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Raffiche naziste all’opificio di Corso Regina

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È l’11 settembre 1943, dopo i primi momenti di euforia seguiti alla dichiarazione dell’armistizio, tra la popolazione torinese comincia a farsi strada la consapevolezza che la guerra non è affatto finita e che, anzi, si sta entrando in un momento decisivo, quello in cui è necessario sempre più combattere in prima persona contro l’occupante tedesco e i suoi scagnozzi fascisti. Il giorno precedente Adami Rossi, comandante militare di Torino, aveva consegnato la città ai tedeschi, che nel pomeriggio si erano insediati negli uffici di Corso Oporto.

Ada Gobetti, nell’incipit del suo “Diario partigiano”, rende perfettamente l’idea dei primi, brevissimi, momenti di entusiasmo e, infine, della disillusione che pervade tutti i torinesi: “Quando ci ripenso, oggi, mi pare impossibile d’aver potuto essere, in quei giorni, così fanciullescamente superficiale e felice, con uno spirito quasi di innocenza, uno stato d’animo di vacanza. L’unica cosa seria forse era la sensazione che, come nella più bella vacanza, tutto questo non poteva durare; e l’attesa di qualcosa che ci avrebbe ben altrimenti e più profondamente impegnati. Quel giorno, dunque, quando vidi passare le automobili tedesche, ebbi improvvisa la sensazione che la vacanza fosse finita. Non che i rendessi conto, neanche parzialmente, della realtà della situazione. Continuavo anzi a ragionare con il solito stolto, incosciente ottimismo. (…) Erano passate poche ore soltanto dalla riunione del mattino, quella gioia, quell’entusiasmo del sentirsi veramente uno tra molti, quel senso di fraternità conquistato attraverso il comune sperare e il comune soffrire: era mai possibile che quella forza fosse stata illusione?”

La mattina dell’11 settembre Torino è una città irreale, muli e cavalli dei soldati che hanno abbandonato di fretta le armi brucano sui corsi e sui viali, e la popolazione, provata ed affamata da anni di guerra, entra nelle caserme e nelle industrie abbandonate per cercare cibo, cuoio, vestiti, mentre i primi partigiani cominciano ad organizzarsi, procurarsi armi ed organizzare la Resistenza.

All’inizio di Corso Regina, quasi sul fiume Po, in un quartiere a densa presenza operaia e artigiana, c’è l’opificio militare, una struttura di più di 24.000 metri quadrati, abbandonata di gran lena dai soldati nei giorni precedenti, che ospita un enorme magazzino pieno di scarpe, vestiti, coperte e stoffe. Alla ricerca di qualcuno di questi generi indispensabili, ormai introvabili dopo tre anni di guerra, arrivano persone non solo dal quartiere Vanchiglia, ma da tutta la città.

A mezzogiorno i tedeschi, che avevano già fatto una prima perlustrazione la sera precedente, arrivano all’opificio attraversando il ponte Regina Margherita, e per disperdere coloro che andavano e venivano con sacchetti, carretti e biciclette, cominciano a sparare raffiche di mitragliatrice e a lanciare granate all’interno della struttura. È il panico, la gente scappa da tutte le parti, ma sull’asfalto restano nove morti e diciassette feriti: sono operai, manovali, casalinghe, che ancora stringono in mano una coperta, o un pezzo di cuoio.

Il caposquadra dei vigili del fuoco, chiamati un’ora dopo a spegnere l’incendio provocato dagli stessi tedeschi, annota nella propria relazione: “I militi della Croce Rossa avevano trasportato via i feriti e i morti che si trovavano sulla strada lasciando le chiazze di sangue sul terreno […] con la condotta ho fatto lavare in modo da non lasciare più traccia”.

Una settimana dopo le SS ritornano nel borgo per arrestare alcune persone riconosciute durante il saccheggio, circondano un’abitazione in Corso Tortona 4, e gli abitanti dell’edificio, per paura di una perquisizione, lanciano dalle finestre tutto ciò che avevano preso dall’opificio militare.

Le fabbriche riprendono a funzionare nei giorni successivi, dopo numerose minacce da parte dei tedeschi, e dal 12 viene imposto il coprifuoco alle 8 di sera: ma già i primi nuclei di ribelli si sono organizzati, chi è salito in montagna, chi invece sta mettendo in piedi la guerriglia nella città.

È di nuovo Ada Gobetti che racconta la sensazione provata in quei giorni da tutti coloro che negli anni successivi avrebbero lottato e dato la propria vita per la libertà: “Capivo, pur confusamente, che s’iniziava per noi un periodo grave e difficile, in cui avremmo dovuto agire e lottare senza pietà e senza tregua, assumendo responsabilità, affrontando pericoli d’ogni sorta. (…) In momenti simili, parole e programmi erano inutili. Avremmo fatto giorno per giorno quel che avremmo sentito di dover fare.”

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