Patriarcato, classe e razza: una sola lotta
Il 25 novembre di quest’anno si inserisce in una cornice particolare: a poco più di un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, a pochi giorni dalle affermazioni del ministro Valditara e in un contesto di movimento in cui, anche in Italia, inizia a farsi strada con determinazione il discorso decoloniale.
Dal Collettivo Universitario Autonomo – Torino
Quando siamo scese in piazza un anno fa lo abbiamo fatto sull’onda della rabbia che il femminicidio di Giulia ha scatenato in tutte noi, una coetanea, una studentessa, ma soprattutto la sorella di una ragazza, Elena, che ha trasformato il proprio lutto in un fatto politico collettivo, usando le parole d’ordine del movimento femminista e scatenando la risposta che ha portato 500 mila persona in piazza a Roma e migliaia in tutte le altre città il 25 novembre 2023. Quella rabbia è la stessa che ha portato alcune delle studentesse di Unito a denunciare i docenti molesti della nostra università e a pretenderne la sospensione.
Elena Cecchettin non è stata la sola a rendere politico il proprio dolore personale quest’anno: dall’altra parte delle Alpi Gisèle Pelicot, con un coraggio senza eguali, ha usato il proprio processo per stupro come strumento per dare forza a tutte le altre donne perchè “la vergogna cambi campo”, dando vita alla campagna “je suis Gisèle Pelicot”. La 71enne francese ha infatti deciso di rendere il proprio processo per stupro contro il marito e altri 50 uomini a porte aperte, perché non devono essere le donne a vergognarsi delle violenze subite, “la vergogna devono provarla gli uomini e questa società patriarcale”.
Senza vergogna è invece sicuramente il ministro dell’istruzione Valditara, che all’inaugurazione della fondazione Giulia Cecchettin, pochi giorni fa, ha dichiarato che «Il patriarcato non c’è più, le violenze sessuali aumentano a causa dell’immigrazione» continuando con un discorso fazioso intriso di razzismo. Secondo Valditara infatti il patriarcato sarebbe morto 200 anni fa e nel 1975 come fatto giuridico, grazie alla riforma del diritto di famiglia e si dovrebbe smettere di far finta di non vedere che la violenza sessuale sia legata a fenomeni di marginalità discendenti dall’immigrazione illegale.
Queste affermazioni vergognose, oltre a essere un insulto alla famiglia Cecchettin che ha creato la fondazione, rispecchiano la propaganda politica di un governo razzista che, anziché affrontare la violenza di genere alla radice attraverso programmi di welfare che incentivino l’autonomia delle donne (come asili nido, congedi di maternità equi per entrambe le figure genitoriali, soluzioni reali per l’uscita da situazioni di violenza domestica), programmi educativi nelle scuole e non solo, implementazione dei consultori sul territorio e investimenti sulla sanità, è impegnato a promuovere soluzioni securitarie e politiche per la natalità, nega il diritto all’aborto a un numero sempre crescente persone e chiude confini.
Nelle scuole Valditara ha risposto all’ampio dibattito sull’educazione sessuale e alle richieste delle studentesse medie con il programma “educare alle relazioni”, nel quale in realtà non si fa altro che concretizzare le politiche per la natalità del governo Meloni. L’inadeguatezza di questo scaldapoltrone è evidente e terrificante in un contesto in cui la violenza di genere è in aumento anche fra i giovani e in cui un’educazione sessuale e alle relazioni femminista sarebbe necessaria. Dai risultati della ricerca “Giovani Voci per Relazioni Libere”, condotta tra giovani tra i 14 e i 21 anni, emerge che il 30% di loro sia convinto che la gelosia sia una forma di amore. Ma anche in questo caso la questione viene strumentalizzata dal governo per fare propaganda politica contro il suo altro grande capro espiatorio, i giovani, come dimostra il femminicidio di Aurora, 13 anni, a Piacenza da parte del fidanzato.
Anche Meloni non si risparmia, e con una dichiarazione simile a quella di Valditara cerca di creare delle connessioni tra immigrazione e violenza di genere, l’ennesima legittimazione della propaganda razzista da parte dei governi, sia da destra che da sinistra.
Parole simili non sono nuove, ma sono il frutto e la dimostrazione del ruolo predominante che la storia coloniale italiana, e di conseguenza la narrazione che la legittima, gioca ancora oggi nella nostra società. Paragonare l’uomo razzializzato a uno stupratore è solo uno dei tanti meccanismi di disumanizzazione delle persone non bianche, nonché caposaldo delle narrazioni coloniali, volto a identificare “l’altro” come un pericoloso nemico e quindi giustificarne lo sfruttamento. Inoltre questa narrazione silenzia le voci delle donne razzializzate che subiscono violenza anche sulla linea del colore della pelle, offuscando la matrice anche se razzista del patriarcato. Rifiutiamo qualsiasi tentativo di strumentalizzare la nostra rabbia, conosciamo bene il nostro nemico e ha solo un nome: patriarcato.
Questo 25 novembre ci sembra fondamentale sottolineare come la violenza patriarcale sia anche una questione di classe e di razza. Il femminismo intersezionale ci insegna che non siamo tutte uguali, proprio perché la violenza di genere si colloca all’intersezione della violenza di classe e a sua volta, a questa intersezione, per le donne non bianche si aggiunge la violenza razzista. Le condizioni di sfruttamento lavorativo e la disparità dei salari in cui si trovano maggiormente le donne povere e le donne razzializzate sono tra i fattori che costringono troppe a dipendere economicamente dal proprio partner: questo chiaramente rende molto difficile allontanarsi da situazioni di violenza domestica e psicologica, ed è per questo che non può esistere una lotta femminista che non sia anche lotta di classe e antirazzista.
In questa giornata (come tutto l’anno) non accettiamo di essere dipinte come vittime, né di limitarci a fare richieste, ma rivendichiamo la nostra libertà e autonomia rifacendoci all’esempio della resistenza delle donne palestinesi e a tutte le donne in lotta nel mondo.
Non saremo libere fino a quando tutte non saranno libere!
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