Appunti per il 14 novembre (e quello che potrebbe venire dopo)
Crediamo che sia imprescindibile collocarsi all’altezza di queste indicazioni per immaginare le possibilità del conflitto sociale oggi, delle sue pratiche di sciopero e del suo evolversi. Alcune tendenze possono già essere tratteggiate:
1. Sotto la spinta della crisi si moltiplicano i punti di insopportabilità rispetto all’inasprirsi delle condizioni tese a garantire redditività per il capitale. Questa saturazione dei territori definisce un doppio legame in cui, a un’esigenza di immediata aggressione alle residue rigidità sociali, si accompagna la preoccupazione di tenere bassa la conflittualità sociale. Questo perché la governance su più livelli, ma specie su quelli bassi, non risulta oggi attrezzata per assimilare smottamenti e strappi sul terreno sociale quando questi sorgono come contrapposizione esplicita di corpi collettivi i quali impongono un costo alla propria reintegrabilità, al proprio disciplinamento. La saturazione dei territori impone dei costi alla governance. Quanto, in termini sistemici, si può sopportare l’esclusione sociale e quanto questa può essere scambiata assumendo costi sociali non preventivati?
2. L’insopportabilità supera spesso la dimensione politica organizzata e cresce dietro una spinta soggettiva che contagia reti di relazioni sociali complesse, ampie e profonde. Il NO che apre a nuovi processi collettivi, più che indicarci i termini di una ricomposizione politica (delle lotte? Dei soggetti produttivi?), sembra che parzialmente riaggreghi reti sociali frammentate, valorizzando in senso conflittuale margini di autonomia vivi nella classe. Terni e Livorno, o la logistica emiliana, crediamo non ci parlino semplicemente di una riscossa operaia ma di una istanza di conflitto maturata nella crisi del ciclo produttivo/riproduttivo. Forse che l’operaio TRW non è lo stesso che vive nei quartieri Fiorentina e Shangay di Livorno o quello che, viaggiando da Pisa ogni giorno, si organizza negli sportelli dei comitati di quartiere in lotta perché strozzato, ad esempio, dai debiti? Sembra allora impellente rintracciare il carattere delle relazioni per mezzo delle quali si produce un’incompatibilità in grado di riorganizzare reti sociali che, a catena, sul terreno della riproduzione sociale e del comando sulla produzione, si negano come parte di un meccanismo votato all’annientamento della ricchezza, della capacità e delle possibilità collettive.
3. Questa puntiforme dimensione della conflittualità, per come la vediamo esprimersi, sebbene riconducibile a risposte ad attacchi sul salario, sulla casa o sui territori, non si articola in esclusivo entro i confini di queste lotte. I margini di espansività sono ampi perché molteplici sono le direttive del conflitto di classe agito contro di noi. Queste passano per più livelli: dentro la finanziarizzazione delle vite agisce il ricatto del lavoro, il disciplinamento sociale e il saccheggio dei territori. In questo senso possiamo affermare che le potenzialità di rottura di una vertenza – per l’insostenibilità del costo sociale da questa imposta – sono alte, specie quando praticate sui livelli bassi della governance; sarà però a partire dalla loro considerazione entro cicli contigui di lotte autonome che si potranno aprire varchi per ipotesi costituenti di ricomposizione sociale prima che politica, nella costruzione di un’identità di parte. Non si tratta per noi semplicemente di sostenere le vertenze o di unire le lotte ma di sviluppare delle rigidità nella contrapposizione. La rigidità sull’innalzamento del nostro costo sociale è l’invarianza oggi praticabile come carattere autonomo delle lotte dentro e contro la contraddizione sistemica della transizione post-fordista tra crisi e sviluppo.
4. Trasversalmente ai punti qui indicati opera costante, come un suo negativo, la possibilità di un rovesciamento nazional-identitario di questi punti di saturazione, indisponibilità, rigidità. Le reti relazionali, sociali, che si attivano nel divenire delle lotte possono in ogni istante girarsi in rivendicazioni di esclusione, barriera, ghetto. Anche questa è ambivalenza ed è anche dentro questa ambivalenza che bisogna saper stare, proprio per non concedere spazi a chi indica nella competizione col più debole socialmente e politicamente l’illusoria scorciatoia di un’uscita a destra dalla crisi. Non di rado, se il conflitto si orienta verticalmente (da chi sta in basso contro chi sta in alto) e non orizzontalmente (tra le infinite declinazioni del povero/colpevole), si mettono in moto processi di soggettivazione che tolgono il terreno da sotto ai piedi a chi cavalca la disperazione della guerra tra poveri.
In questo senso la scommessa dello sciopero sociale crediamo non possa rappresentare una scorciatoia retorica per un esercizio di movimento. Occorre guardare alla disponibilità sociale. In questo senso lo sciopero sociale rappresenta un terreno programmatico sul quale rintracciare i caratteri oggi impliciti di un’incompatibilità e organizzarli a partire dalla dimensioni sociali che si riaggregano sulla rigidità del non cedere al compromesso sul nostro costo sociale. Ciò significa in primo luogo rappresentare questa rigidità in termini collettivi, per riconoscerci e, secondariamente, organizzare la rigidità come minaccia nella pratica della contrapposizione, per farci riconoscere.
Su questo terreno resta aperta l’interrogazione se possa bastare alle piazze stracolme della CGIL la rappresentanza sociale al minimo ribasso offerta dal sindacato… un ammortizzatore sistemico orfano di riconoscimento, come ben ha espresso la kermesse della Leopolda. Renzi prova ad accelerare scassando l’impianto delle relazioni con le forme tradizionali di rappresentanza del lavoro e della dimensione sociale a questo connessa. Ma non è questo il punto. Il suo operato resta di corto respiro. Quando scongiura che il “lavoro non diventi terreno di conflitto” sa bene di non parlare del sindacato in quanto Organizzazione e basta. Ciò che lo spaventa è la dimensione sociale del conflitto. Per questo, nonostante il quadro sistemico punti ad anticipare il cambiamento, rinnovandosi nella sua cornice politica, da Renzi al post-Napolitano, costruire lo sciopero significa agire noi anche sul terreno della temporalità e dell’autonomia.
Una direttrice: profondità dell’intervento politico e scommessa sulle possibilità conflittuali della trasformazione.
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