
Stop al riarmo, contro il Partito della Guerra. Organizziamoci verso e oltre il primo maggio
Le parole d’ordine uscite dall’assemblea per la costruzione dello spezzone del primo maggio torinese parlano chiaro: organizzarsi per stoppare il riarmo generale, contrastare il partito della guerra che si riassume nelle posizioni liberal-sovraniste, rappresentare una proposta praticabile per chi non si riconosce in un futuro di militarizzazione di ogni ambito dell’esistente.
In primo luogo il piano europeo del Rearm Eu va considerato come la bussola da rompere e riorientare in direzione opposta. Il piano prevede l’aumento delle spese militari per ogni Stato europeo il che implica flessibilità fiscale per permettere di aumentare la spesa militare per la difesa; l’offerta di prestiti per 150 miliardi di euro per progetti di difesa congiunti; la riorganizzazione del bilancio e quindi dirottare altri fondi come quelli Coesione e Sviluppo – che dovrebbero essere destinati ai territori – negli investimenti per la difesa; il sostegno delle aziende nel settore della difesa stimolando anche gli investimenti privati. Per quanto riguarda l’Italia aumentare la spesa militare almeno al 2% del pil è un disastro annunciato per quanto riguarda il disinvestimento conseguente in tutti i settori del welfare, della sanità e della formazione già al collasso. Il cambiamento del nome in “Readiness” non ne sposta di una virgola la sostanza, così come la denuncia della commissione europea sulla votazione avvenuta senza il parere dell’Eurocamera: pallidi palliativi per edulcorare la pillola. L’autoillusione generale sulla creazione di un piano di difesa autonomo e condiviso dagli stati membri per contrastare la Russia e per sostenere l’Ucraina in una guerra che ha già perso porta con sé qualcosa di macabro oltre che di ridicolo. Un passaggio che svela, se ancora ce ne fosse stato bisogno, la nullità che rappresentano partiti considerati progressisti, come il PD nostrano, e annuncia un futuro di lacrime e sangue sulla pelle di tutti e tutte.
L’atteggiamento del governo italiano, stretto da un lato nella morsa della comunanza di testimonianza con la nuova amministrazione USA e, dall’altro, dal vassallaggio e dalla forte dipendenza nei confronti di Stati europei con maggiori chances di non finire in bancarotta come la Francia e la Germania, la dice lunga sull’ inconsistenza della classe dirigente e della sua ipocrisia. Meloni si troverà incastrata nel suo stesso teatrino proprio durante i funerali di Papa Francesco quando Zelensky arriverà in tenuta militare per chiedere le briciole a un Donald Trump sempre più spazientito della sua insubordinazione, il tutto in uno scenario in cui si fa a gara tra chi possa rivendicarsi la figura di Bergoglio come ultimo vessillo di credibilità riflessa.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito in molteplici occasioni a un approccio che punta a semplificare e a accelerare le normative a riguardo di diverse materie, utile a preparare un terreno di disponibilità alla guerra trasversale alla società. Sul piano del lavoro, in particolare pensando al contesto locale, la riconversione industriale per mimare una presa in carico della crisi crescente del settore dell’ automotive e del suo indotto mostra tutta la debolezza di una proposta inesistente. La riconversione all’elettrico viene utilizzata a targhe alterne, da un lato per fare l’occhiolino all’industria tedesca e, dall’altro, per posizionarsi su terreno anticinese. La verità è che non si riesce nemmeno ad affrontare la questione del contratto nazionale per i metalmeccanici, gli operai fanno scioperi sempre più partecipati e la risposta recita la favoletta dei nuovi investimenti che dovranno arrivare.
Nuovi investimenti ci sono ma riguardano il settore della difesa e dell’aerospazio. Aziende come Leonardo, Avio, Thlaes Alenia, Collins Aerospace, ALTEC hanno di che gongolarsi in una fase in cui gli unici obiettivi sono il riarmo e l’innovazione tecnologica.
Non è da meno il Politecnico che, in una fase in cui invece di rescindere gli accordi con le università israeliane come da un anno a questa parte i suoi studenti (che pagano le tasse universitarie) richiedono a gran voce, stipula nuovi contratti con università che si situano in un quadrante geopolitico non di poco conto, come ad esempio il Qatar. Cosa c’è di meglio di un percorso di formazione condiviso con gli sceicchi del mondo islamico – allineati con l’asse atlantico – in una fase in cui il genocidio a Gaza continua senza sosta nell’indifferenza generale, nonostante le potenti mobilitazioni che hanno attraversato tutti i Paesi del mondo? Intanto, ettari di suolo vengono predisposti per costruire nuovi data center e gli investimenti per la transizione tecnologica e digitale votata all’industria bellica fanno il paio con i decreti che annunciano l’avvento del nucleare di nuova generazione.
La transizione energetica fa il suo corso cercando di rimanere in sordina a colpi di progetti pseudogreen in favore della speculazione da grandi rinnovabili sui territori, con il beneplacito delle industrie del fossile che continuano indisturbate a fatturare – sostenute dagli accordi neocolonialisti come il Piano Mattei – dando il benservito a una profonda crisi agricola che sconvolge tutta Italia senza che nessuno, se non qualche folkloristica uscita di Lollobrigida, proferisca parola e infischiandosene degli aumenti sulle bollette che strozzano i consumatori.
I fondi del PNRR si rivelano una scusa per deforestare laddove sarebbero stanziati per riforestare, per disciplinare laddove sarebbero stanziati per formare, per ricattare laddove sarebbero stanziati per mettere le pezze a una sanità al collasso. La crisi sociale si riflette sui piani bassi della classe esacerbando la violenza patriarcale, ogni due giorni viene uccisa una donna, la violenza tra giovani e tra proletari, assumendo sempre più i contorni di una guerra interna. Il loro modello di sicurezza si avvicina ai sogni proibiti di una società israelianizzata: militare, tecnologica e violenta. Il tutto con una spolverata di decreti e misure che tentato di intimidire i movimenti di piazza e a impoverire i quartieri popolari.
Tutte queste cose sono note e sono note ai più. Da nord a sud passando per le isole l’insofferenza individua nomi e cognomi di chi se ne rende responsabile, riconosce gli attacchi sui territori e su chi li abita. Abbiamo bisogno di riconoscerci allora in una proposta valida per puntare alla realizzazione di un sogno che tentano di rubare. La rapina dell’immaginario in un mondo di sfruttamento e guerra non è compiuta, il momento di conquistare spazio e forza si apre e non possiamo rimanere sull’ argine del fiume ad aspettare. Per questo il primo maggio sarà una prima tappa di un percorso torinese che avrà bisogno di ambire a diventare sempre più largo e trasversale per contrapporsi collettivamente al piano che hanno confezionato per noi. Sta a noi disfarlo, compattare un fronte disfattista in quanto unico motore oggi, ancor più esplicito che in altre epoche storiche, capace di disarticolare il piano del complesso militare-industriale che investe il modello produttivo e riproduttivo. Il processo di rifiuto va alimentato, ben coscienti della sua matrice egoistica come leva per rivendicare il proprio diritto a un vivere che si è formato e socializzato all’interno del modo di produzione capitalistico. Fuori dagli idealismi e dai buoni propositi qua si tratta di solidificare una forza che si possa riconoscere, molto prima che in qualsiasi finta soluzione propugnata dall’alto, in una collettività capace di mettere al centro il valore di ciascuno e ciascuna, il valore e il potere dato dall’esistenza stessa. E allora poi sarà possibile immaginare l’alternativa reale che si può dare nella pratica di una contrapposizione concreta a una guerra per una patria e per un’unità ad oggi inesistenti.

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