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Cina/mondo. Lotte di classe nella crisi

Come rientra nei sommovimenti estivi delle borse cinesi la lotta di classe (cfr. Raf Sciortino Crash tutto cinese?)? Nei sette e più anni trascorsi dall’esplodere ufficiale di una crisi unanimemente considerata irrisolta (tranne che nei giulivi cinguettii di chi deve motivare il definitivo approdo della “sinistra” a politiche di “destra”) la lotta di classe appare come la grande assente. Non si sono materializzati gli sfracelli che un superficiale nesso crisi-lotte-rivoluzioni preconizzava, né si sono materializzate le resistenze di massa di cui avrebbe bisogno chi persegue un ritorno al precedente compromesso tra le classi con un’uscita comune e concordata dalla crisi.

Rimanendo nell’angusto punto di osservazione euro-centrico ci si affanna a cercare con il lanternino quanto di classista e alternativo si possa rinvenire nei sommovimenti sociali e politici che producono le Syriza e i Podemos (e, da ultimo, il laburista inglese Corbyn), che di classista qualcosa sicuramente hanno ma che, per lo più, si muovono su un percorso di ripristino del comune interesse alla salvezza delle capre capitalistiche e dei cavoli proletari, con la disponibilità di parte proletaria (e dei ceti medi impoveriti che costituiscono il nerbo di questi movimenti) alla propria dose di sacrifici che, sommati ai sacrifici che le classi possidenti si rifiutano di fare, dovrebbero produrre un rilancio del capitalismo meno disumano di quello attuale e di quello ben peggiore che, oltre le nubi della crisi, si intravede.

Sollevando lo sguardo oltre l’angustia euro-centrica la situazione delle lotte di classe si manifesta, invece, sotto una luce meno opaca. A condizione, ovviamente, che si inforchino gli occhiali adatti. A dire il vero in molti vedono, più o meno limpidamente, la lotta di classe in azione in America del Sud. Dove, invece, la lotta di classe sarebbe completamente assente (o quasi) è nel mondo asiatico e nelle sue (contese) appendici verso l’Europa. Eppure, la lotta di classe in quelle aree è già agente e, anche se non si sviluppa nel quadro “democratico” cui sono affezionati tanti alternativi di casa nostra, produce accadimenti in grado di minacciare sconvolgimenti dell’intero quadro mondiale dei rapporti tra le classi.

Proviamo a guardare con occhiali diversi quanto si va svolgendo di questi tempi in Cina e che il mainstream giustifica come rapporti/scontri dall’alto tra soggetti che detengono un potere mistificatoriamente definito “alla pari”, all’interno dei quali le classi che stanno in basso figurano solo come inermi e immobili vittime.

Molti commentatori occidentali ritengono che la Cina non possa continuare all’infinito a fondare la sua crescita sulle esportazioni ma che debba, al contrario, favorire lo sviluppo del suo mercato interno. Alcuni lo sperano per allargare i mercati delle filiere occidentali del lusso. Altri se lo augurano per vedere ridotta la competitività delle merci cinesi. Altri ancora, invece, lo temono perché sarebbe un ulteriore passo verso il consolidamento della potenza industriale ed economica cinese.

A prescindere dalle opinioni occidentali, tuttavia, la Cina si sta già muovendo in quella direzione. Non perché voglia realizzare i desideri degli uni e neanche perché voglia dare corpo alle paure degli altri, ma semplicemente perché deve cercare di imbastire un nuovo livello di compromesso con il proprio proletariato (che, naturalmente, non comprende la sola classe operaia industriale, anche se il ruolo eminente di questa è, tanto più nella Cina attuale, decisivo), che sta accrescendo il suo livello di resistenza allo sfruttamento.

Del proletariato cinese l’Occidente ha coltivato e propagandato a lungo l’immagine di una massa di muti schiavi proni alla dittatura feroce di un partito-stato oppressivo e repressivo, lasciando trapelare la malcelata invidia in confronto al proprio proletariato ritenuto scioperato e gozzovigliante. Col tempo ha dovuto lasciar filtrare le notizie sulla sua combattività, accarezzando l’indecente desiderio di poterne utilizzare la mobilitazione per affermarvi una rivoluzione colorata etero-diretta, capace di sbaraccare lo stato dittatoriale -fastidiosamente nazionalista- in cambio di una delle tante democrazie che obbediscono agli ordini dei luminari occidentali. Ma quel che si inizia ora a intravedere più che speranze evoca incubi.

In Cina avanza, infatti, un movimento sociale, di composizione fortemente proletaria, che nelle forme più variegate e imprevedibili inizia a presentare il conto di decenni di immensi sacrifici e a rivendicare una maggiore partecipazione al benessere che il suo pluridecennale sforzo lavorativo ha prodotto. La crescita ininterrotta della Cina è stata, infatti, possibile perché il proletariato ha accettato, sia pure non senza resistenze, di erogare una quantità incommensurabile di lavoro in cambio di una ciotola di riso per accrescere la ricchezza nazionale. Ora che la ricchezza è immensamente cresciuta si presenta all’incasso della seconda fase costantemente agognata e pazientemente rimandata.

Questo è visibile nel moltiplicarsi dei conflitti salariali, di quelli diretti a ridurre l’intensità dello sfruttamento, come di quelli che sorgono sul terreno della qualità della vita nelle città inquinate o nei villaggi in via di cementificazione o assediati da impianti che spargono veleni. Ma è visibile anche in forme che non si esprimono con la stessa evidenza di quelli che la statistica ufficiale annualmente contabilizza alla voce “incidenti di massa”.

Assieme a questi ultimi, che da un anno all’altro non smettono di crescere, la Cina comincia infatti a doversi confrontare con la carenza di manodopera che, nelle zone di maggiore sviluppo industriale, sta innescando un processo di robotizzazione delle fabbriche. Apparentemente il problema è incomprensibile. Gli individui che potenzialmente potrebbero ancora essere trasformati in proletari si contano a centinaia di milioni, computandosi ancora in queste grandezze la massa di coloro che vivono di un’agricoltura scarsamente produttiva e non sufficiente a sfamare nuclei familiari che non smettono di moltiplicarsi, tanto meno di soddisfare i nuovi bisogni (artificiali o no) che la crescita generale porta con sé.

È stato questo soggetto, il contadino (soprattutto giovane) legato alla campagna dall’hukou e migrante nelle officine cittadine, a costituire la gallina dalle uova d’oro dello sviluppo industriale della Cina degli ultimi decenni. La sua capacità lavorativa si è rivelata immediatamente incorporabile negli apparati industriali più o meno moderni che le corporations Usa hanno preso a trasferire nel paese dopo il patto Mao-Nixon (perfezionato da Deng) che a garanzia di questo trasferimento prevedeva l’investimento del surplus cinese in debito pubblico Usa, onde stabilire un legame di ferro per il quale nessuno dei contraenti potesse buggerare l’altro. La Cina ci guadagnava apparati produttivi che da sola avrebbe impiegato un tempo incalcolabile per realizzare, le corporations ci guadagnavano un salto vertiginoso nell’estrazione di plusvalore che le metteva al riparo da una caduta del saggio di profitto che la crisi dei primi anni ’70 aveva già rivelato preoccupante.

La capacità lavorativa del proletario cinese presentava, per il capitalismo yankee, europeo e giapponese, alcuni pregi particolarmente seducenti. Abituato per storia antica e recente (il maoista Gran Balzo in avanti) alla dedizione al lavoro in modo disciplinato e cooperativo, sufficientemente istruito, straordinariamente frugale a petto del proletariato occidentale inebetito (dal punto di vista capitalistico) dal benessere affluente del dopo-guerra, e in ultimo in dimensioni gigantesche, quasi inesauribili.

La quantità dei proletari di riserva ha rivestito in questa operazione, che si è rivelata una grande opera di salvataggio e di rilancio per l’intero sistema capitalistico, un ruolo particolarmente importante. Ai fini dell’estrazione del plusvalore, infatti, non conta solo l’esiguità dei salari, ma, ancora di più, la produttività del lavoro. I ritmi di lavoro che le corporations esigevano (ed esigono) per sé (e per l’interesse generale dell’intero sistema) sono letteralmente insopportabili e, infatti, non sono sopportati a lungo dagli operai, il che genera un ricambio continuo dei lavoratori cui solo una riserva grande e qualificata come quella cinese è in grado di sopperire con adeguata tempestività. Il sistema dell’hukou ha offerto uno sfogo alla pena del lavoro industriale, ma oramai è corroso da crepe profonde. Per l’ultima generazione di migranti esso è un peso incomprensibile e inaccettabile; i giovani operai non sono più disposti ad abbandonare le città e a rimandare all’infinito la realizzazione delle promesse con cui sono stati adescati per lasciare le campagne. Incomprensibile sta divenendo anche per le precedenti generazioni che – aspetto non sufficientemente messo a fuoco dalle analisi di qui, anche di sinistra – ne hanno sfruttato a lungo le opportunità per evitare di essere completamente espropriati, della terra e nel lavoro. E, in ogni caso, esso non è più sufficiente. La campagna, infatti, a sua volta travolta da una potente spinta all’incremento della produttività capitalistica, non offre più la possibilità di impiegare, sia pure saltuariamente, un gran numero di migranti di ritorno. Tutti, migranti della prima e dell’ultima ora, iniziano, insomma, a esigere la partecipazione alla ricchezza creata, a conseguire la propria quota di benessere, ossia salari più decenti, lavori meno logoranti e una vita meno instabile e più dignitosa.

La tipica manodopera cinese che ha consentito finora lo sviluppo della Cina e la crescita di cui ha beneficiato il capitalismo mondiale non è, insomma, più disponibile a sopportare i livelli di sfruttamento che hanno trascinato l’uno e l’altra. Il proletariato giovane, super-produttivo e sotto-pagato comincia a rarificarsi. Finora i grandi conglomerati della “fabbrica del mondo” hanno vissuto sul parossistico ricambio di manodopera con i milioni di giovani che dalle campagne si prestavano a essere consumati in brevi e intensi periodi di super-fatica, da cui scappavano con un immediato ricambio di carne da consumare negli ingranaggi della super-produttività per prodotti d’alta e bassa tecnologia che hanno risollevato i profitti capitalistici e contribuito ad abbassare i salari del proletariato euro-americano. Il ricambio inizia a essere incerto, i giovani desiderano qualcosa di diverso e di migliore. Ciò comporta aumenti salariali, costruzione di un welfare state che faccia sorgere un salario indiretto in modo da avere, complessivamente, maggiore potere di acquisto e migliori opportunità di vita dentro e fuori la fabbrica. Tutto ciò, insomma, che i commentatori occidentali denominano “costruzione di un mercato interno”, rimarcandone i vantaggi per la Cina e per il mondo (o temendone le conseguenze) e oscurando che si origina soprattutto grazie alle pressioni proletarie, alla variegata lotta di classe dell’insieme della classi sfruttate.

Il capitalismo cinese ha tutto l’interesse a compiere questo passo per evitare che i conflitti di classe ne minino la stabilità, e anche per darsi basi di sviluppo più autonome, per ridurre, cioè, la sua posizione di pericolosa dipendenza dai mercati mondiali e dai poteri che li dominano. La stessa dirigenza cinese persegue lucidamente questo obiettivo, già da prima di Xi Jinping. Ma questo rende la lotta di classe cinese fatto mondiale. Infatti per attuare questo tipo di riforme è indispensabile mettere in discussione la diseguaglianza dei rapporti di scambio, ovvero ridurre i trasferimenti verso l’Occidente sia nel senso di finanza (soprattutto gli investimenti in debito pubblico Usa) sia nel senso di profitti (o, per meglio dire, sovra-profitti) accaparrati dalle corporations occidentali.

A far data 2015, sembrerebbe proprio che tornino a farsi evidenti le più classiche caratteristiche dell’imperialismo: scambio diseguale, sovra-profitti, duplice sfruttamento del proletariato da parte della borghesia imperialista “esterna” e da parte della borghesia nazionale “interna” e/o del proprio stato in funzione di capitalista collettivo nazionale. Forse l’abolizione da qualche vocabolario della parola “imperialismo” è stata un tantino intempestiva. In effetti, uno sguardo alla scomposizione dei prezzi di vendita dei prodotti a marchio occidentale made in China (che circolano in quantità decisive sui mercati mondiali) rivela come la frazione di cui si appropria il detentore occidentale del marchio sia stabilmente sopra il 50%, mentre solo una minore quota rimane all’imprenditore cinese e al suo stato e una miserrima ripaga il lavoro operaio.

L’eventuale rinforzarsi di questo movimento sociale teso a migliorare le condizioni di vita e di lavoro della grande massa proletaria cinese e dei ceti sociali che vi gravitano in prossimità rischia di aprire delle incrinature profonde negli assetti imperialistici mondiali. La Cina, infatti, per alleggerire il peso dei tributi che deve pagare a chi domina finanza e mercati mondiali sta cercando di incrementare rapporti commerciali autonomi in diverse zone del mondo, puntando non solo sugli scambi ma anche su investimenti in infrastrutture e industrie, offrendo, così, occasioni di sviluppo più concrete di quelle offerte dall’Occidente e dai suoi strumenti finanziari (FMI e BM). Ciò provoca crescenti preoccupazioni nelle cancellerie occidentali e mette in moto tentativi di ricompattamento per contrastare l’iniziativa cinese e l’effetto che sta generando nel favorire le spinte di diversi paesi ad affrancarsi dal dominio economico e finanziario occidentale. Le conseguenze di questi conflitti sono già visibili nelle prolificanti contese geopolitiche in cui, con l’ineffabile ipocrisia del lupo esopiano, l’Occidente accusa di imperialismo proprio la Cina (o la Russia, che sta divenendo il principale alleato della Cina nel tentativo di stabilire nuovi equilibri nell’ordine mondiale). Contese che possono, prima o poi, anche deflagrare in un conflitto di ordine superiore.

L’eventuale rinforzarsi della lotta di classe in Cina “rischia” anche, però, di dare un contributo indiretto a una ripresa di conflittualità di classe in Occidente. Innanzitutto perché potrebbe funzionare da innesco di conflitti di classe, con il rifiuto del proletariato cinese di farsi carico di risolvere i problemi che il capitalismo gli ha scaricato addosso. Secondariamente perché potrebbe rimettere in circolazione l’abitudine a battersi per i propri autonomi interessi di classe invece di essere costantemente obnubilati dal voler tenere conto anche delle esigenze generali del sistema.

D’altronde, il problema diventa mondiale anche per un altro ordine di questioni che suscita. Per by-passare le resistenze proletarie cinesi potrebbe, infatti, non essere replicabile l’arma della delocalizzazione. Esiste al mondo un altro paese, o una regione di più paesi, in grado di offrire le stesse condizioni che la Cina ha offerto negli ultimi trent’anni di abbondanza (anzi, sovra-abbondanza) di manodopera giovane, istruita, disciplinata e frugale? Si può delocalizzare qualche produzione o qualche fase di produzione e/o assemblaggio, ma delocalizzare una intera Foxconn (tanto per dire la più famosa) è possibile? E dove? Forse in India? Per storia antica e recente i livelli di produttività cinese sarebbero difficilmente raggiungibili nei tempi stretti di cui si abbisogna. Irraggiungibili all’immediato, del resto, sarebbero di sicuro nell’intera Africa, per non parlare dei paesi arabi. Si potrebbe rilocalizzare in Usa ed Europa? In teoria sì, in pratica per ottenere salari paragonabili a quelli erogati finora in Cina assieme a livelli di produttività analoghi si dovrebbe attendere ancora tutto il tempo necessario a riportare il proletariato occidentale a quei livelli di salario e di consumo. Il che, nonostante gli indiscutibili passi avanti fatti dal capitalismo europeo e americano (e i correlati passi indietro fatti dai rispettivi proletariati) è ancora lontano dall’essere pienamente realizzato.

Brutte nuove per il capitalismo. La caduta del saggio di profitto ha ripreso a manifestare i suoi effetti preoccupanti e la compensazione con l’aumento dell’estrazione di plusvalore vacilla sotto i colpi della ripresa del conflitto di classe in Cina. Le difficoltà di uscita dalla crisi aumentano, ma le potenzialità del capitalismo di reagire alle sue stesse contraddizioni non scompaiono da sole.

A meno che le brutte nuove per il capitalismo non divengano buone nuove per una ripresa generalizzata del conflitto di classe in ogni landa del mondo che generalizzi la lotta contro l’intensificazione dello sfruttamento e il consumo della vita proletaria sull’altare del profitto.

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