Cinquant’anni di storia di classe
Di Sergio Bologna, Francesco Massimo, Niccolò Serri per Jacobin Italia
Dall’Autunno caldo del 1969 alle lotte contemporanee nei settori della logistica, passando per la parabola del lavoro autonomo nella società postfordista. Un filo rosso di ricerca militante che Sergio Bologna ripercorre in questa intervista
Sergio Bologna (Trieste, 1937), militante, storico di formazione, fondatore di riviste importanti come Classe Operaia e Primo Maggio, dipendente alla Olivetti, esperto di sistemi portuali e logistici in Germania, Francia e Italia, e poi ancora fra gli animatori di Acta, la più importante associazione italiana di freelance, è una figura atipica nel mondo intellettuale italiano ed europeo. Lungo la sua traiettoria politica e biografica si dipana un filo rosso: lo studio del lavoro, delle sue trasformazioni e del suo posto nella società. Il suo incessante lavoro di ricerca può essere ricondotto a tre grandi direttrici: lo studio del movimento operaio, da quello tedesco a quello italiano, vissuto in prima persona da militante e da storico e su cui è tornato a riflettere in tempi più recenti; l’intuizione, negli anni Settanta, dell’importanza crescente della logistica nello sviluppo del capitalismo contemporaneo, vista anch’essa da una prospettiva militante (si veda in particolare il Dossier Trasporti di Primo Maggio, 1978) e più tardi con lo sguardo dell’esperto e del tecnico; infine la scoperta, a partire dagli anni Novanta, del lavoro autonomo nella società postfordista, parallelamente a un attivismo che negli ultimi anni lo ha portato a studiare e a intervenire direttamente sulle problematiche del lavoro freelance. In questa intervista ripercorriamo la sua traiettoria, esplorando i possibili prolungamenti.
Si è appena concluso il cinquantennale dell’«Autunno caldo», la grande ondata di scioperi che nel 1969, in coincidenza con le mobilitazioni per il rinnovo contrattuale degli operai metalmeccanici, ha aperto un ciclo di lotte sociali che ha radicalmente mutato la faccia dell’Italia che usciva dal miracolo economico. Nel tuo ultimo libro Ritorno a Trieste. Scritti over 80, 2017-2019 (Asterios, 2019) c’è un’ampia sezione dedicata alla storia degli anni Settanta, dove sono ristampati due importanti saggi, Il lungo Autunno (che sarà a breve disponibile anche in lingua inglese) e La memoria falsificata dell’Autunno caldo, già apparso sulla rivista Zapruder – Storie in Movimento. Sulla memoria delle lotte del 1969 si opera oggi una doppia distorsione: da un lato, rileggiamo gli anni Settanta come una vera e propria guerra civile, figlia di conflitti insanabili e violenti, risultato diretto della mobilitazione operaia; dall’altro, si riduce l’Autunno caldo a un’esplosione di puro spontaneismo, ridotto a variabile inspiegabile, senza investigare le cause profonde e le conseguenze della grande trasformazione della fine degli anni Sessanta. Quali sono le origini di questa distorsione?
La prima distorsione è quella di identificare la conflittualità operaia con la violenza tout court. Se consideriamo gli anni Settanta solamente come anni di piombo, ne discende che l’Autunno caldo è il preambolo della violenza. Dall’altro lato c’è la seconda distorsione, che è quella di considerare le pretese sindacali come eccessive e quindi vedere nell’Autunno caldo e nelle lotte successive un periodo in cui il sindacato ha inseguito la spontaneità invece di tentare di controllarla. Anche quando la lotta operaia non viene identificata con la lotta armata, viene ridotta ad atteggiamento oltranzista. Ambedue sono mistificazioni.
All’Autunno caldo si arriva dopo anni di risveglio sindacale molto forte, iniziato con la lotta degli elettromeccanici a Milano nel 1960 e la mobilitazione della Lancia, poi gli scontri di Piazza Statuto nella Torino del 1962. Nonostante tutto, alla fine degli anni Sessanta le condizioni di lavoro nelle fabbriche erano ancora indegne di un paese civile. Interrogati sui risultati dell’Autunno caldo, a qualche anno di distanza, i nuovi delegati della Fiat ti raccontavano che finalmente si poteva andare in bagno durante il turno. Le condizioni negli spogliatoi, della mensa e soprattutto dell’ambiente di lavoro erano al di sotto degli standard minimi. C’erano fenomeni di abuso sessuale sulle operaie. Se si dimentica questo è ovvio che il 1969 appare come un fenomeno di estremismo sindacale. È invece un momento in cui si dice «a queste condizioni non siamo più disposti a lavorare».
L’altra ragione della memoria falsificata dell’Autunno caldo è non aver riflettuto a sufficienza sugli obiettivi della mobilitazione, in particolare sul significato dell’egualitarismo che ha rappresentato un forte elemento di contraddizione interna al sindacato. Io condivido l’opinione dei sindacalisti, soprattutto quelli della Fim-Cisl, che dicono di aver esasperato la tematica dell’egualitarismo non perché non volessero riconoscere il merito, ma perché lo vedevano come uno strumento per arginare le pratiche discriminatorie del potere dei capi, l’uso discrezionale delle promozioni, sospensioni, ecc.
Questo è un punto che tocchi in alcuni tuoi scritti: l’Autunno caldo è stato prima di tutto, più che un cambiamento delle regole e delle politiche, una mutazione antropologica del comportamento operaio in fabbrica. L’egualitarismo è stato una delle conquiste, le 150 ore e il diritto alla formazione un’altra.
Le elezioni su scheda bianca [dopo l’Autunno caldo nei luoghi di lavoro si costituiscono i Consigli di fabbrica. I delegati di reparto, di linea, di gruppo omogeneo, vengono eletti senza liste precostituite, quindi al di là dell’appartenenza sindacale e sono revocabili dallo stesso gruppo che li ha eletti, NdR] hanno avuto anch’esse un significato dirompente: potevi votare la persona che nel tuo reparto ti dava più fiducia, senza essere costretto a votare il candidato che ti veniva presentato dal sindacato. Il problema della dignità in fabbrica si è poi legato al discorso sull’ambiente, che a mio avviso è stato una grande forma di emancipazione, assimilabile alla nascita del movimento femminista. La riscoperta dell’identità operaia passava per la tematica della nocività: come persona e lavoratore si rivendica la dignità, non solamente di fronte alle pratiche disciplinari ma anche pretendendo di lavorare in un ambiente che tuteli la salute. Il centro torna a essere l’uomo e il suo io. È quasi l’opposto della vulgata che si è creata intorno al tema dell’egualitarismo che voleva una massa operaia indistinta, dove il merito e l’individualità non contavano niente. L’Autunno caldo è stato l’inverso, una scoperta del proprio io.
Le lotte per l’ambiente, la formazione e il welfare hanno portato il conflitto fuori dai cancelli della fabbrica. Ciò quali contraddizioni ha creato con il modo precedente di gestire le relazioni industriali, concentrate sulle dinamiche interne dei luoghi di lavoro? Pensiamo all’esperienza, poi naufragata, dei Consigli di Zona.
È proprio qui che cominciarono a manifestarsi alcune tensioni, con l’emergere del cosiddetto «pansindacalismo», quando il sindacato comincia a interessarsi di problemi generali, trasporti, scuola, casa: le cosiddette riforme. Qui il sindacato si pone su un terreno concorrente con i partiti, creando degli attriti. Soprattutto, non esistevano gli strumenti per governare questo nuovo tipo di mobilitazione. I delegati e il consiglio di fabbrica potevano creare dinamiche conflittuali all’interno dei luoghi di lavoro, ma era difficile che con quella stessa struttura si coprisse anche la parte esterna alla fabbrica: il delegato faceva un’enorme fatica a stare dietro ai problemi del singolo reparto, fare anche l’uomo politico sul proprio territorio era difficile. Era una doppia contraddizione: da un lato la competizione con i partiti, dall’altro l’assenza di strumenti per governare le grandi lotte sulle riforme.
Gli anni Settanta finiscono nel riflusso della mobilitazione operaia e in una rappresaglia padronale. Pensiamo alla Marcia dei Quarantamila: l’ottobre 1980 alla Fiat è rimasto nella memoria storica come il simbolo più evidente di un rovesciamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, ma ne rappresenta forse più la conseguenza che la causa. Dove situi il punto di inversione dell’ondata espansiva dell’Autunno caldo?
È forse una delle cose più difficili da cogliere. E non vorrei che qui giochi un ruolo la mia deformazione professionale. Lo shock petrolifero del 1973 costringe a una posizione difensiva tanto i padroni quanto gli operai. In base all’esperienza storica dei cicli di lotta, alla crisi economica dovrebbe immediatamente seguire un riflusso della lotta operaia. Questo però non avviene. La particolarità degli anni Settanta in Italia è proprio questa: nel momento in cui avrebbe dovuto verificarsi un grande riflusso, la mobilitazione sociale invece continua, in un quadro economico irrigidito e che offre sempre meno spazi, in cui la condizione di conflittualità diventa ancora più dirompente e in quanto tale meno accettabile.
Una delle spiegazioni della continuazione della lotta è che molto spesso il sindacato aveva ottenuto dei risultati solo sulla carta. Da un punto di vista salariale, quando il rinnovo di un contratto collettivo ti costa quasi 200 ore di sciopero, gli aumenti conquistati li senti poco. Molte cose accettate alla firma poi nel concreto delle singole fabbriche non venivano realizzate: un fenomeno cronico di non rispetto degli accordi che ci fa capire perché la lotta è andata avanti con una forza che non avrebbe dovuto più avere.
Fatta questa premessa, non so se possiamo parlare di vera e propria inversione. Sicuramente, nella seconda metà degli anni Settanta, è un quadro mentale generale a cambiare, soprattutto per quanto riguarda le alleanze sociali. Il movimento del ‘77, tutto interno alla scuola e all’università, comincia a percepire la fabbrica come un carcere e il lavoro salariato non più come il luogo della maturazione politica. Il movimento operaio perde quindi un alleato, mentre il movimento giovanile prende un’altra direzione, anticipa il post-fordismo e il precariato, lo desidera, lo cerca e lo teorizza.
Nella seconda metà degli anni Settanta passiamo da un momento di conflittualità tutto interno alla manifattura a uno all’interno dei servizi e della pubblica amministrazione, dove la gestione e soprattutto la sostenibilità politico sociale dello sciopero è molto più complessa. Quando a entrare in sciopero sono i lavoratori degli ospedali e dei trasporti, la solidarietà di classe non è sempre assicurata e si prefigura uno scontro con l’utente.
Se a questi due elementi aggiungiamo la recrudescenza della lotta armata, sul finire del decennio, comprendiamo meglio la situazione di difficoltà che non poteva non avere effetti di riflusso.
Insieme ad altri, nel 2017, hai contribuito alla stesura di un Annale per Fondazione Feltrinelli, proprio sullo snodo degli anni Settanta, dal significativo titolo L’approdo mancato. In molti paesi europei, durante quel decennio, il sistema di relazioni industriali è evoluto verso il paradigma del cosiddetto «neocorporatismo». Malgrado ciò, in Italia il rapporto tra capitale e classe operaia non riesce a trovare un assetto istituzionalizzato. Bruno Trentin fu sempre tiepido a qualsiasi prospettiva di «cogestione della crisi». Luciano Lama rimase sempre un fiero oppositore di qualsiasi prospettiva di «corporativismo», identificato alternativamente con il semplice spirito di gilda, sul modello delle trade unions anglosassoni, o con il corporativismo fascista. Era possibile un altro risultato?
Dovremmo chiederci per prima cosa se il sindacato avrebbe effettivamente potuto consolidare la propria mobilitazione in una serie di elementi di regolazione e stabilizzazione del quadro normativo. Sicuramente avrebbe potuto ma non credo che abbia tentato. A seconda del taglio d’analisi che adottiamo, questo può essere considerato un errore, una sottovalutazione o la semplice presa d’atto che il sindacato non era in grado di governare la trasformazione sociale. Lo stesso Pci avrebbe dovuto agire in maniera diversa, sostenendo l’unità sindacale, invece di sabotarla sotterraneamente. Era difficile però fare queste considerazioni allora, quando a prevalere era la preoccupazione per l’evoluzione del terrorismo rosso. Un nuovo sistema di relazioni industriali avrebbe avuto bisogno di un diverso rapporto tra sindacato e partito, la convergenza su un progetto regolativo oltre l’autonomia sindacale.
La questione va poi guardata anche dal punto di vista del capitale. Negli anni Settanta c’è stata una fase di cupio dissolvi, in cui, di fronte alla continuazione del conflitto sociale in una situazione che avrebbe dovuto vedere gli operai starsene buoni, si è creato il panico all’interno del sistema imprenditoriale. Si è diffusa una specie di psicosi da suicidio capitalistico, senza pensare a creare un nuovo sistema di relazioni industriali. Ritenevano che l’unica cosa da fare fosse ammortizzare il conflitto, creare dei cuscinetti contro gli scioperi (attraverso la cassa integrazione) e aspettare che la marea passasse. Il padronato italiano, in fin dei conti, è stato sempre disposto a concedere qualche lira in più per chiudere in fretta il conflitto. Come ci ricorda Bruno Trentin, erano però gelosi del controllo dell’organizzazione del lavoro e chiusi a qualsiasi prospettiva di gestione negoziata con il sindacato. Era una visione ottusa, concentrata sul breve periodo, propria di una classe dirigente priva di fantasia.
Da un lato la pressione del terrorismo, dall’altro questa mancanza totale di coraggio e fantasia, hanno impedito la creazione di una struttura stabile. Poteva andare diversamente, ma la cultura e la mentalità, da una parte e dall’altra, non erano pronte. Alla concertazione in senso stretto, si arriverà in una fase completamente diversa, già dentro agli anni Ottanta, dove i rapporti di forza erano completamente diversi e il negoziato mirava alla legittimazione del sindacato da parte della controparte. Quella stessa legittimazione che poi è crollata sotto i colpi della deindustrializzazione.
Proprio sulla crisi della grande industria e la critica alla società salariale, cui facevamo riferimento prima, si innesta la parabola del lavoro autonomo. Invece di consolidare il proprio profilo professionale, i lavoratori autonomi sono andati incontro a una progressiva perdita di potere contrattuale. Come valuti oggi il profilo del lavoratore autonomo?
Partiamo dall’inizio. Con gli anni Ottanta si assiste a una progressiva miniaturizzazione dell’impresa. La struttura del sistema produttivo italiano comincia a poggiare sempre più sulle piccole e medie imprese, e quindi su una struttura debole dal punto di vista capitalistico, anche se iper-flessibile, che a sua volta produce un lavoro dipendente subordinato fragile; una precarizzazione di massa.
L’Italia aveva al tempo un’incidenza del lavoro autonomo molto più ampia che in qualunque altro paese, per via della presenza del commercio al dettaglio e dei coltivatori diretti. Quelli che abbiamo chiamato «lavoratori della conoscenza» erano una minoranza all’interno di questo aggregato. Progressivamente, il segmento «tecnico-intellettuale» del lavoro autonomo è cresciuto, a scapito di quello legato al trasporto, commercio e agricoltura.
I «lavoratori della conoscenza» apparivano allora la componente vincente di questa nuova epoca, ma si è forse trattato di un’illusione ottica: era la generazione che per prima poteva sfruttare le risorse della rivoluzione informatica, utilizzando Internet e il computer per lavorare da remoto, ottenere un accesso disintermediato al mercato e alla formazione. Sembravano i lavoratori del futuro.
Oggi dobbiamo dire invece che c’è stata una fortissima polarizzazione all’interno di questo aggregato: da un lato c’è un vertice che ha ancora un potere negoziale e reputazionale abbastanza forte e redditi elevati; dall’altro c’è invece uno strato sempre più grosso di persone che non riesce più a negoziare il proprio capitale umano. Piano piano, l’illusione che le competenze avrebbero rafforzato la loro forza di mercato è andata scomparendo. Il valore della competenza tecnico-intellettuale, fonte di riconoscimento economico ma anche sociale per il lavoro autonomo, si è consumato, portando questo strato a confondersi sempre più con quello della gig economy.
Di fronte a queste divergenze, quali sono le possibilità di una ricomposizione di classe all’interno delle varietà del lavoro autonomo?
All’ultimo «Freelance Day» organizzato da Acta abbiamo presentato una ricerca condotta attraverso decine di interviste con dei lavoratori autonomi, interviste «non strutturate», senza questionario, fatte in modo da lasciarli parlare: il tema dei diritti e dell’organizzazione non veniva mai sollevato spontaneamente, come se fosse sparito dall’orizzonte mentale delle persone. In alcune frange del lavoro autonomo c’è un’enorme resistenza alla coalizione, determinata da un forte individualismo e competizione, dove il tuo collega è prima di tutto un concorrente. Prima ancora della difficoltà della ricomposizione tra i diversi strati del lavoro autonomo, c’è quindi un’enorme difficoltà di coalizione all’interno degli stessi gruppi professionali. Le ragioni sono anche antropologiche. Quando tu metti una persona in una posizione di autosufficienza e oggettivo isolamento, spiegare l’importanza di coalizzarsi può sembrare contraddittorio. Dall’altra parte ci sono i grandi attori del mercato dell’immateriale oggi – Google, Amazon, Apple, ecc. – che hanno chiaro in testa che il loro primo obiettivo è cambiare il tuo Dna, dallo «human mindset» alle abitudini di produzione e consumo.
Invece vediamo emergere coscienza di classe e di organizzazione proprio in un settore dove le forme di organizzazione sono più tradizionali, cioè la logistica. Tu osservi che il ciclo di lotte nella logistica è quello dove per la prima volta dagli anni Settanta c’è una lotta non soltanto difensiva ma è espansiva. Perché secondo te la logistica è così centrale oggi nel panorama delle mobilitazioni?
L’emergere dei conflitti si verifica ancora nei settori esecutivi, cioè quelli più simili a un’organizzazione del lavoro fordista. Infatti, i problemi nascono dai ritmi di lavoro: fra i rider la conflittualità emerge sul cottimo, fra i facchini le lotte vertono sull’intensità del lavoro, fra i driver perché ti chiedono di fare 150 consegne a turno. Si tratta di classici fenomeni di sfruttamento fordista. La centralità della logistica nei nuovi movimenti si spiega semplicemente: nel momento in cui la fabbrica si scompone in un sistema di produzione a rete, tale sistema deve essere tenuto insieme da qualcosa. La logistica ricompone i segmenti; non a caso la migliore definizione di questo settore è quella di physical internet.
Le associazioni dei lavoratori autonomi da un lato, i sindacati di base della logistica dall’altro, rappresentano forse due modelli alternativi di attivismo sindacale. Esiste una divaricazione fra questi due modelli? Possono e devono essere ricomposti?
Credo che non bisogna assolutamente inseguire il sogno della ricomposizione. Non dico che sia l’ultimo dei problemi oggi, ma è molto più importante «diffondere l’incendio», trovare altre faglie di conflitto, ciascuna all’interno dei diversi mercati del lavoro, anche quando restano distaccate l’una dall’altra. Il problema della ricomposizione non è quello urgente, e forse è anche una forma superata. Se anche dovessimo immaginare una centrale sindacale unica che includa dai rider ai lavoratori dell’editoria, dai lavoratori autonomi alle nuove leve della gig economy, si tratterebbe comunque di un’organizzazione ombrello di vari elementi, l’uno molto diverso dall’altro; una galassia insomma. Credo invece che l’urgenza sia quella di allargare la mobilitazione. E solo a quel punto ci si accorge di quanto sia difficile aprire il conflitto. Con Acta, per esempio, siamo partiti dalle tematiche fiscali, assistenziali e previdenziali del lavoro autonomo: il problema delle gestioni separate, dei contributi, dell’assegno di disoccupazione, della maternità, della pensione, ecc.: qui esiste un interlocutore chiaro, che è lo Stato. Adesso che dobbiamo invece affrontare il problema delle retribuzioni, cioè dell’impoverimento, con chi ce la prendiamo? Contratti collettivi non ce ne sono, un padrone collettivo non c’è. Quindi ti accorgi che, pur avendo aperto un conflitto, non sai sempre come portarlo avanti. Incominciando intanto a scavare, però, qualche risultato alla fine riusciremo a portarlo a casa. Faccio un esempio minimo: l’esperienza che stiamo facendo con i lavoratori dell’editoria. Innanzitutto loro per la prima volta hanno cominciato a parlarsi e a riunirsi, confrontando il proprio salario e le proprie tariffe. A questo punto, quando finalmente si incomincia a capire che ciascuno negozia per conto suo, si può dire: «Signori, abbiamo appurato che le tariffe attuali sono queste, intanto rendiamolo pubblico e diciamo che nessuno deve lavorare al di sotto di queste tariffe». Il problema urgente non è la controparte, ma te stesso in un certo senso, il tuo vero nemico è quello disposto a lavorare per cinque euro in meno di te, è l’ideologia delle piattaforme.Proviamo ad aprire dei focolai di conflitto perché solo all’interno di questi, ogni volta, possiamo imparare quali sono le dinamiche. Dopo penseremo alla ricomposizione.
In questi ultimi anni è proprio la questione salariale ad emergere con forza, dopo più di vent’anni di stagnazione. Entrando nella fase del lavoro post-fordista ci siamo interessati soprattutto al problema della stabilità. Forse ci siamo persi per strada la pietra miliare della fase fordista, che era il negoziato sul salario.
Certamente. Per vent’anni si è parlato soltanto della lunghezza del contratto: se era un contratto precario, un contratto a tempo indeterminato. Nessuno si è chiesto: «Ti fanno un contratto a tempo indeterminato. Ok, ma quanto ti pagano?». Abbiamo dimenticato il problema della retribuzione, soprattutto in relazione al tempo di lavoro: «Tu mi dai questo salario ma per quante ore?». Questo voglio sapere. Se tu mi dici: «No. Non te le definisco, sono ad libitum», cambiano un po’ le cose. Abbiamo dimenticato proprio il binomio «tempo di lavoro-salario». Per inseguire la stabilità del contratto.
È un punto che tu hai toccato a Roma e in altre occasioni: il discorso sul salario, come vediamo in alcuni contesti, per esempio gli Stati uniti con la lotta dei lavoratori dei fast food, sta favorendo il ritorno di focolai di conflitto. E con i focolai di conflitto sta emergendo, almeno a livello ideologico, un’ipotesi di ristrutturazione del sistema capitalista, quella incarnata nell’ideologia e nel discorso dell’automazione: l’idea che il progresso tecnico porterà alla perdita di posti di lavoro. È un discorso la cui genealogia può essere tracciata al lavoro di Jeremy Rifkin. Il saggio conclusivo di Ritorno a Trieste è dedicato proprio all’ideologia della fine del lavoro come fine della storia, per parafrasare Fukuyama. Qual è la relazione tra automazione, lavoro umano e stabilità?
Io credo che dipende molto proprio dalla questione salariale. Quando mi chiedono se in futuro le aziende saranno più propense a stabilizzare il lavoro di quanto non lo siano state fino ad adesso, la mia risposta è sempre quella: «Dipende da quanto costerà il lavoro». Meno costa, più sono disposte probabilmente a stabilizzarlo. Quindi il fatto della stabilizzazione non è necessariamente un passo avanti. Anzi lo valuto nella prospettiva di un costo del lavoro sempre più basso. Meno costa il lavoro, più è sostenibile per il datore di lavoro l’assunzione a tempo indeterminato. Questo è un aspetto. Il secondo è che è chiaro che le profezie sono molto incerte. Nella manifattura e in alcuni servizi, sicuramente l’automazione avrà un impatto negativo. Però mi chiedo se in realtà la crescita dell’occupazione in generale nel futuro, non sia invece affidata a quelle che sono occupazioni servili (su questo concetto di ritorno del lavoro servile ha insistito Christian Marazzi). Nel turismo, nella ristorazione, nella cultura, in questi settori anche difficilmente definibili, l’occupazione cresce molto di più ed è un’occupazione che difficilmente si può automatizzare. L’automazione ha effetti su una parte del sistema, e io non so se è la parte del sistema più dinamica dal punto di vista della richiesta, della domanda di lavoro. Secondo me si espanderà enormemente la domanda di lavoro servile che non è automatizzabile. Quindi sicuramente questo significa anche un peggioramento delle condizioni di lavoro. Questa tematica dell’automazione viene utilizzata molto in forma intimidatoria: «Attenzione, ché se non state buoni, noi vi automatizziamo e arrivano i robot». Io guardo anche ai casi a me più vicini, come il lavoro portuale. Ho visto dei terminal che si stanno completamente automatizzando, ma poi hanno bisogno di personale che nei momenti di crisi, quando il sistema va in tilt, sia pronto a intervenire, oppure devi avere tutta una serie di mansioni dequalificate molto tradizionali che sono quelle necessarie nel momento in cui questa perfetta macchina dell’automazione non è in grado di autoregolarsi. Per esempio in molte funzioni essenziali per la sicurezza del lavoro. Questa è una delle lezioni degli anni Settanta che non dobbiamo mai dimenticare.
Torniamo alla tua esperienza di Primo Maggio per parlare di cosa vuol dire fare una rivista oggi. Il numero speciale che avete fatto due anni fa, riprende il sottotitolo: «Rivista di saggi e documenti per una storia di classe». Tu scrivevi nell’articolo introduttivo che la vostra ambizione era quella di fare una storiografia militante, di stare dentro le cose e non starle a guardare con distacco, giudicandole «obiettivamente». Gli anni Settanta sono stati quelli dell’inchiesta operaia – ha senso tornare oggi a quel tipo di impostazione? Tu stesso ci stavi raccontando che state partendo con un nuovo progetto: Officine Primo Maggio. Che cosa riprende da quell’esperienza?
Secondo me ha senso un rapporto stretto fra inchiesta e partecipazione. La cosiddetta con-ricerca, cosa vuol dire? Quando noi in Primo Maggio pensavamo di studiare la situazione di una fabbrica, la pensavamo non soltanto con gli strumenti dell’inchiesta o della storia orale, cioè far parlare i diretti interessati, ma come una cosa in cui noi stessi eravamo coinvolti. Cioè che quando c’era uno sciopero in quella fabbrica eravamo anche noi lì davanti ai cancelli. Non c’era mai una ricerca fine a sé stessa il cui obiettivo finale era una pubblicazione. L’obiettivo doveva essere un fatto sociale in cui noi «scomparivamo». Quindi quando diciamo «Proviamo a riprendere quella metodologia», quasi tutti capiscono «Proviamo a fare una rivista». No, attenzione! A me non interessa per niente fare una rivista. A me interessa fare un’operazione politico-culturale. Se per fare questa operazione ho bisogno di uno strumento che si chiama rivista, on-line o cartacea, o di fare una performance, poi lo vedremo. L’importante è che quello che stiamo facendo non porti come risultato un pezzo di carta, ma faccia succedere qualcosa. Quando abbiamo scritto Il lavoro autonomo di seconda generazione, avevo chiaramente in testa questa cosa: «Deve succedere qualcosa. Voglio che queste cose alla fine diventino pratica concreta». Non sono stato certo io a fondare Acta, qualcuno ci era arrivato da solo: vuol dire che i tempi erano maturi, e io sono contento che ci sia una coerenza fra ciò che ho scritto e la pratica organizzativa. Allora sì che le cose che ho scritto hanno senso. Quindi, oggi come oggi vorrei provare a rimettere insieme un gruppo di persone, soprattutto di giovani, che ragionano sui temi all’ordine del giorno: intelligenza artificiale, conflittualità. In questo senso concepiamo la ricerca storica. In questi anni si è parlato molto, invece che di storia militante, di public history. È una cosa un po’ diversa, però. Per la public history è prioritario riuscire a trasmettere una narrazione storica in modo accessibile a un vasto pubblico. Tu pensa a un fenomeno come quello di Alessandro Barbero, un professore che diventa improvvisamente una star perché sa raccontare la storia, devo dire anche in maniera rigorosa non solo accessibile. Come è possibile? C’è chi dice per le sue capacità di comunicazione. Io non so se dipende da un talento comunicativo o dal fatto che pone dei problemi storici a partire dagli interrogativi che abbiamo di fronte oggi. Perché la storia militante per noi voleva dire questo. Come formulo la mia ipotesi di lavoro e l’oggetto stesso della ricerca? Lo formulo in base agli interrogativi che ho oggi. Quindi a me interessa mettere in atto qualcosa che sia in grado di realizzare un’operazione politico-culturale. Se poi sarà anche una rivista, non lo so. Quello che vorrei evitare è di produrre di nuovo una ricerca sostanzialmente accademica fuori dall’accademia.
*Sergio Bologna (Trieste, 1937) ha insegnato in varie Università, in Italia e in Germania. Si è occupato di storia del movimento operaio, ha partecipato alla fondazione di riviste quali Classe operaia e Primo Maggio. Espulso dall’Università, ha scelto di fare il consulente e in questa veste è stato coordinatore del settore merci del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (1998-2000), membro del Comitato scientifico per il Piano Nazionale della Logistica (2010-2012) ed esperto del Cnel sui problemi marittimo-portuali. Collabora oggi con Acta, l’associazione italiana dei freelance.
Niccolò Serri è professore aggiunto di storia contemporanea presso la John Cabot University e ricercatore presso Fondazione Leonardo Civiltà delle Macchine. Si occupa di nuove tecnologie, storia del lavoro e delle politiche sociali italiane. I suoi articoli sono apparsi su Aspenia, ParoleChiave, Labor History. Francesco Massimo è membro della redazione di Jacobin Italia. Ha scritto per Dinamopress e il Manifesto. Attualmente vive in Francia dove fa ricerca e insegna a Sciences Po, Parigi. Recentemente ha collaborato alla redazione di un rapporto su conflitti e relazioni industriali in Amazon pubblicato dalla Rosa Luxemburg Stiftung.
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