194, interruzione volontaria di gravidanza
Il 22 maggio del 1978 in Italia viene approvata la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, che permette alle donne di abortire in una struttura pubblica entro i primi 90 giorni di gestazione (o fino al quinto mese qualora la gravidanza comporti rischi di salute per la donna).
Anni di lotte e di denuncia della diffusa piaga dell’aborto clandestino avevano portato all’attenzione di tutti la questione dell’interruzione volontaria di gravidanza ed infine alla formulazione di una legge che eliminasse l’aborto dal codice penale e ne cancellasse dunque la caratterizzazione di reato.
La lotta per l’aborto, esplosa in Italia nel 1973, è stata una lotta radicale, che è passata attraverso autodenunce, occupazioni, arresti e cariche della celere e che non può essere ricondotta alla semplice rivendicazione di un diritto: parlare di aborto voleva dire parlare di autodeterminazione, di riappropriazione del proprio corpo, di messa in discussione di modelli sessuali e di rapporti tra uomo e donna vissuti ormai come retaggio del passato, da abbattere e cambiare nella costruzione di un futuro diverso.
Prima del 1978 tante donne si erano ritrovate a sperimentare la terribile esperienza di un aborto clandestino: chi poteva permetterselo andava all’estero, per tutte le altre c’erano le mammane, il prezzemolo, i ferri dal calza…(si stima che solo nell’anno di approvazione della 194 gli aborti clandestini siano stati 350.000).
Ricorrere a queste strade voleva dire mettersi in mano a sconosciuti, da sole, senza la minima garanzia sanitaria e andare incontro a grossi rischi per la salute.
Di aborto si moriva e chi sopravviveva rischiava la galera.
Oggi questa pratica è andata diminuendo ma per quanto riguarda l’Italia non può certo dirsi scomparsa: basti pensare alle tante donne migranti che non si rivolgono a strutture ospedaliere per paura di essere identificate e denunciate come clandestine.
Pur riconoscendo i limiti della 194, frutto di un compromesso tra quello che le donne chiedevano e ciò che lo Stato fu disposto a concedere, a 33 anni di distanza dalla sua approvazione nulla può essere dato come definitivamente acquisito e ci troviamo così a dover difendere questa legge da continui attacchi e messe in discussione.
Questi attacchi si declinano soprattutto a livello regionale con decreti che tentano di sdoganare la presenza di movimenti cattolici anti-abortisti all’interno dei consultori (con conseguenze che possiamo ben immaginare) ma stanno incontrando ovunque la resistenza di tante donne che, in continuità con le generazioni precedenti, si mobilitano per ostacolarne l’approvazione, consapevoli che ancora oggi il loro corpo rappresenta un campo di battaglia.
Difendere oggi la 194 vuol dire difendere un diritto acquisito con anni di lotte e affermare, oggi come allora, la volontà di decidere autonomamente sui propri corpi.
Il 22 maggio del 1978 in Italia viene approvata la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, che permette alle donne di abortire in una struttura pubblica entro i primi 90 giorni di gestazione (o fino al quinto mese qualora la gravidanza comporti rischi di salute per la donna).
Anni di lotte e di denuncia della diffusa piaga dell’aborto clandestino avevano portato all’attenzione di tutti la questione dell’interruzione volontaria di gravidanza ed infine alla formulazione di una legge che eliminasse l’aborto dal codice penale e ne cancellasse dunque la caratterizzazione di reato.
La lotta per l’aborto, esplosa in Italia nel 1973, è stata una lotta radicale, che è passata attraverso autodenunce, occupazioni, arresti e cariche della celere e che non può essere ricondotta alla semplice rivendicazione di un diritto: parlare di aborto voleva dire parlare di autodeterminazione, di riappropriazione del proprio corpo, di messa in discussione di modelli sessuali e di rapporti tra uomo e donna vissuti ormai come retaggio del passato, da abbattere e cambiare nella costruzione di un futuro diverso.
Prima del 1978 tante donne si erano ritrovate a sperimentare la terribile esperienza di un aborto clandestino: chi poteva permetterselo andava all’estero, per tutte le altre c’erano le mammane, il prezzemolo, i ferri dal calza…(si stima che solo nell’anno di approvazione della 194 gli aborti clandestini siano stati 350.000).
Ricorrere a queste strade voleva dire mettersi in mano a sconosciuti, da sole, senza la minima garanzia sanitaria e andare incontro a grossi rischi per la salute.
Di aborto si moriva e chi sopravviveva rischiava la galera.
Oggi questa pratica è andata diminuendo ma per quanto riguarda l’Italia non può certo dirsi scomparsa: basti pensare alle tante donne migranti che non si rivolgono a strutture ospedaliere per paura di essere identificate e denunciate come clandestine.
Pur riconoscendo i limiti della 194, frutto di un compromesso tra quello che le donne chiedevano e ciò che lo Stato fu disposto a concedere, a 33 anni di distanza dalla sua approvazione nulla può essere dato come definitivamente acquisito e ci troviamo così a dover difendere questa legge da continui attacchi e messe in discussione.
Questi attacchi si declinano soprattutto a livello regionale con decreti che tentano di sdoganare la presenza di movimenti cattolici anti-abortisti all’interno dei consultori (con conseguenze che possiamo ben immaginare) ma stanno incontrando ovunque la resistenza di tante donne che, in continuità con le generazioni precedenti, si mobilitano per ostacolarne l’approvazione, consapevoli che ancora oggi il loro corpo rappresenta un campo di battaglia.
Difendere oggi la 194 vuol dire difendere un diritto acquisito con anni di lotte e affermare, oggi come allora, la volontà di decidere autonomamente sui propri corpi.
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