Cosa c’è dietro il sistema degli appalti al ribasso nella logistica?
Due note aziende della logistica sono state recentemente poste sotto inchiesta giudiziaria per le condizioni di sfruttamento in cui versano i propri dipendenti.
di Emiliano Gentili
A dicembre, inoltre, era scattato un sequestro di circa 102 milioni di € a causa di indagini sulla somministrazione illecita di manodopera. Le due imprese sono BRT e Geodis Italia, entità piuttosto grandi e per di più facenti parte di società di livello e prestigio internazionali. Eppure, entrambe note per affidare le operazioni logistiche a società cooperative in appalto, ribassando il prezzo della forza-lavoro, aggirando tutele contrattuali previste dalla legge e “facendo fuori”, tramite i nuovi appalti e i cambi-appalto, i lavoratori sindacalizzati. Come riportato da Luca Serafini nel suo articolo 1, BRT “fa parte del gruppo DPD, società delle consegne di GeoPost (14,7 miliardi di euro di vendite nel 2021) in portafoglio a La Poste Groupe, posseduta dalla Cassa Depositi e Prestiti francese (Caisse des dépôts et consignations). Geodis, invece, rientra nel gruppo SNFC, ovvero le Ferrovie di Stato francesi”.
Chiaramente lo “spezzettamento” delle proprietà societarie è funzionale al contenimento del prezzo della forza-lavoro: società controllate, aventi bilanci separati e capitali minori rispetto all’azienda madre, tenderanno a pagare salari inferiori per riuscire a mantenere i livelli di capitalizzazione necessari per poter agire efficacemente nel mercato; nel caso degli appalti piccoli, poi, a volte la quantità di capitale da investire nei salari mensili può essere realmente difficile da sostenere (come ad esempio in molti casi di cooperative e minute società di drivers che operano nella Regione Logistica Milanese). Questo a causa delle condizioni poco generose del contratto di appalto, che possono porre in seria difficoltà i dirigenti (di conseguenza ancor più propensi a incrementare lo sfruttamento della manodopera), e di capitali aziendali di partenza inadeguati.
Ma la gestione della forza-lavoro è l’unica ragione della divisione del processo lavorativo in più proprietà aziendali distinte? Per provare a vederci chiaro, diamo prima alcune nozioni fondamentali.
Supply chains e relazioni societarie
Con “processo lavorativo” si intende il processo di produzione della merce dall’origine (l’estrazione delle materie prime) alla fine (la distribuzione al cliente finale). Al suo interno vi sono fasi produttive e fasi logistiche. Se queste ultime rappresentano la circolazione delle merci e riguardano, dunque, le fasi di immagazzinamento, movimentazione e trasporto di materiali, componenti, strumenti/macchinari di lavoro e merci, quelle produttive sono essenzialmente quelle di lavorazione e assemblaggio. Dette fasi si ripetono più volte nel corso del processo di produzione della merce, in un ordine che varia a seconda dello specifico prodotto, ma sempre secondo un tracciato di “catena verticale”, lungo la quale la merce acquisisce valore di mercato (valore di scambio). Tale catena è detta “catena del valore” oppure, secondo il linguaggio internazionale, “supply chain” o “value chain”.
Il processo lavorativo e il processo di valorizzazione della merce sono due cose intrecciate ma distinte. La merce infatti acquisisce gran parte del suo valore di mercato in fasi che non appartengono al processo lavorativo, quali: progettazione; ricerca e sviluppo; elaborazione dell’informazione; marketing; gestione della proprietà intellettuale; commercializzazione; assistenza post-vendita. Si nota fin da ora che le prime due sono fasi che precedono l’inizio della lavorazione del prodotto, mentre tutte le altre vengono dopo che questa si sia conclusa.
All’interno dei vari passaggi in cui si struttura una supply chain, difatti, non tutte le aziende guadagnano allo stesso modo. Le fasi iniziali (dette “a monte”) e finali (dette “a valle”) della catena sono quelle più remunerative, ossia che consentono un accrescimento maggiore del capitale aziendale in rapporto alla quantità investita. Tra queste possiamo citare anche, ad esempio, l’assemblaggio dei componenti finali (a maggior ragione se ad alto contenuto tecnologico), le lavorazioni con alto contenuto di competenza specialistica e la distribuzione finale ai clienti. Tra quelle meno remunerative, invece, l’assemblaggio di componenti poco costosi, la logistica relativa a queste fasi, il lavoro manuale non specializzato e il lavoro impiegatizio non specializzato.
Una qualsiasi azienda posizionata in un qualsiasi passaggio della catena tenderà ad accrescere il proprio mercato al fine di aumentare i livelli di remunerazione del proprio capitale. Individuiamo tre strategie fondamentali: vendere le proprie merci su più mercati diversi; modificare la propria competenza aziendale per riuscire a operare nei settori più remunerativi della supply chain in cui si è inseriti; porre sotto il proprio controllo segmenti via via più estesi della supply chain. Ciò vuol dire implementare la produzione (dal punto di vista qualitativo e quantitativo) e il business aziendale.
Riguardo la prima strategia. Immaginiamo di produrre componenti elementari di chip elettronici e di avere un’unica azienda committente, che produce parti elettroniche per i computer. La nostra preoccupazione sarà quella di rendere i nostri prodotti validi anche per altre aziende. Potremmo cominciare bussando alla porta di quelle simili, che producono altre parti elettroniche che risultano sempre compatibili coi nostri componenti elementari, dopodiché proseguiremmo cercando di diversificare la produzione e produrre così degli oggetti interessanti per aziende della stessa tipologia ma che producono parti elettroniche che non risultavano compatibili, e poi arriveremmo a quelle che lavorano nelle supply chain dei telefonini cellulari, spingendoci fino all’elettronica per uso civile, per uso commerciale e infine militare. La strategia, insomma, consisterebbe nell’inserirci in più supply chains differenti (per quanto, in questo caso, tutte facenti parte della filiera dell’elettronica). A quel punto avremo stretto nuove partnerships con vari fornitori e, alla fine, saremo talmente centrali da essere in grado di diventare un “nodo” che leghi a livello commerciale i fornitori del tipo di prodotto che commerciamo, da un lato, e gli utilizzatori dello stesso, dall’altro. Le supply chains, infatti, sono una catena verticale solo se le si osserva da lontano. In realtà assomigliano più a un reticolato caotico interconnesso. Uno dei fattori in grado di dare una forma a questo caos è il “nodo”. Abbiamo descritto un nodo produttivo, ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto per la logistica: parleremmo allora di nodo logistico. L’interruzione del lavoro in un nodo di una certa importanza può produrre effetti a catena di paralisi produttiva. In quei contesti, allora, la potenzialità politica degli scioperi è maggiore, per quanto esistano vari fattori di controtendenza che, per ragioni di brevità, non accenniamo ora.
Riguardo la seconda strategia. La diversificazione della produzione può condurre a un vero e proprio cambiamento del business aziendale dal momento che non tutti i mercati presentano le stesse opportunità di profitto. Si tratta del cosiddetto riposizionamento strategico dell’azienda, altrimenti detto “upgrading”. All’interno di una catena si verificano continuamente operazioni di riposizionamento delle singole aziende, che puntano a collocarsi nelle posizioni più remunerative. Presupposti per l’upgrading sarebbero, principalmente, il livello di sviluppo del settore Ricerca e Sviluppo, il livello di integrazione nella supply chain (che, senza entrare nei dettagli, sul piano del lavoro salariato vuol dire ritmi più intensi, minor spreco di tempo e alto tasso tecnologico del processo produttivo) e il grado di prossimità coi principali poli e mercati di attività economica [Simonetti, 2018].
Gli upgradings di un certo rilievo possono riguardare un’intera cordata di aziende o, nei casi ancora più grandi, una o più filiere produttive nazionali. E allora, oggi che il capitalismo ha sviluppato enormemente le forze produttive in tutto il globo, più che della lotta per la spartizione delle zone economiche d’influenza, i conflitti fra potenze imperialiste sarebbero principalmente il frutto avvelenato di queste dinamiche. Se la ragione rimane quella di acquisire una maggior capacità di valorizzazione dei capitali c’è però una differenza tra il monopolizzare nuovi mercati 2, praticando un’espansione orizzontale, e la monopolizzazione dei passaggi più remunerativi della produzione economica, che appare come un’espansione verticale. L’espansione orizzontale continua ad esistere, come è chiaramente visibile in tutte le guerre recenti3, ma determina solo conflitti periferici e locali. Ha il potenziale dell’innesco di conflitti più grandi, probabilmente, ma non ne può costituire la causa diretta.
L’espansione orizzontale è una funzione di quella verticale e punta, in ultima analisi, all’incremento delle capacità di upgrading. Che sia per tramite dell’acquisizione di nuove forze produttive (zone industriali, ad esempio), di territori ricchi di materie prime o di importanza logistica strategica, che sia per ottenere una valorizzazione immediata di capitale o per favorire la ripartenza del ciclo economico (distruzione delle forze produttive), l’obiettivo è sempre quello di arrivare a occupare le posizioni più remunerative all’interno delle supply chains. Un tempo, invece, il controllo di nuovi territori poteva costituire l’opportunità di accrescere i tassi di valorizzazione oltre misura, mentre lo sviluppo della tecnica e la sfera della finanza non avevano raggiunto un livello di sviluppo paragonabile a quello odierno, in grado di garantire profitti incommensurabilmente maggiori.
Un esempio di conflitto interimperialistico “verticale” è la lotta fra USA e Cina per l’egemonia nelle fasi più remunerative del settore hi-tech. D’altro canto il confronto su Taiwan o l’invasione di capitali che sta interessando l’Africa sono esempi “orizzontali”. La conquista “geografica” di nuovi mercati comporta l’incremento delle capacità belliche e del controllo sociale sulla popolazione, in virtù di una maggiore quota di plusvalore di cui poter disporre, e garantisce una maggior capacità di fare concorrenza nel mercato globale, ma non determina in automatico tassi di valorizzazione più alti di quelli degli altri. Stessa cosa dicasi per la conquista o il controllo di territori di grande importanza logistica (come lo stretto del Bosforo, in Turchia).
Fa eccezione la lotta per l’accaparramento delle riserve mondiali di materie prime. Questa, sebbene appaia come un conflitto “orizzontale”, in realtà cela semplicemente il tentativo di egemonizzare le fasi “a monte” della catena del valore. Fa parte cioè di quella lotta “verticale” per il controllo delle fasi a maggior valore aggiunto delle supply chains. Non per caso le fasi “a monte” si svolgono normalmente in Paesi dove il costo del denaro e del lavoro è basso, così da poter mantenere basso anche il valore di scambio delle merci nei passaggi successivi ed evitare la crescita esponenziale dei salari 4. In alternativa vengono svolte all’interno di Paesi avanzati che posseggono l’egemonia anche sui passaggi intermedi e finali della catena.
Non approfondiremo in questo testo il rapporto fra supply chains e filiere dell’economia nazionale. Ci siamo infatti limitati a dare una rappresentazione approssimativa dell’azione politica degli Stati, come fosse l’output diretto di interessi legati all’upgrading delle aziende statali nelle catene del valore. Riguardo la terza strategia. Generalmente le partnerships non sono regolate da contratti equilibrati e pertanto non hanno solamente la funzione di aumentare le possibilità di vendita delle merci prodotte. Vi è anche quella di incrementare ulteriormente il tasso di valorizzazione del capitale dell’azienda posta in posizione di vantaggio, al fine consolidare le proprie posizioni e stabilire relazioni durevoli di predominanza. Essenzialmente, queste ultime possono configurarsi come: relazioni captive, in cui l’azienda in svantaggio (in genere il fornitore) dipende totalmente dal cliente (acquirente); integrazione verticale (acquisizioni aziendali e aziende controllate, altrimenti dette “figlie”); confinamento delle aziende in svantaggio nei mercati meno remunerativi, pur mantenendo con esse, l’azienda in vantaggio, relazioni apparentemente più equilibrate5. Essere il soggetto predominante in un dato segmento della catena serve a moltiplicare la capacità di remunerazione del capitale aziendale. Vedremo meglio poi il perché.
Ragioni profonde del sistema degli appalti
Prendiamo come riferimento teorico la teoria del valore di Marx, secondo cui il valore di una merce è determinato dalla quantità di forza-lavoro impiegata per produrla. Questa è chiamata “lavoro oggettivato”, in quanto figurativamente contenuta nella merce, che è un oggetto. Applicando la teoria alle supply chains, dunque, passaggio dopo passaggio la merce acquisirà maggior valore, perché aumenterà la quantità di lavoro in essa accumulata. La forza-lavoro, dal canto proprio, andrà a valorizzare un materiale che vale sempre di più. Di conseguenza, quella impiegata per lavorare nelle fasi più remunerative avrà per il capitalista un valore d’uso più alto rispetto a quella impiegata nelle fasi precedenti: porterà a profitti maggiori. Tutto ciò però non coincide col reale andamento del valore di scambio delle merci (semilavorati, componenti, materiali di lavorazione e materie prime, ecc.) che vengono vendute e acquistate, fra un passaggio e l’altro, lungo tutta la catena del valore. Infatti riportavamo come le fasi più remunerative siano quelle iniziali e finali. Tra l’altro la maggior quantità di lavoro oggettivato non si realizza certo nelle fasi di post-produzione che abbiamo citato, come il marketing pubblicitario o l’assistenza post-vendita, bensì proprio nei passaggi centrali. Non è un caso che la teoria di Marx abbia subìto parecchie critiche e sia stata abbandonata da molti, anche a sinistra. Cerchiamo allora di capire se, facendo salvi i presupposti teorici, vi sia un motivo per cui l’incremento del valore di scambio di una merce durante la sua catena di produzione non sia parallelo alla progressiva accumulazione di lavoro oggettivato e vada anzi a determinare una distribuzione irregolare del tasso di valorizzazione dei capitali investiti (una distribuzione sbilanciata, per l’appunto, “a monte” e “a valle” della catena). Per farlo torniamo al punto di partenza: gli appalti nel settore logistico.
Quando un’azienda della logistica appalta l’immagazzinamento a una cooperativa di facchinaggio, in genere lo fa imponendogli per contratto un certo investimento di capitale, determinato essenzialmente dal valore del contratto. Poniamo il caso che questa spenda circa 300.000 € all’anno, perché i propri dipendenti sono abituati a salari discreti, hanno determinate garanzie sulla malattia e sui congedi e magari ogni tanto si assentano dal lavoro. A un certo punto la dirigenza stipula un contratto da 100.000 € all’anno con una cooperativa. Questa, avendo poche risorse a disposizione e dovendo garantirsi un tasso di valorizzazione relativamente alto (e determinati profitti), impone una diversa gestione della forza-lavoro: gli stessi lavori che venivano fatti prima (stabiliti sempre nel contratto) sono ora svolti a un terzo del prezzo e con maggiore precarietà contrattuale. Si verifica un peggioramento netto delle condizioni di lavoro.
Ciò è chiaro a chiunque abbia provato simili dinamiche sulla propria pelle, faccia sindacato o si interessi per motivi personali. Il punto su cui si chiede l’attenzione del lettore, però, è il seguente: in questa maniera l’azienda logistica non ha contenuto soltanto il valore di scambio della forza lavoro ma anche quello della merce prodotta o del servizio svolto (nel nostro caso si tratta del mantenimento e della lavorazione logistica dei prodotti nel magazzino). Dunque, la cooperativa ha permesso che il passaggio della filiera che gli è stato appaltato riservi d’ora in avanti un tasso di remunerazione del capitale più basso. Normalmente, infatti, un contratto di fornitura non garantisce gli stessi profitti del mercato libero: la cooperativa del nostro esempio accetta profitti inferiori perché da sola non riuscirebbe mai a conquistarsi l’accesso a quel mercato e avrebbe introiti ancora minori. Ma se si abbassa il tasso di valorizzazione del passaggio appaltato è chiaro che si alza quello successivo, rimasto sotto il diretto controllo dell’azienda logistica. Questa, infatti, continuerà a vendere i propri prodotti come prima, se non meglio, e agli stessi clienti. Semplicemente, avrà speso meno per portare a compimento il passaggio intermedio, quello che ha appaltato. Utilizzare un’azienda (o cooperativa che sia, non cambia nulla) controllata o una subordinata, quindi, può essere un modo per riuscire a regolare il valore economico dei passaggi della filiera. Ma vi sono anche altre maniere.
Un capitalismo di stato può imporre per legge un determinato aumento dei valori di scambio nei passaggi di valorizzazione della merce. O direttamente, imponendo dei prezzi per decreto, o indirettamente, stabilendo l’organizzazione aziendale e i contratti (e la giurisdizione di supporto), più o meno come fanno le aziende madri con le controllate. Ad ogni modo, però, queste possibilità hanno valore soltanto all’interno del singolo Paese, ragion per cui la pianificazione economica capitalista non costituisce una potenziale “alternativa di sistema” nemmeno dal punto di vista dei risultati economici. E in effetti, immaginando un’unica azienda che governi un’intera supply chain (al posto dell’articolazione fra aziende dominanti e subordinate), bisogna supporre che il tasso di valorizzazione complessivo del capitale sarebbe inferiore. Le fasi a minor valore aggiunto peserebbero inevitabilmente in senso negativo sui profitti dell’azienda monopolista (monopolista in senso verticale, lo ricordiamo), rappresentando un costo maggiore rispetto all’appalto e, alla fine, comportando un tasso di valorizzazione del capitale aziendale più basso. Un tasso di valorizzazione inferiore è una debolezza relativa rispetto ai quei capitali, propri di altre grandi aziende, magari estere, che si valorizzano a un tasso maggiore. Non è una coincidenza che nella fase economica attuale vi sia concentrazione dei capitali ma non delle proprietà aziendali, che invece tendono ad aumentare di numero.
Per questo motivo l’articolazione dello sfruttamento del lavoro salariato è isomorfica all’articolazione delle supply chains. Queste sono il diabolico meccanismo labirintico che regola e ripartisce, fra i vari capitali e fra i lavoratori, il valore prodotto durante il processo di valorizzazione della merce, il processo di oggettivazione della forza-lavoro. Quest’ultima oggi non viene semplicemente comprata come una merce, quale è, pagando il salario ai suoi possessori: il capitalista compra agli altri capitalisti la capacità di valorizzazione del capitale che quella merce, interagendo con gli impianti, i macchinari, le tecnologie, ecc., è in grado di produrre. Quando questa capacità è minore, ossia nelle fasi a basso valore aggiunto della filiera, il capitalista tenderà a pagarla meno.
Perciò la funzione delle aziende è duplice: evitare la crescita esponenziale dei salari; imporre una distribuzione impari del plusvalore fra i capitalisti e perciò, tendenzialmente, sostenere la tendenza alla concentrazione dei capitali. Le aziende rappresentano il soggetto giuridico in grado di imporre una configurazione articolata dell’appropriazione del valore progressivamente prodotto lungo la catena che garantisca il maggior tasso di valorizzazione possibile del capitale. Lo scopo della loro esistenza, oltre che dar da mangiare ai porci che ne sono titolari, è quello di sostenere i tassi di valorizzazione del capitale posto nelle fasi più remunerative delle supply chain. Grandi o piccole che siano, controllate o indipendenti, “etiche” o non etiche… il disegno è uno solo e l’obiettivo è lo stesso per tutte: aumentare il potenziale remunerativo delle fasi della catena in cui si è posizionati, concentrando la capacità di valorizzazione dei passaggi contigui in un unico punto (per massimizzare esponenzialmente i rendimenti) e contenendo il prezzo della forza-lavoro.
Distribuzione del potenziale politico
Inevitabilmente, però, la concentrazione della capacità di valorizzazione in alcuni passaggi della catena tenderà a riflettersi in positivo, all’interno di quei passaggi, sul livello dei salari. Il capitalista, per evitarlo, può ad esempio attuare degli spostamenti di prossimità del valore di scambio della forza-lavoro, magari appaltando la consegna finale al cliente e pagando meglio in quelle fasi immediatamente precedenti che prevedano l’impiego di forza-lavoro specializzata, di norma numericamente inferiore ma meno sostituibile. Con espedienti di questo tipo, con la divisione della proprietà aziendale della catena produttiva, il capitalista avrà posto in essere un “dividi et impera” e sarà difficile costruire scioperi coordinati lungo il segmento della supply chain interessato, così da bloccarne a catena una porzione maggiore. Non è un caso che in genere le aziende grandi appaltino un solo servizio a più società (vedi le cooperative di driver di Amazon in Pianura Padana), riuscendo a differenziare ulteriormente le condizioni di lavoro all’interno dello stesso passaggio.
Tuttavia i capitalisti non sono in grado di garantire che la distribuzione dei tassi di valorizzazione dei capitali sia fissa e immutabile per sempre. La vastità del mercato e le sue ramificazioni interne (sia in senso competitivo che di interazione fra capitali appartenenti a “cordate” di interessi diverse e, magari, contrapposte) possono favorire crescite anomale di alcuni capitali e crisi di valorizzazione di altri. Queste sono le causanti del conflitto interimperialistico “verticale”, di cui dicevamo sopra. Deve avvenire allora che i capitalisti non siano più in grado di garantire la propria strategia del “dividi et impera” e che le condizioni dei lavoratori appartenenti a fasi differenti della supply chain inizino a uniformarsi verso il basso. Lo sciopero di catena, a quel punto, rappresenta la potenzialità di moltiplicare la forza dello sciopero bloccando il flusso delle merci anche in passaggi produttivi non interessati dalle proteste.
Fintantoché ciò non si verifica il radicamento sindacale con maggior potenziale politico è a nostro parere quello all’interno dei passaggi più interconnessi delle supply chains, i nodi logistici e produttivi. E non solo in un’ottica di prospettiva. Questi sono anche i passaggi meno facilmente sostituibili dalle aziende, che in fin troppe occasioni hanno risolto conflitti coi lavoratori spostando la produzione da uno stabilimento all’altro, aprendo nuovi magazzini e chiudendo quelli più problematici, delocalizzando, ecc.
Premere per l’uniformazione delle condizioni lavorative è un’altra strategia ad alto potenziale politico, anche in questo caso non solo di prospettiva. Basarsi su aspetti comuni delle contraddizioni può essere un punto di partenza per ottenere contratti più generali, che coinvolgano e omologhino il lavoro dipendente di proprietà aziendali formalmente distinte. Il Sindacato ADL Cobas, per prendere l’esempio più recente, ha appena sottoscritto due accordi regionali per il Veneto con GLS Enterprise grazie all’apertura di un tavolo con Fedit (Federazione Italiana Trasportatori), la “Confindustria” degli imprenditori del trasporto. Questi “impegnano i fornitori dei servizi di facchinaggio e movimentazione delle merci e le aziende che operano nella distribuzione a migliorare e standardizzare le condizioni di lavoro e retributive nonché le procedure organizzative. Tutto questo facendo salve le migliori condizioni frutto di accordi già in essere nei singoli magazzini”6.
Uno degli elementi più trasversali alle categorie lavorative è l’intensificazione del lavoro, che produce una serie di contraddizioni sul piano del salario e dell’orario, del rapporto salute-lavoro e del controllo sul lavoro. Pur apparendo in forma diversa a seconda delle categorie, le problematiche coinvolgono tutti: dagli operai industriali e logistici agli impiegati, dalle false partite IVA a drivers e riders…
In alcune occasioni le contraddizioni possono presentarsi in forma generalizzata. Ad esempio durante gli attacchi al welfare state, malgrado i tentativi di dividere i lavoratori differenziando pensioni, sussidi, diritti sul lavoro, ecc. Il potenziale politico di questo tipo di configurazione è evidente in Francia, con le proteste contro l’aumento dell’età pensionabile degli ultimi mesi. Ma attacchi generali al costo della forza-lavoro si possono articolare anche attorno alla crescita dell’inflazione, in occasione della promulgazione di nuove leggi sul lavoro, di riforme amministrative, ecc.
Note:
1 Luca Serafini, Logistica: è arrivato il “pacco”…, pubblicato in clarissa.it, 04/04/2023
2 Esportando capitali al fine di esercitare il controllo sull’economia di un Paese o, come si faceva prima, con l’espansione coloniale
3 Vedi Ucraina, Medio-Oriente, Georgia, ecc.
4 Questa dinamica a volte conduce a che, durante un processo di delocalizzazione industriale, i lavoratori dei Paesi in cui viene trasferita la produzione lavorino in condizioni nettamente superiori a quelle cui erano sottoposti i loro colleghi dei Paesi più avanzati.
5 Per un esempio vedasi sempre l’articolo citato di L. Serafini, al capitoletto “Un caso esemplare”
6 Grande risultato di ADL COBAS nel Veneto: firmato accordo regionale per driver e magazzinieri della filiera GLS ENTERPRISE, in adlcobas.it, 14/04/2023
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