di mera narrazione semplificatrice. Come testimoniano gli insulti che ieri serpeggiavano fra le vie attorno piazza Duomo, i famigerati figli di papà tanto invocati dalla compagine leghista ieri erano quelli ben nascosti dietro i cordoni della celere. Il Moloch semi-onnipotente del salvinismo è granitico solo se guardato con superficialità e letto attraverso le lenti deformate della sua stessa propaganda o di un certa mise sconfittista: sottovalutarne le radici profonde è errato tanto quanto ignorarne la fragilità. L’incessante campagna elettorale del capitano spara sempre più spesso a salve, tra fughe precipitose e scivoloni quali il neanche troppo velato riferimento di ieri al ponte sullo Stretto: anche la definitiva rottura del governo del cambiamento potrebbe non rivelarsi la mossa più azzeccata, soprattutto al Sud. L’impressione che emerge da ieri è che il grido “traditori” non si riferisse soltanto ai decenni di razzismo anti-meridionale, ma anche, e soprattutto, ai più recenti avvenimenti politici.
Se ieri si è affrontato (e sconfitto) un dispositivo fisico di controllo, dev’essere ora nel mirino il dispositivo ideologico e propagandistico dello schieramento sovranista. Crepe che si aprono, si allargano scricchiolando, si fanno voragine: senza trincerarsi nel purismo ideologico ed evitando come la peste le armi spuntate del gauchisme, è tempo di tornare ad osare, con il coraggio che questo tempo ci richiede e con tutta l’intelligenza strategica che possiamo mettere in campo. Sarebbe un errore fatale continuare a fissare l’oceano dalla spiaggia, scambiando l’assenza apparente di moto della superficie per assoluta immobilità. Le correnti si muovono instancabili, vorticosamente si intensificano e si rimestano, qui sobbollendo sotterranee, qui emergendo dagli abissi: a noi sta leggerne le traiettorie ed approfondirle. Ieri le acque si sono increspate: chissà che un uragano non sia di là da venire.
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