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Conflitto sociale, repressione, media: ancora il caso Askatasuna

Richieste di risarcimenti stratosferici, interventi a gamba tesa di vertici giudiziari, aggressioni mediatiche a catena: la criminalizzazione del conflitto sociale si arricchisce di nuove pagine. C’è un caso di scuola: il processo torinese contro 28 militanti del centro sociale Askatasuna. In attesa dell’approvazione del disegno di legge sicurezza

di Claudio Novaro da Volere la Luna

Sta volgendo al termine il processo contro 28 militanti del centro sociale Askatasuna e del movimento No Tav, in corso da oltre due anni avanti al Tribunale di Torino. Si tratta di un processo in cui, come ho già avuto modo di segnalare, il vero imputato è il conflitto sociale metropolitano e valsusino, a partire dal 2009 ad oggi (come recita, in sostanza, il principale capo di imputazione), affrontato, fin dalle prime battute delle indagini, con categorie interpretative inadeguate sul piano storico, rivelatrici di una cultura permeata di ostilità verso il conflitto e chi lo agisce, inconsapevoli dei codici, dei linguaggi, della sintassi politica delle aree antagoniste e, più in generale, dei movimenti sociali di questo paese. La lunga istruttoria dibattimentale sembra aver smentito radicalmente alcuni pilastri dell’impianto frutto delle indagini della Digos. Ciò nonostante nella loro requisitoria pubblici ministeri hanno chiesto la condanna ad 88 anni di carcere per tutti gli imputati e in riferimento a (quasi) tutti i 72 capi di imputazione, sulla base di un recupero integrale dell’impianto di indagini costruito dalla Digos torinese, con tutte le sue aporie, le sue rigidità ricostruttive, la sua perentorietà di accenti, quasi come non si fosse affrontata una lunga istruttoria dibattimentale.

La partita processuale si gioca soprattutto su due frontiAnzitutto, quello associativo, che ha visto riqualificare il sodalizio incriminato da associazione sovversiva ad associazione per delinquere comune, in sintonia con il tentativo di depotenziare le finalità ideali e politiche dei militanti del centro sociale, trattati alla stregua di meri delinquenti, mossi solo, come il pm ha affermato in più occasioni, da una sorta di istinto alla violenza. Sublime, nel suo sapore vintage, la contestazione a tutti gli associati dell’aggravante dello scorrere “in armi le campagne o le pubbliche vie”, con la rivitalizzazione di una norma desueta, introdotta per contrastare il brigantaggio di fine ‘800 (e rimasta, per inerzia, al suo posto nel codice Rocco e nella successiva stagione repubblicana). Si tratta di una previsione che comporta però un notevole aumento delle pene (da 5 a 15 anni di carcere anche per i soli partecipi, contro quelle da 1 a 5 anni previste in assenza di aggravante), a dimostrazione di una volontà persecutoria particolarmente accanita. In secondo luogo, quello legato alle vicende dello Spazio popolare Neruda, un’occupazione abitativa che riguarda numerose decine di famiglie, in larga parte migranti, che viene caricaturizzata dagli inquirenti alla stregua di paravento per azioni illecite o per il recupero di forze fresche da gettare nel conflitto sociale, senza alcuna capacità di confronto con il suo ruolo sociale, sul piano non solo abitativo, ma anche sanitario, culturale, scolastico, educativo e sportivo.

Le parti civili costituite (Telt, la società costruttrice della linea ad alta velocità, di proprietà al 50% dello Stato italiano e di quello francese, e l’Avvocatura distrettuale per la presidenza del Consiglio e per i ministeri dell’Interno e della Difesa) hanno, a loro volta, richiesto imponenti risarcimenti (un milione di euro, come provvisionale, Telt, oltre 6,7 milioni di euro, l’Avvocatura, per i soli fatti relativi agli anni 2020-2021), del tutto iperbolici e bizzarri, ma di estremo interesse, perché offrono uno spaccato di quanto la lunga resistenza in Valle di Susa contro l’alta velocità inquieti le nostre istituzioni. Presupposto di tali richieste è che tutto quello che è avvenuto in Valle debba ricadere sulle spalle dei militanti del centro sociale e di quei pochi militanti No Tav, non inseriti in Askatasuna, imputati nel processo, con una interessata incomprensione di fondo per le caratteristiche plurali e reticolari del movimento No Tav e della sua grande capacità, consolidatasi negli anni, di sviluppare identità, capacità di protesta e di cooperazione tra soggettività diverse.

Quel che lascia interdetti sono i criteri usati per la quantificazione dei danni, in particolare da parte dell’Avvocatura di Stato. Ben 86.330,00 euro vengono richiesti quali somme erogate a titolo retributivo, contributivo, assistenziale al personale infortunato per periodi di assenza da servizio e per invalidità contratte a causa delle lesioni (vale a dire 4.950 euro per ogni giorno di malattia dei pochi poliziotti lesionati, contro i 90 euro al giorno liquidati nel cosiddetto processone No Tav per i fatti del 3 luglio 2011). 25.955,33 euro vengono richiesti per i materiali e il vestiario protettivo delle forze dell’ordine (che senza le manifestazioni avrebbero probabilmente presidiato il cantiere esibendo le loro nudità). Infine, ben 3.595.047 euro vengono pretesi da tutti gli imputati e per tutti i capi di imputazione (anche di quelli che si sono risolti con modesti danneggiamenti alle reti del cantiere) quale “costo dell’attività info-investigativa svolta ai fini dell’individuazione dei responsabili degli illeciti, nonché con riferimento alla spesa sostenuta a titolo di straordinari, indennità accessorie e indennità di ordine pubblico corrisposte al personale impiegato per contenere e limitare i manifestanti e i danni”. Insomma, con incredibile sfrontatezza, ma anche scarsa conoscenza dei criteri che presiedono al ristoro dei danni, la scelta dello Stato di impiegare migliaia di agenti per la protezione del cantiere (per l’anno 2021, un numero complessivo di 266.541 unità, 205.988 nel 2020, per 24 ore al giorno) viene fatta gravare sugli imputati, che dovrebbero farsi carico anche delle spese per gli straordinari (per oltre 135.000 euro), le spese del carburante per lo spostamento dei reparti mobili, quelle di vitto, di alloggiamento e di vettovagliamento. L’altra grossa voce di risarcimento, che fa lievitare ulteriormente la richiesta, riguarda il danno morale patito dall’amministrazione e cioè il danno di immagine subito dai ministeri e dalla presidenza del Consiglio, inteso come lesione del loro prestigio e della loro credibilità: prestigio e credibilità indubbiamente ai minimi termini in Val di Susa, e altrove, il cui danno però, per consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, presuppone imprescindibilmente che il soggetto che pone in essere la condotta illecita sia legato all’amministrazione lesa da un rapporto di servizio.

Telt non è da meno. Dopo che il suo direttore generale in udienza ha dichiarato di non essere in grado di quantificare i danni subiti per i danneggiamenti al cantiere, chiede una provvisionale, cioè un acconto sul maggior danno, per un milione di euro, per danni presunti derivanti dalle varianti, dagli approfondimenti e dalle nuove progettazioni di sviluppo della cantierizzazione, causate dalla opposizione all’opera, e per le spese di sicurezza a tutela dell’ordine pubblico e dell’incolumità dei lavoratori e per la prevenzione di atti vandalici. In breve, se Telt avesse deciso spontaneamente di dotarsi di testate nucleari per la difesa del cantiere, anche queste sarebbero state messe in conto agli imputati.

Nuovi e diversi protagonisti hanno però portato, tra fine gennaio-inizio febbraio, una ventata di novità nel processo, che ha provveduto ad appesantirne ulteriormente il clima. Nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario tenutasi nell’aula magna del palazzo di giustizia, la Procuratice generale presso la Corte d’Appello di Torino ha sostenuto che il capoluogo sabaudo è divenuto da tempo la capitale nazionale dell’eversione, aggiungendo poi che il centro sociale Askatasuna è il regista di tutte le azioni violente avvenute in città e in Val di Susa e si è da tempo costituito in associazione per delinquere. Un alto magistrato, soprattutto in una sessione davanti a una platea costituita in larga parte da suoi colleghi, dovrebbe saper calibrare i termini usati, che non a caso sono stati immediatamente ripresi ed enfatizzati da tutti i giornali. In realtà, le ipotesi eversive volta a volta addebitate all’antagonismo sociale torinese e al movimento No Tav sono state sempre smentite in tutti i processi. In quello in esame, poi, l’ipotesi iniziale di associazione sovversiva è caduta davanti ai primi giudici che si sono occupati delle misure cautelari e non è poi stata nemmeno coltivata dalla Procura, che ha preferito orientarsi verso l’accusa di associazione per delinquere. L’intervento della Procuratrice, «in contrasto con il valore del dubbio e la prudenza del giudizio ed entrando nel merito di una concreta vicenda giudiziaria» come abbiamo scritto in una lettera aperta sottoscritta da tutti i difensori degli imputati, è apparso a molti un intervento a gamba tesa sul processo in corso, quasi ad anticiparne l’esito. Nella stessa occasione, un membro laico del Csm, in quota Forza Italia, intervenuto in rappresentanza del Consiglio, si è complimentato con l’avvocatura distrettuale per la fantasiosa richiesta risarcitoria di cui si è detto, dando prova, anche se non ce n’era bisogno, di quel garantismo a corrente alternata che caratterizza buona parte del ceto politico e, purtroppo, anche significativi settori della magistratura e dell’avvocatura associata.

Quasi contestualmente, sono apparsi, tra fine gennaio-inizio febbraio, tre puntate di un servizio televisivo andato in onda su Rete 4, nella trasmissione Quarta Repubblica(a cui ha fatto da sponda un’altra inchiesta coeva, altrettanto temibile, su Raitre, nell’ambito della trasmissione Lo stato delle cose)sul centro sociale Askatasuna, indicato al pubblico ludibrio come covo non solo di eversori violenti, ma anche di estorsori razzisti. Nel corso delle tre puntate, accompagnati dai commenti di osservatori in larga parte astiosi, sono stati trasmessi – tra l’altro in contrasto con uno specifico divieto normativo – estratti dall’annotazione finale della Digos, spezzoni di intercettazioni del tutto decontestualizzati, conditi con filmati che riguardano altre vicende storiche (ad esempio, quelli in cui compaiono negozi del centro con vetrine infrante, in realtà “saccheggiati” durante la pandemia, a margine di una manifestazione indetta dai commercianti contro le restrizioni sanitarie). Quel che è più grave, e denota quantomeno, a voler essere indulgenti, un’assoluta mancanza di controllo delle fonti informative, è stato l’utilizzo di interviste in cui alcuni soggetti hanno riferito circostanze ampiamente smentite a dibattimento (tra cui, addirittura, il racconto di un procurato aborto, che ha sollecitato, ovviamente, scandalizzati commenti in studio, ma che è stato radicalmente negato dalla stessa donna sentita come testimone nel processo). Niente di nuovo per una rete televisiva che ha fatto in più occasioni dell’odio e del disprezzo verso migranti, ribelli e solidali la sua cifra comunicativa. La novità sta, piuttosto, nella convergenza, nell’azione contemporanea di più soggetti per il raggiungimento di uno stesso risultato. Il teorema, esplicitamente espresso nel corso dei servizi televisivi, è stato chiaro: Askatasuna «cerca di ottenere il consenso attraverso pseudo o apparenti manifestazioni di solidarietà […] approfitta di tutte quelle che sono le tensioni sociali […] per fomentare da un lato la violenza e […] cercare di acquisire consensi e […] fare proseliti tra ragazzi minorenni […] e l’opinione pubblica cosiddetta perbenista»(fonte: il dott. Rinaudo, ex pm della Procura di Torino, nella seconda trasmissione di Rete 4). E, allora, non basta solo più cercare di sanzionare i suoi attivisti sul piano processuale, ma bisogna screditarli politicamente e moralmente.

Qui si rintraccia il momento forse più indecente di tutta l’operazione, che trova le sue radici proprio nell’impianto iniziale approntato dalla Digos, con la sua annotazione conclusiva. I militanti del centro sociale, sulla base di una manciata di conversazioni intercettate, malamente e faziosamente interpretate, vengono descritti non solo come personaggi votati alla violenza, registi occulti di tutti gli scontri di piazza, ma anche come persone che si fanno scudo di iniziative di solidarietà, ad esempio con i migranti, solo per coprire i loro personali interessi, politici o anche economici. Così, ispirata dalle agenzie di controllo sociale e assecondata da media compiacenti, viene generata una narrazione ostile verso ben individuati nemici pubblici, che sollecita nei loro confronti atteggiamenti di censura, un po’ sulla falsariga di quella che nelle scienze sociali viene chiamata l’attivazione del “panico morale” (i folk devils, di cui parlava Stanley Cohen una cinquantina di anni fa, sono in questo caso i militanti del centro sociale), con una prospettiva di fondo che sembra sempre la stessa: silenziare qualsiasi ipotesi di conflitto. Disegno già tentato, e almeno in parte riuscito, qualche anno fa con altre aree antagoniste, ad esempio quella anarchica, nonostante il totale naufragio dell’iniziativa giudiziaria.

La novità qui è costituita dalla pluralità di strumenti utilizzati e dalla sinergia dovuta all’interazione tra attori diversi. Anzitutto, le strategie repressive classiche. Negli ultimi anni la questura ci ha provato più volte con Askatasuna, da un lato, con le sanzioni economiche e amministrative (per la violazione delle norme sugli spettacoli pubblici, per i concerti tenuti all’aperto e per la somministrazione di bevande e generi alimentari venduti senza autorizzazione), con il sequestro degli impianti usati per i concerti, dall’altra, con gli avvisi orali e i fogli di via dalla Val di Susa e i successivi processi per le loro violazioni. Parallelamente, e in accordo con la magistratura inquirente, è stato dato avvio a un procedimento con contestazioni da brivido, in sintonia con quella “mutazione genetica” del sistema penale, come l’ha definito la dottrina più avvertita, che ha trasformato il processo da luogo di accertamento dei fatti, a strumento di lotta e di repressione per regolare i conflitti sociali.

Infine, l’ultimo tentativo prima della sentenza del tribunale, l’attacco mediatico, per legittimare a priori interventi repressivi sproporzionati e per condurre crociate simboliche (in questo caso in consonanza con i desiderata e il comune sentire della destra al governo), stigmatizzando il ruolo del centro sociale nel conflitto di piazza a Torino e in Val di Susa, negando agli attivisti incriminati quella caratteristica, verrebbe da dire quasi antropologica, del militante di sinistra, cioè lo schierarsi empaticamente con gli ultimi e a sostegno delle fasce più deboli della popolazione. Senza dimenticare un uso politico di piccolo cabotaggio, omaggio dovuto alla destra cittadina: l’attacco diretto alla giunta comunale, e ai garanti del progetto, per l’operazione “Askatasuna bene comune”, che prevede un percorso di coprogettazione finalizzato a rendere maggiormente sicuro l’edificio di corso Regina Margherita 47 e a consentire una sua maggior agibilità per le attività sociali e culturali connesse con il territorio.

Orbene, al di là del giudizio sulle iniziative politiche del centro sociale, quello che non dovrebbe sfuggire è il salto di qualità dell’operazione messa in campo, in un passaggio storico in cui, con il disegno di legge sulla sicurezza ma non solo, l’aria che si respira diventa ogni giorno più mefitica .

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