In memoria di Rosario Bentivegna, partigiano
Lo ricordiamo con un suo scritto del 2002 ripreso in questi giorni da Carmilla-online.
Revisionismo, la storia capovolta e umiliata
di Rosario Bentivegna
Quale revisionismo? Di chi? E’ revisionismo la sciatteria di alcuni “storici”, anche di sinistra, pronti a montare sciocchezze e/o veri e propri falsi su avvenimenti appena orecchiati e non approfonditi adeguatamente? E fino a che punto è giusto definire “revisionismo”, doveroso da parte di studiosi di qualsiasi settore della scienza, ciò che invece è frutto della superficialità vanagloriosa, o della mistificazione e della falsificazione usate solo a scopo politico?
Renzo De Felice tenta, a suo modo, un’operazione revisionista. Egli parte da una profonda e onesta ricerca documentale sulle fonti e sulla storicità dei fatti (lo rileggo volentieri e spesso, e i riscontri oggettivi che propone mi confermano ogni volta la validità della mia scelta antifascista). E’ molto interessante, per esempio, il suo secondo volume (postumo) dell’opera “Mussolini l’alleato” per la quantità e la correttezza delle informazioni che fornisce. Ma cade in errore, a mio avviso, quando giunge a titolare quel volume: “La guerra civile”, riassumendo in quel titolo le conclusioni della sua riflessione che appaiono nella lunga intervista concessa a P. Chessa , “Rosso e Nero” (Baldini e Castoldi, Milano, 1995)
De Felice e la guerra civile
Secondo De Felice, quindi, dall’8 settembre del ‘43 al 25 aprile del ’45 fu combattuta sulla testa degli italiani, caduti ormai nella più totale disperazione e in attesa solo di una pace qualsiasi che costasse il meno possibile, una “guerra civile” tra circa 200.000 combattenti partigiani e circa 200.000 combattenti della Repubblica di Salò.
A parte il fatto che né Kesselring, né altri dirigenti politici e militari tedeschi dislocati nell’Italia occupata, hanno mai parlato di “guerra civile” nelle memorie pubblicate subito dopo la guerra, questa conclusione è erronea perché non tiene conto che:
– ad aprire le ostilità contro l’Esercito Italiano (sia pure regio), furono i tedeschi;
– malgrado la vergognosa fuga del re, dei suoi ministri, dello stato maggiore, numerosi reparti dell’Esercito – non solo a Cefalonia e a Lero, non solo per merito della Marina – ma a Roma, a Bari, a Brindisi, a Piombino, a Trento, e in molte altre località in Italia, in Sardegna e nella penisola balcanica – tentarono di opporsi all’ occupazione nazista, o si affiancarono alle forze partigiane che già da molti anni tenevano fronte al nazismo in Jugoslavia, in Albania e in Grecia;
– laddove quei reparti che si opposero ai tedeschi furono sconfitti, i superstiti presero spesso le vie della montagna, e crearono i primi nuclei della Resistenza italiana armata, dove li raggiunsero altri ufficiali e soldati sbandati, ma anche civili, uomini e donne, che avevano accolto l’invito alla lotta giunto loro dai partiti antifascisti, che con loro formarono le brigate partigiane e costruirono, insieme a chi era rimasto a valle o nelle città, quel tessuto politico e di solidarietà che permise alla Resistenza di condurre la Guerra di Liberazione Nazionale fino alla insurrezione del 25 aprile.
La spinta non fu, allora, la disperazione ma, al contrario, la speranza: è questo che De Felice non ha capito.
Militari e borghesia moderata
L’errore più grave compiuto negli anni ’45-50 dai politici e dagli storici della sinistra (il revisionismo di sinistra!) è non aver tenuto conto del grande contributo nell’iniziativa e in attività militari, talvolta eroiche e disperate, di quella parte dei militari e della borghesia moderata o della destra non (o non più) fascista, che seppero trovare subito il loro posto di combattimento in un quadro di sostanziale reciproca lealtà accanto agli antifascisti “storici” e ai vecchi e nuovi partiti dentro e fuori del Comitato di Liberazione Nazionale.
I residui “fascisti” che si arroccarono nella ridotta di Salò sono solo il fantasma, a mio avviso politicamente insignificante, del fascismo come movimento politico, che si era liquefatto già il 25 luglio del ’43, al momento del colpo di stato monarchico, e i dati sulle adesioni al PFR, molte delle quali non certo spontanee, ne sono la conferma.
Non è un caso che tra i 650.000 giovani soldati rastrellati in Europa dai tedeschi dopo l’8 settembre, malgrado fossero nati e cresciuti nell’Italia fascista, si trovarono solo 50.000 uomini disposti a tornare nell’Italia di Salò, e di questi, appena tornati, la grande maggioranza disertò (tra gli altri, che rimasero nei campi di concentramento, si contarono alla fine della guerra ben 44.000 caduti).
Non è un caso che molti combattenti partigiani fossero ex-balilla, ex-avanguardisti, ex-giovani fascisti, ex-iscritti al PNF. Che gli impiegati dei ministeri fascisti, che i generali, gli ufficiali dell’esercito regio, che nella grande maggioranza avevano appoggiato il fascismo, o lo avevano accettato per la carriera, e avevano partecipato anche lealmente alle guerre fasciste, e perfino quelli della Milizia fascista, si rifiutarono quasi tutti alla chiama delle formazioni di Salò, ma anzi moltissimi di loro si schierarono dalla parte della Resistenza o combatterono nelle formazioni partigiane guidate dai partiti antifascisti.
Cos’erano davvero i repubblichini
Fu così che ci scontrammo con le diverse formazioni repubblichine, che furono raramente impiegate sui fronti di guerra. I “combattenti” della Repubblica Sociale ebbero come compito solo operazioni di polizia politica e di salvaguardia dello “ordine pubblico nazista” applicando le “leggi di guerra” e la “strategia del terrore” della Germania di Hitler.
In buona sostanza, i “soldati di Mussolini” erano solo “collaborazionisti” – “ascari” – che potevano sopravvivere solo per la protezione che forniva loro l’esercito di occupazione tedesco, da cui erano armati e sfamati. Hanno sparato solo contro di noi e contro le popolazioni civili che ci appoggiavano, mentre i nostri obbiettivi erano le formazioni e le postazioni militari tedesche, e solo di conseguenza le spie e le formazioni dei collaborazionisti italiani.
Kesselring, nelle sue “Memorie di guerra” (Garzanti, 1956) scrive: “Poiché Mussolini non era riuscito a mutare l’intima avversione del popolo per la guerra in se stessa, avrebbe dovuto astenersi dall’entrare nel conflitto. Il fatto però che i partigiani abbiano partecipato con passione alla lotta contro le forze armate tedesche fa supporre che la popolazione non fosse sprovvista di spirito guerriero“.
Il popolo e i partigiani
Egli, da esperto militare, riconosce l’intima avversione del popolo italiano alla guerra combattuta a fianco del nazismo, ma riconosce altresì la capacità di lotta (lo “spirito guerriero”, secondo il suo stile di vecchio militarista pangermanico) degli italiani ed ammette quindi che lo schieramento militare della Resistenza – la Guerra di liberazione nazionale – derivava direttamente dall’appoggio che “i partigiani” avevano da parte della “popolazione”
D’altra parte, l’iniziativa militare dei partigiani, che ha inciso così profondamente nel pensiero del comandante in capo della Whermacht in Italia, come traspare da altri capitoli delle “Memorie” citate, non ci sarebbe stata senza l’apporto e il contributo concreto delle popolazioni dei territori occupati dai nazisti, di cui, del resto, i partigiani erano figli, erano emanazioni dirette.
Il rigore scientifico di Renzo De Felice, malgrado gli errori delle sue interpretazioni (del resto, in biologia, la funzione antibiotica del penicillium notatum fu interpretata correttamente solo da Fleming, malgrado altri, prima di lui, avessero incontrato e classificato quella muffa e ne avessero osservato gli effetti sulle colture batteriche) non può essere certo posto allo stesso livello dei mille mistificatori e falsari, che si proponevano la parificazione tra i “volontari della libertà” e i “repubblichini” di Salò, o di superficiali e non disinteressati “storici” , che, senza perder tempo nella faticosa ricerca di documentazioni attendibili, hanno occasionalmente sparato “cazzate”, solo per sostenere, con i falsi, la mistificazione delle valenze storiche, etico-politiche o militari degli eventi, o per “compiacersi” – e sentirsi citare – per la propria “oggettività”.
Sono stato partigiano in condizioni molto diverse: gappista in città, comandante di brigata sui Monti Prenestini, dietro la linea tedesca sul fronte di Cassino, ufficiale partigiano nella Divisione Italiana Parigiana Garibaldi, reparto regolare dell’Esercito Italiano che si batteva in Montenegro contro i tedeschi e i cetnici (che, in Serbia e in Montenegro, facevano la parte degli ùstascia in Croazia, ed erano altrettanto feroci). Ovunque ho sempre trovato disponibilità, comprensione, collaborazione e aiuto da parte della gente comune (la “popolazione non priva di spirito guerriero”, come dice Kesselring), e soprattutto un rapporto umano straordinario.
Il caso de l’ “Unità”
Un “revisionismo” mistificatore e falso ha colpito soprattutto la Resistenza romana e la sua guerra di liberazione, e in particolare uno dei suoi episodi più drammatici, la strage delle Fosse Ardeatine, che i nazisti perpetrarono nella massima segretezza e con la massima fretta per paura delle reazioni preventive della cittadinanza, dei parenti dei prigionieri in mano nazista e della Resistenza . Qui la fantasia dei falsari e dei mistificatori ha raggiunto cime eccelse, e ne abbiamo colto significative manifestazioni perfino su “L’Unità” di Furio Colombo, dove il 24 marzo scorso, in memoria di quella strage, si riproponeva una tesi cara a tutti gli attendisti, e cioè che l’attacco partigiano di via Rasella, in cui fu annientata la 11° compagnia del terzo battaglione dell’SS Polizei Regiment Bozen “fu un atto di guerra, dettato da emotività più che da un preciso ragionamento, discutibile sul piano dell’opportunità e sbagliato se messo in relazione con le finalità che si volevano raggiungere” (a parte lo spazio dato nei mesi precedenti ad alcuni scritti del Vivarelli ove si ricordavano le benemerenze patriottiche della X Mas e del suo eroico comandante, il principe golpista Valerio Borghese, o le amene considerazioni sullo stato di “città aperta” di Roma, con un titolo, il 15 agosto 2001, addirittura esilarante)
La nostra gente, pur affamata e terrorizzata, e ben sapendo di correre rischi mortali, ci aiutava, checché ne dicano il De Felice, o il Montanelli, o il Lepre, ecc. ecc., che sopravvennero dopo i primi exploit dei giornalisti repubblichini Spampanato e Guglielmotti, o dello “storico” Giorgio Pisanò, cantore dell’epopea repubblichina, o, nel 1948, in piena “guerra fredda”, dei Comitati Civici dell’Azione Cattolica di Pacelli e di Gedda.
Quella nostra gente ci nascondeva, ci sfamava quando poteva e ci curava se ammalati o feriti, rifiutava di denunciarci, così come del resto aiutava e non denunciava i giovani renitenti di leva, gli uomini che si sottraevano al lavoro forzato imposto dai nazisti, i soldati e gli ufficiali sbandati, gli ebrei, i carabinieri, i prigionieri alleati evasi, i ricercati politici antifascisti e i politici fascisti che non avevano aderito al P.F.R. (bisogna pur ricordarlo: dei quadri del fascismo, solo il 10% di quelli periferici e il 15% di quelli nazionali aderirono al governo collaborazionista della Repubblica Sociale; degli oltre quattro milioni di italiani iscritti al P.N.F., costretti ad avere quella “tessera del pane”, solo 200.000 – il 5% – si iscrissero al P.F.R.).
I romani e la rete di solidarietà
I romani poi, dietro il loro menefreghismo ironico e apparentemente opportunista, seppero costruire spontaneamente una rete straordinaria di solidarietà attiva nei confronti delle centinaia di migliaia di ricercati e perseguitati che affollavano la loro città. Essi, pur temendo per la loro vita e imprecando a parole contro chi poteva turbare la loro sacrosanta voglia di quiete, non esitarono a schierarsi nei fatti dalla parte della libertà e contro la crudele presenza dei tedeschi e dei fascisti, isolati e “schizzati”.
Da questa Resistenza, fatta di fame e di sofferenze, ha preso le mosse la Guerra di liberazione nazionale, che è iniziata proprio a Roma, subito dopo l’8 settembre, oltre che con una intensa attività diplomatica, politica, di agitazione, di “intelligence”, anche con iniziative militari che hanno fatto della nostra città la capitale dell’Europa occupata che ha dato più filo da torcere agli eserciti tedeschi (Dollman), che ha fatto dire a Kappler che dei romani non ci si poteva fidare, che ha fatto raccontare a Mhulhausen la paura che lo stesso Kappler aveva dei partigiani e della gente di Roma.
Dice Renzo De Felice: (“Il Rosso e il Nero”, pag. 60): “Roma fu la città col maggior numero di renitenti: un po’ per la sua configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi dopo l’armistizio, un po’ per la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi ed edifici dove i renitenti potevano nascondersi. Al primo posto ci fù la “difesa di se stessi”, sia da parte di chi rispose al bando, sia per chi riuscì a nascondersi, come per chi fu costretto a salire in montagna. Molti di questi divennero valorosi partigiani. Per molti altri pesò sempre il vizio di origine di una scelta opportunistica“, che, aggiungo, ha aperto lo spazio a tutte le fantasie e le menzogne della vulgata antipartigiana.
In quei terribili nove mesi Roma – anche per ragioni geografiche (eravamo a poche diecine di chilometri dal fronte) – è stata all’avanguardia (politica e militare) di tutte le città italiane occupate: la sua gente, i partigiani che da essa provenivano, hanno reso impossibile il disegno strategico del nemico, che voleva fare di Roma, dei suoi nodi stradali e ferroviari, dei suoi servizi, un comodo transito e un rifugio per i mezzi e le truppe da e per il fronte di Cassino e di Anzio, una tranquilla base per i suoi alti comandi, il luogo dove permettere un piacevole ristoro ai suoi soldati impegnati sul fronte.
I romani, con i loro figli partigiani che colpivano e sabotavano il nemico ogni giorno e ogni notte in città, nelle campagne intorno Roma e nel Lazio, con la loro capacità di aiutarli, nasconderli, proteggerli, fecero di Roma “una città esplosiva”, come dovette ammettere Kappler, il boia delle Ardeatine, nel processo che subì alla fine della guerra.
Questa era la strategia della Resistenza romana, che perfino il collaboratore de L’Unità mostra di non aver compreso.
Il Maresciallo Clark, comandante della V Armata americana, ebbe a dire personalmente a Boldrini che soltanto quando le truppe anglo-americane entrarono in Roma i Comandi Alleati capirono senza più alcun dubbio che l’Italia era con loro.
Il costo della lotta partigiana
Abbiamo pagato cara questa nostra Resistenza: 650 Caduti, tra il il 9 e il 10 settembee 1943, nella battaglia per Roma. Di essi 400 erano ufficiali o soldati, e dei civili ben 17 furono le donne.
Oltre 50 furono i bombardamenti Alleati, dovuti alla presenza in città di comandi, mezzi e truppe tedesche (altro che “città aperta”!); fame e miseria; deportazioni; rastrellamenti in tutti i quartieri, centrali e periferici; il coprifuoco alle 4 del pomeriggio; unica città in Italia, fu proibito a Roma l’uso delle biciclette (altri mezzi, oltre quelli pubblici, non erano consentiti ai civili); feroci esecuzioni e rappresaglie, le Ardeatine, Bravetta, La Storta, il Ghetto, il Quadraro, le razzie, gli arresti, le torture (via Tasso, Palazzo Braschi, la pensione Oltremare, la pensione Jaccarino, Regina Coeli, ecc.: operavano in Roma ben 18 “polizie”, tedesche e italiane, pubbliche e “private”!), gli assassinii compiuti a freddo nel centro della città e nelle borgate.(10 fucilati a Pietralata, 6 renitenti fucilati a Ladispoli, 10 donne fucilate a Portuense, dieci donne fucilate a Tiburtino 3°, circa 80 fucilati a Bravetta, 14 fucilati alla Storta…..più la strage del Quadraro: su 700 cittadini deportati ne sono tornati solo 300!… più la strage degli ebrei , circa duemilacinquecento deportati, ne sono tornati circa 120….
I partigiani romani uccisi in combattimento, morti sotto la tortura o fucilati, nei nove mesi che vanno dal 9 settembre 1943 al 5 giugno del 1944 sono 1.735, oltre ad alcune migliaia di cittadini romani, ebrei e non, deportati nei campi di sterminio in Germania e che non sono tornati; ma in questi stessi nove mesi in Roma furono condotte azioni militari e di sabotaggio che in numero e in qualità non hanno pari, nei limiti di quel periodo, in nessun’altra città d’Italia.
Fu così che il nemico pagò cara la sua permanenza in città, e si vendicò manifestando la sua brutale ferocia.
Ma quando gli eserciti alleati incalzarono, i tedeschi e i fascisti abbandonarono Roma precipitosamente, contro gli ordini di Hittler e Mussolini, che volevano impegnare battaglia in città casa per casa e deportare tutti gli uomini validi per il lavoro coatto, secondo i piani già approntati dal generale delle SS Wolff.
Roma era una “città esplosiva”, e la non lontana esperienza di Napoli convinse anche i più feroci tra i nostri nemici a non correre rischi già sperimentati.
La Resistenza romana ebbe caratteristiche di spontaneità e di diffusione capillare che è difficile trovare altrove. Sono diecine le formazioni impegnate, grandi come come quelle dei partiti del CLN, in particolare i tre partiti di sinistra, PCI, Pd’A e PSIUP, come Bandiera Rossa, o i Cattolici Comunisti, o come il Centro Militare Clandestino dei “badogliani”, ma anche piccole o piccolissime, che, per non aver potuto o voluto trovare il collegamento con i partiti del CLN, operavano autonomamente contro i tedeschi e i collaborazionisti fascisti.
Sono noti episodi di iniziative solidaristiche, ma anche di sabotaggio e di guerriglia, condotti addirittura da famiglie o da singoli, fino all’ultimo giorno dell’occupazione tedesca.
Tutto ciò, e per molte ragioni, che ha esaminato di recente anche Alessandro Portelli nel suo splendido libro “L’Ordine è stato eseguito” ed. Donzelli, che ha ottenuto nel 1999, con il Premio Viareggio per la saggistica il più ambito riconoscimento letterario italiano, si è attenuato nella memoria storica della città perché ha prevalso la disinformazione attraverso l’uso ripetuto di falsi e mistificazioni, malgrado le smentite documentate e l’uniformità delle delibere di tutti i livelli della magistratura, fino alle Cassazioni civili, penali e militari.
Guerra di liberazione nazionale
La nostra è stata una “guerra di liberazione nazionale”, la guerra di tutti gli italiani per la libertà e per la democrazia: furono i collaborazionisti dell’invasore che cercarono di trasformarla in guerra civile, ma ci riuscirono solo in parte perché la grande maggioranza degli italiani li respinse insieme ai loro protettori e padroni nazisti.
Del resto anche i dirigenti politici e militari di Salò, ma anche i tedeschi, sapevano molto bene come stavano le cose, altrimenti le feroci rappresaglie messe in atto nelle città, e quelle ancor più feroci e indiscriminate compiute sui monti e nelle campagne non avrebbero avuto motivo contro una popolazione schierata in qualche consistente misura dalla loro parte.
Due canzoni, una delle brigate nere e una delle brigate partigiane, ricordano in modo emblematico il clima in cui vivevamo: “Le donne non ci vogliono più bene / perché portiamo la camicia nera” cantavano i fascisti; e dall’altra parte: “Ogni contrada è patria di un ribelle / ogni donna a lui dona un sospiro” cantavano i partigiani.
Basti ricordare, per chi c’era, l’atmosfera di cupo infinito silenzio della nostra città, delle nostre contrade, deserte nei mesi dell’occupazione, e l’esplosione improvvisa di gioia, affollata, urlata, felice, che accolse le forze militari anglo-americane.
Eppure è sempre più frequente che la nostra guerra di liberazione venga ricordata come guerra civile. Fa parte di una delle brecce che il revanscismo fascista è riuscito ad aprire nella memoria corrente.
(“la RINASCITA della sinistra”, venerdì 18 ottobre 2002, pagg 28-29)
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