Repressione economica e ortopedie della povertà
La rilevanza strategica della partita che attorno al reddito si gioca. Da un lato, l’attacco condotto dall’attuale esecutivo di destra al pur limitato Reddito di Cittadinanza introdotto dal primo governo Conte ha come obiettivo un ulteriore giro di vite nelle politiche di obbedienza e impoverimento, coazione al lavoro precario e asservimento delle forme di vita; dall’altro, riprendere e sviluppare con forza il dibattito sul welfare e sul reddito è imprescindibile per inventare e reinventare percorsi e prospettive di liberazione.
di Andrea Fumagalli e Cristina Morini
Strette e stretti nella morsa di un capitalismo «tutto intorno a noi», che colonizza immaginari oltre che spazi-tempi e forme di vita, non è strano sentirsi stanche e stanchi.
Ebbene, proprio per questo è più urgente che mai guardare da un lato ai meccanismi espropriativi che aggrediscono i campi propri del vivere nel sociale, della riproduzione sociale, dall’altro all’attacco organizzato contro gli strati sociali meno abbienti il cui scopo è facilitare, ancora e ancora, la separazione tra salvati e sommersi, facendo mancare, per questi ultimi, anche le forme minime di assistenza sociale.
La repressione economica
L’arretramento verso il quale si pretende di ricacciare «coloro che non ce la fanno» ricorda altre fasi della storia: saranno la carità, saranno i volontari e le parrocchie, sarà l’obolo offerto, la colletta, la raccolta di cibo o di libri per i bambini, a fornire aiuto ai «carichi residuali». La logica del merito cui fa da contraltare l’umiliazione sono stati posti a vessillo dall’attuale governo di destra che fomenta il rancore e il risentimento contro «gli assistiti», gli underserving poor che «meritano solo quello che hanno o neppure quello», per citare Eric Fassin[1].
La penalizzazione delle vite non essenziali è certo stata oggetto anche delle biopolitiche liberiste interpretate da un susseguirsi di governi di centro-sinistra, i quali, proprio attraverso i dispositivi di precarizzazione introdotti negli anni, hanno progressivamente assecondato un’interpretazione non universalistica del diritto e dello stato sociale. Ma sicuramente la destra, al governo in Italia da qualche mese, ha dimostrato, con la manovra economica presentata, quanto sia per lei basilare puntare sulla discriminazione per tenere insieme il consenso del proprio popolo.
Chiaramente il tema del Reddito non poteva rimanere estraneo a tale programma. All’interno della crisi economica infinita che stiamo vivendo, gli scenari dell’economia di guerra sono già in atto perché servono a snaturare profondamente i presupposti stessi del compromesso keynesiano tra Stato e cittadini, pur tra tutti i suoi limiti. La pacificazione ufficiale, la pace occidentale dei valori occidentali, è solo parvenza, poiché il campo di battaglia sono le condizioni di vita e l’espulsione di tutto ciò che viene ritenuto improduttivo per l’attuale capitalismo finanziarizzato. D’altro lato, come notato più volte in passato e come reso manifesto dall’epidemia Covid-19, è proprio l’immissione di una logica elitaria nel settore del welfare, attraverso forme di privatizzazione ovvero di selezione, a rappresentare un campo fondamentale per la generalizzazione della finanziarizzazione del «capitale umano».
Il riferimento all’«economia politica della promessa» rimane fondamentale dentro questo modello di finanziarizzazione della vita (la «messa a valore della vita», così tante volte da tutte/i noi citata). Si è diffusa l’assenza di retribuzione, resa trasparente dalla accumulazione consentita dalla riproduzione sociale e dall’estendersi di forme di lavoro non riconosciuto come tale. Si è indotta «la normalizzazione di aspettative costantemente decrescenti che finiscono per favorire l’accettazione di offerte al ribasso. […] Il soggetto, immerso nella condizione precaria, ulteriormente declassata dalla crisi, si consegna al lavoro che oggi può assumere lo “statuto” di lavoro gratuito»[2]. La depoliticizzazione di una frazione crescente del lavoro contemporaneo va connessa, poi, alla rilevanza assunta dalla nozione di «libertà di scelta» neoliberale. La quale agisce negativamente, in senso diametralmente opposto alla presa di coscienza politica e alla costruzione di reale autonomia. Va chiarito, dunque, al solo scopo di continuare fruttuosamente la discussione sul tema, il senso in cui viene intesa (e imposta) la promessa: sei libero di scegliere di essere schiavo. Apprendisti dell’obbedienza, li ha chiamati Marco Bascetta, «con raccapriccianti richiami alla virtù dell’umiltà»[3].
I poveri sono ostracizzati ma lo Stato fa di tutto per accrescerne il numero, così da poter mantenere una più ampia capacità di contenimento e di controllo delle classi subalterne. Nel dicembre scorso, Fabrizio Balassone, direttore del Servizio della struttura economica di Banca d’Italia, ha spiegato davanti alle commissioni di Bilancio di Camera e Senato che la possibilità di ricorrere agli aiuti previsti dal Reddito di Cittadinanza, tra pandemia e crescita inflazionistica, si è rivelata fondamentale per reggere il potere d’acquisto delle persone in difficoltà. Senza di essi, Banca d’Italia stima che ci sarà un milione di poveri in più[4].
Per tali motivi riteniamo che l’epoca di fronte alla quale ci troviamo si stia dotando di un apparato, non solo normativo e materiale ma anche culturale e simbolico, che di nuovo si articola intorno alla repressione politica della devianza dalle norme dell’apparato di potere ma sopra ogni cosa si centra sulla repressione economica rispetto al disadattamento dall’utilità capitalista.
Ricordiamo che mentre il lavoro è diventato oggettivamente merce scarsa, i termini dell’offerta di lavoro sono spesso miserabili: secondo l’Inps, sono 4,5 milioni i lavoratori (23%) che guadagnano una cifra inferiore a quanto assicurato dal reddito di cittadinanza (780 euro il mese)[5]. Nell’assenza totale di alternative, anche i lavori e le retribuzioni più indecenti non saranno rigettabili: ci troveremo ad affrontare il problema della diffusione capillare di situazioni sempre più schiavizzanti.
Anche il fenomeno delle «grandi dimissioni», spesso paragonato alla Great Resignation negli Usa, può essere analizzato in Italia tenendo conto della presenza del, pur manchevole, strumento del Reddito di Cittadinanza. Ci pare di poter sostenere, osservando i dati[6], che l’evoluzione del numero di coloro che nel 2021 hanno lasciato il lavoro (un aumento di 40.000 dimissioni rispetto a due anni prima) sia soprattutto legata alla prospettiva di un nuovo impiego, dunque a un desiderio di migliorare la propria condizione lavorativa. L’esistenza di ammortizzatori che sostengono possibilità diverse è presupposto determinante per la libera decisione delle persone e stimola a perseguire nuove opportunità, costringendo anche il mercato del lavoro a rendersi più attraente (con retribuzioni più alte e tempi più umani). Viceversa avremo solo coazione al lavoro, in una situazione paradossale di sempre più vistosa carenza di lavoro.
Tale circostanza, estremamente passivizzante per i soggetti, rende assai più complesse le possibilità di reazione poiché gioca sulle possibilità stesse della sopravvivenza. La repressione economica previene così, naturalmente, la repressione politica. Rischia infatti di far dilagare un senso d’impotenza e rassegnazione. Il processo viene innescato al fine di ostacolare il nostro desiderio e bisogno di riprenderci la vita e le possibilità di conflitto.
Così ti smonto il Reddito di Cittadinanza
Esplicitata sin dalle premesse la nostra tesi, va specificato che la legge che introduce il Reddito di Cittadinanza (RdC) del primo governo Conte, entrata in vigore nel gennaio 2020, non propone un vero Reddito di base. La proposta di Reddito di base, infatti, consta di alcuni parametri, che non possono essere elusi: la residenza (e non la cittadinanza), l’individualità (e non la famiglia), la maggior incondizionalità possibile (in termini di vincoli di spesa e di comportamento), l’erogazione di un livello di reddito non inferiore alla soglia di povertà relativa (e non assoluta), la creazione di un fondo di finanziamento ad hoc, separato dalla previdenza, gestito dall’autorità pubblica. Ciò che importa sottolineare, in termini molto stringati, è che la proposta del Reddito di base rientra nelle politiche di distribuzione del reddito primario. Quindi non ha nulla a che fare con le politiche meramente assistenziali (anche se tra i suoi effetti collaterali c’è la riduzione dell’esclusione sociale e della povertà), né con le politiche attive del lavoro.
La legge italiana sul RdC non risponde ad alcuno di questi parametri. A taluni si avvicina, ad esempio il livello di reddito erogato, ma non molto di più. E non è un caso che proprio questo aspetto sia stato al centro della funzionale propaganda mediatica estiva ed elettorale contro tale strumento, secondo la quale l’eccessivo livello di reddito sarebbe un disincentivo ad accettare posti di lavori (precari e sottopagati).
Bisogna cioè sottolineare che la legge RdC targata 5S assomigliava più a uno strumento condizionato di assistenza al reddito in linea con la filosofia tipica di un sistema di «workfare». Al punto che le critiche rivolte si rifacevano al fatto che non era un mezzo efficiente per l’inserimento nel mercato del lavoro. Non era, cioè, una politica attiva per il lavoro.
Tuttavia, pure con tutti i limiti, esso ha risposto a un problema diventato più che vistoso, non aggirabile: l’assenza di lavoro e l’esplodere del lavoro povero, come segnalavamo poco sopra.
Il ridimensionamento di tale strumento, già di per sé fortemente depotenziato e claudicante, da parte del governo Meloni si muove su due fronti, il primo di tipo quantitativo (la durata), il secondo di tipo qualitativo (la condizionalità). Presupposto necessario per attuare questo disegno è l’introduzione nel dibattito politico del concetto di occupabilità, termine ambiguo e di difficile definizione. Che cosa significa essere occupabile? Dovrebbe essere la condizione di chi, per salute ed età, è teoricamente in grado di lavorare. Chi decide l’esistenza di tali caratteristiche non è il soggetto medesimo ma un’autorità terza, non meglio specificata, presumibilmente afferente ai centri dell’impiego ma anche al datore di lavoro che faccia richiesta di assunzione del beneficiario. Sicuramente non è il percipiente ad aver voce in capitolo. Si nega, in tal modo, alcuna possibilità di scelta e autodeterminazione personale.
La stessa Meloni ha più volte ribadito che occorre porre fine allo scandalo «della scelta del lavoro» o «del lavoro dei sogni»[7]. Evidentemente, chi è povero non è in grado di poter decidere. E, secondo una logica ortopedica (etimologicamente, «raddrizzare da piccoli», «aggiustare ciò che è storto») deve essere paternalisticamente «aggiustato» dall’autorità politica (il centro dell’impiego) oppure dall’autorità economica (il datore di lavoro, il «padrone»), che gli indicheranno anche come comportarsi e che cosa consumare.
Da questa visione, discendono i due principali cambiamenti che verranno introdotti con i decreti attuativi già annunciati ma ancora da deliberare. La durata del beneficio verrebbe ridotta, a partire dal primo gennaio 2023, a sette mesi, per chi viene ritenuto «occupabile». In una prima versione si era parlato di otto mesi, poi si è deciso per sette mesi. Con tale ulteriore riduzione temporale, non solo aumentano le risorse che possono essere recuperate ma gli «occupabili» diventeranno abili al lavoro a partire da agosto, non a caso il canonico mese della vacanza italiana. Si garantisce così, in modo forzoso, quella disponibilità al lavoro necessaria per far fronte alla richiesta stagionale di mano d’opera nelle località di villeggiatura per i settori del turismo e dei servizi tradizionali. Inoltre, nel decreto flussi per il 2023, varato dal Consiglio dei Ministri il 27 dicembre 2022[8] si afferma che chi intende assumere dall’estero un cittadino non comunitario dovrà in primo luogo verificare presso il centro per l’impiego competente la mancata disponibilità a ricoprire il ruolo richiesto da parte di altri lavoratori già presenti sul territorio nazionale. Non viene, nella confusione, fatto esplicito riferimento agli «occupabili» a cui andrebbe levato il RdC, ma si conferma la filosofia razzista «prima gli italiani».
Ma c’è dell’altro. Si invoca la necessità di collegare meglio la formazione della mano d’opera più dequalificata che ha maggiori difficoltà a trovare lavoro e quindi quella che maggiormente necessita di un RdC. Si propone così di introdurre una nuova condizionalità all’accesso del RdC legata alla frequentazione di corsi di studio con successo. Come afferma il ministro del Merito e – in subordine – dell’Istruzione, i bocciati non potranno usufruirne[9]. Tutto ciò, come rileva Chiara Saraceno[10], è impossibile se il tempo concesso è soli sette mesi e per di più a scuole già iniziate. Di fatto, una presa in giro, la cui sola certezza è la perdita del sussidio. Eppure il nesso tra povertà educativa e classe sociale di provenienza emerge chiaro da alcune ricerche relative ai corsi di studio[11]. Le condizioni economiche e culturali della famiglia di provenienza portano molti giovani a non riuscire più a rappresentarsi in un ruolo diverso da quello nel quale sembrano essere incastrati dal destino sociale, tra lavori precari, sfruttati e senza sbocco. Ancora una volta ci confrontiamo con la rinuncia a immaginare una vita diversa: con la repressione economica.
Un modo autoritario per risolvere il possibile collo di bottiglia di un’offerta di lavoro insufficiente a coprire una crescente domanda di lavoro stagionale sottopagato. È da notare, inoltre, che le risorse così risparmiate andranno a finanziare l’aumento a 600 euro delle pensioni minime per gli over 75, ma, sia chiaro, solo per il 2023. I giovani poveri finanziano pertanto gli anziani poveri. Manca solo l’introduzione delle working house per ritornare al quadro descritto da Marx nel cap. XXIV de Il Capitale su «La cosiddetta accumulazione originaria»[12]!
Verso il lavoro coatto
A tale situazione, tuttavia, ci si avvicina con il secondo cambiamento, di tipo qualitativo: l’abolizione dell’attributo congrua all’offerta di lavoro che dovrebbe, anzi deve, essere accettata dal beneficiario del RdC. La volontà è impedire il rifiuto della prima proposta di lavoro anche qualora essa non rispetti alcun parametro che la rendano accettabile per le aspettative della persona: distanza del luogo di lavoro dalla residenza, livello di reddito e tipo di mansione congruente con il percorso formativo del beneficiario stesso.
Poiché il concetto di congruità compare anche in altri provvedimenti (ad esempio, il Jobs Act di Renzi), la sua abolizione nella riscrittura della sola legge sul RdC non rende chiare le reali conseguenze di tale cambiamento. Ma siamo certi, come già dichiarato da vari esponenti del governo, che la volontà sia oggi finalmente quella di obbligare coercitivamente all’accettazione di una qualunque offerta di lavoro, anche la più indecente.
Di fatto, come anche dichiarato dalla neo-ministra del lavoro Calderone, l’intenzione è tornare a un Reddito di Inclusione[13], come già esisteva prima della legge sul RdC, opzione caldeggiata anche dal Pd e dal centro-sinistra, all’interno del sistema degli ammortizzatori sociali.
Si conferma, in senso peggiorativo, la logica fordista-workfarista che vede i diversi strumenti di sicurezza sociale dipendere dalla condizione professionale dei potenziali beneficiari, intervenendo ogni volta con un diverso strumento quando si aprono nuove falle nel sistema a causa dell’emergere di qualche nuova figura precaria e non protetta, sulla base delle trasformazioni del mercato del lavoro. Così, se negli anni del boom economico era in funzione il sussidio di disoccupazione, con riferimento alla figura dominante del lavoratore dipendente e stabile, con l’inizio della crisi fordista, comincia a prendere piede il dispositivo della cassa integrazione (che oggi ha assunto tre diverse forme: ordinaria, straordinaria, in deroga), a tutela di lavoratori e lavoratrici che smettono di lavorare ma formalmente non perdono il posto di lavoro, in presenza di ristrutturazioni aziendali. Negli anni Novanta, a seguito della prima fase della liberalizzazione dei licenziamenti collettivi, viene istituita l’indennità di mobilità, a cui seguono con l’esplosione della precarietà, l’Aspi, la Naspi, la Discoll e oggi il RdC per i cosiddetti «poveri».
La lunga storia del Reddito di base
Si tratta di un inseguimento (in eterno ritardo) delle nuove forme del lavoro, partendo sempre dal principio che è la condizione lavorativa che deve essere tutelata, non la persona. Il risultato è una giungla di provvedimenti, dove è inevitabile che qualche categoria finisca per essere esclusa[14].
Se la nozione di cittadinanza già stava stretta, poiché il cittadino ha determinate caratteristiche, è bianco, è residente con la nazionalità italiana, è un maschio lavoratore, figuriamoci in quale contraddizione ci troviamo oggi quando ci confrontiamo con l’inserimento nelle catene del valore di atti fino a ieri non catalogati sotto la nozione di lavoro e con lo sfruttamento di tutto il vivente.
Il lavoro, insomma, non ha una sostanza, un significato, un contenuto e un senso univoco, omogeneo, e identico, in tutti i tempi e in tutti i luoghi e dobbiamo finalmente considerare la possibile varietà dei lavori di donne e di uomini, che si è fatta esplicita. Le forme abbozzate (e del tutto inadeguate) di salarizzazione della riproduzione, si innestano sul tramonto di un modello di società occidentale basata sul lavoro produttivo salariato maschile.
Ed effettivamente da un punto di vista non solo politico ma anche etico dobbiamo interrogarci su questioni cruciali riguardanti la libertà di scelta e l’autodeterminazione di cui ciascuna persona dovrebbe realmente disporre, e il sistema di «giustizia» (di equità, di considerazione e di diritti) che dovrebbe essere adottato per rendere questa libertà concretamente fruibile.
La governance della povertà è, insomma, da un lato un business economico, dall’altro il terribile terreno privilegiato di una rinnovata forma di repressione e coercizione, quella economica, che disgraziatamente si allarga e si aggiunge a quella politica e sociale.
Riteniamo necessario essere crudamente consapevoli di questa situazione critica, non per lamentarci delle nostre sfortune ma per continuare, senza stancarci, a proporre, e a inventare, possibili percorsi alternativi di liberazione della vita.
Non si tratta di partire da zero. Basta continuare a sviluppare e approfondire il dibattito sulla riforma del welfare (verso un modello di Commonfare[15]) e la proposta di un Reddito di base incondizionato che ha una lunga storia, patrimonio inalienabile del pensiero autonomo e critico dei movimenti sociali.
NOTE
[1] E. Fassin, Contro il populismo di sinistra, Manifestolibri, Roma 2019, p. 72.
[2] Ricordiamo, su tale concetto e discussione, AA.VV., Economia politica della promessa, Manifestolibri, Roma 2015. Essa è stata aperta dall’accordo sindacale per Expo 2015 che «benediva il lavoro a salario zero» (Premessa, p. 7). La citazione è tratta dal testo di Cristina Morini, Pur di non sparire. Dalla condizione precaria al lavoro gratuito, p. 56.
[3] Marco Bascetta, Al mercato delle illusioni, in ivi, pp. 14-15.
[4] Commissioni V della Camera dei Deputati (Bilancio, Tesoro e Programmazione) e 5 del Senato della Repubblica (Programmazione economica e bilancio), Audizione preliminare all’esame della manovra economica per il triennio 2023-2025, testimonianza di Fabrizio Balassone, capo della Struttura economica della Banca d’Italia, Roma 5 dicembre 2022 https://www.bancaditalia.it/media/notizia/fabrizio-balassone-in-audizione-preliminare-all-esame-della-manovra-economica-per-il-triennio-2023-2025/?dotcache=refresh.
[5] Cfr. Inps, Relazione annuale del presidente: XXI rapporto annuale, luglio 2022, p. 9: https://www.inps.it/docallegatiNP/Mig/Dati_analisi_bilanci/Rapporti_annuali/XXI_Rapporto_Annuale/Relazione_Presidente_XXI_Rapporto_annuale.pdf.
[6] Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Banca d’Italia, Il mercato del lavoro: dati e analisi. Le comunicazioni obbligatorie, n.6, novembre 2021 (su dati al 31 ottobre 2021), chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/comunicazioni-obbligatorie/comunicazioni-obbligatorie-2021/Comunicazioni-obbligatorie-2021.06.pdf.
[7] «Il Sole 24 ore», Reddito di cittadinanza, Meloni: «Congruità? Non tutti trovano il lavoro dei sogni», https://www.youtube.com/watch?v=7mTr7eGegkM.
[8] https://www.informazionefiscale.it/Decreto-flussi-2023-novita-datori-lavoro.
[9] «Il Sole 24 ore», Valditara: stop al reddito di cittadinanza per chi interrompe gli studi, https://www.ilsole24ore.com/art/valditara-stop-reddito-cittadinanza-chi-interrompe-studi-AE5knkJC.
[10] Chiara Saraceno, La povertà e i limiti del nuovo reddito, «La Stampa», https://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2023/01/la-poverta-e-i-limiti-del-nuovo-reddito-c.-saraceno-alst.pdf/.
[11] Report Istat, Livelli di istruzione e partecipazione alla formazione, anno 2020, chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.istat.it/it/files/2021/10/REPORT-LIVELLI-DI-ISTRUZIONE-2020.pdf.
[12] K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIV, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 777-826: http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/ capitale_1/Marx_Karl – IlCapitale – Libro_I_-_24.htm.
[13] M. Calderone: “Il Rdc diventerà reddito di inclusione. Cuneo fiscale al -5%”, Affari Italiani, 2 gennaio 2023: https://www.affaritaliani.it/politica/calderone-il-rdc-diventera-reddito-di-inclusione-cuneo-fiscale-al–5-833017.html
[14] Per approfondimenti, ci permettiamo di rinviare al nostro testo: A. Fumagalli, C. Morini, “Contro il lavoro coatto per una riforma degli ammortizzatori sociali”, 5 luglio 2022: http://effimera.org/contro-il-lavoro-coatto-per-una-riforma-degli-ammortizzatori-sociali-di-andrea-fumagalli-e-cristina-morini/
[15] A. Fumagalli – G. Giovannelli – C. Morini, a cura di, La rivolta della cooperazione. Sperimentazioni sociali e autonomia possibile, Mimesis, Milano 2018.
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