Big Tech & Licenziamenti: la bolla che scoppia?
Tra l’autunno 2022 e le prime settimane del nuovo anno decine di migliaia di dipendenti delle Big Tech hanno perso il loro posto di lavoro. Microsoft ha dichiarato il licenziamento di 10.000 dipendenti nei prossimi mesi, Google 12.000. Amazon nel frattempo ha iniziato i suoi più grandi tagli di sempre: l’intenzione è di licenziarne 18.000 persone quest’anno. In totale più di 55.300 dipendenti di oltre 154 aziende tecnologiche lasciati a casa solo nel 2023.
Per giustificare la perdita di posti di lavoro, amministratori delegati come Sundar Pichai di Google e Marc Benioff di Salesforce hanno ripetuto il ritornello di un’economia in rallentamento, inquadrando i licenziamenti come un passo indietro necessario dopo il boom di assunzioni dovuto agli anni di restrizioni per la pandemia da Covid-19.
Alphabet, la società che possiede Google, ha annunciato che licenzierà il 6% della sua forza lavoro a livello mondiale. Un numero che racchiude l’esistenza di circa 12mila persone. Questa notizia è stata data tramite una lettera del loro amministratore delegato Sundar Pichai. L’ipocrisia e la spocchiosità con cui è stato dato l’annuncio sono lampanti, infatti per indorare la pillola Pichai ha gentilmente concesso un giorno di smart working ai licenziati per digerire la notizia tra le mura domestiche. Si potrebbe quasi pensare che lo scopo dei ‘capi’ sia quello di evitare che, incontrandosi, i dipendenti possano in qualche modo organizzarsi in risposta a un’ondata di licenziamenti.
Sembra quasi che cerchino di far passare questi licenziamenti come la sola conseguenza possibile di un ciclo economico altalenante. Infatti durante il periodo di pandemia, quando molti erano in grande difficoltà, queste aziende hanno prosperato.
A sostegno di questa tesi ci vengono in aiuto i titoli in borsa di queste aziende: in seguito ai licenziamenti sono infatti tutti aumentati. Ad esempio Google è cresciuta del 5%. Wedbush Securites predice proprio che nel 2023 vedremo un aumento del 20% del valore delle azioni in borsa delle società tecnologiche come diretta conseguenza del taglio dei posti di lavoro.
E se per decenni c’è stata la diffusa convinzione che il valore in borsa indicasse lo stato di benessere economico di un’azienda, l’aumento di questo è motivo di gaudio. Quindi ad ora si dovrebbe festeggiare il licenziamento di migliaia di persone, cosa che probabilmente stanno facendo coloro che potranno trarre beneficio da questa situazione.
Il giorno prima di annunciare i licenziamenti, Microsoft ha organizzato, in un resort privato di lusso a Davos, un concerto privato di Sting. Un’immagine chiara e limpida, tra un brindisi e una sciata sulle Alpi non c’è tempo per altro se non congratularsi di aver ancora una volta peggiorato la vita dei lavoratori per garantire i profitti degli investitori.
Sundar Pichai scrive: “Ai googler che ci stanno lasciando: grazie per aver lavorato così duramente per aiutare le persone e le aziende di tutto il mondo. I vostri contributi sono stati preziosi e ve ne siamo grati”.
Ma perchè parliamo di ipocrisia? Parliamo di ipocrisia perchè a fronte di 12mila licenziamenti si sono registrate in tutto il mondo 12.765 assunzioni proprio da parte delle stesse aziende. Questo fa pensare che la ristrutturazione in atto non sia realmente legata a una diminuzione della quantità di lavoro ma alla volontà di aumentare i profitti; determinata anche dal fatto che molti dei licenziati avevano gli stipendi da sogno della Silicon Valley mentre i nuovi assunti sono lavoratori appartenenti al sud ‘istruito’ del mondo, come India, Nigeria e Italia, dove le competenze sono le stesse ma a minor costo.
Questo potrebbe quasi diventare un elemento di caos nella politica interna americana, poichè alle grandi aziende Americane è sempre stato data molta libertà d’azione, sia dall’opinione pubblica che dalle istituzioni, in cambio però di posti di lavoro sul suolo Americano. Questo è stato un grande slancio per le BigTech che sono diventate un asset geopolitico per gli Stai Uniti, si veda per esempio il ruolo centrale che hanno nella guerra commerciale con la Cina. Con questa delocalizzazione il patto sociale potrebbe barcollare e dare spazio a nuovi conflitti in Nord America.
Mentre le grandi aziende della Silicon Valley prosperano, un’altra crisi, questa volta reale, si sta consumando ed i segnali risalgono a prima del Covid. Gia’ dal 2019 eventi come il collasso immobiliare della California o la bolla delle cryptovalute hanno lancito le prime avvisaglie.
Stanno progredendo saturazione e stagnazione dei marcati dei social network e fintech.
Questa e’ solo la superficie di una crisi profonda della capacita’ di accumulazione della punta di diamante del capitalismo moderno.
Rispetto al secolo scorso, che ha visto una notevole espansione scientifica e tecnologica, la forza propulsiva ha subito un notevole rallentamento, infatti ci sono molti studi a sostegno dell’ipotesi di questo declino.
Le nuove mancanze di innovazioni portano a minori probabilità di collegamento fra aree di ricerca diverse, un requisito che è sempre stato fondamentale per creare una sufficiente cumulazione di conoscenza al fine di permettere dei salti in avanti nelle generazioni tecnologiche. Proprio le innovazioni sono diventare un grande strumento del profitto.
Nell’ultimo secolo questo processo e’ stato possibile grazie ad enormi investimenti pubblici, principalmente del comparto militare/industriale Nord Americano che ha foraggiato da un lato gli ambienti accademici e dell’altro il mondo privato.
Negli ultimi vent’anni questo processo si e’ inceppato. I grandi investimenti in tecnologie degli scorsi decenni hanno creato enormi bolle speculative in ambito finanziario, ma raramente sono precipitate nell’economia reale al di la’ dei recinti della Silicon Valley o di alcune metropoli europee.
Ci sono molti esempi dei flop degli ultimi anni, dopo investimenti miliardari e decenni di ricerca il frutto di questo lavoro si è rivelato scadente.
Per esempio l’intelligenza artificiale ed il quantum computing hanno attirato miliardi di capitali, ma faticano a generare profitto, a parte le GAFAM (Google, Amazon, Facebook…) sono pochissime le aziende al mondo che hanno trovato un reale impiego di queste tecnologie che non riescono a segnare notevoli cambi di passo, a discapito di quanto le narrazioni sensazionalistiche dei media lasciano pensare.
Un altro grande colpo è venuto dal semi-collasso delle cryptovalute, un progetto anarco-capitalistico che con grandi investimenti e’ stato riportato all’interno dell’ambito delle aziende finanziarie. Questo e’ stato possibile grazie ad un vero diluvio di dollari che ora si sono trasformati in polvere di buone intenzioni.
Questo non e’ il collasso di un segmento di economia e forse neanche la fine di un ciclo di accumulazione, ma sicuramente una crisi che si unisce alla recessione dell’economia, alla crisi climatica, alla crisi della supply chain e dell’energia. L’unica cosa che ad ora sembra essere sicura in questa grande situazione di incertezza è che a pagare il prezzo più alto sono i lavoratori.
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