Contro il welfare del debito
Dopo anni di lotta per la casa, si fa sempre più necessaria una critica politica alla gestione dell’emergenza abitativa.
Quello che emerge dai comportamenti di rifiuto che si avviano a diventare vere e proprie ribellioni, è la mancanza di strumenti adeguati e la cronica assenza di risposte che l’istituzione della Società della Salute applica nei confronti di tutti quelli che si trovano – nei fatti – a rischio di non avere più un tetto sulla testa. Parliamo, nel solo nostro comune, di più di un migliaio di sfratti esecutivi, e di un numero in spaventosa crescita dei nuclei familiari che si dividono o cercano “soluzioni” di fortuna (camper e roulotte, ospitalità da parenti, sovraffollamento di piccoli garage, mobilità tra un dormitorio e l’altro della regione). Chi ha o sta per avere lo sfratto; chi è al primo o al decimo acceso e si trova a confrontarsi direttamente con ufficiali giudiziari, poliziotti energumeni e avvocati di padroni di casa; chi è in mezzo alla strada o ospite da qualche familiare, subisce sempre la stessa umiliazione ed il sentimento di impotenza di non trovare dalle istituzioni nessuna strada che sia di dignità e di emancipazione.
Il dato di fatto è che la Società della salute, ed in generale “i servizi sociali”, negli anni hanno assorbito tutta una serie di funzioni che erano prima di “competenza” della “politica”.
Questa Società della Salute rappresenta il processo di privatizzazione del sociale: un consorzio tra enti locali, comuni, ed azienda sanitaria con decine di cooperative cui sono stati esternalizzati tutti i servizi sociali: dalle Residenze Sanitarie Assistite per anziani, fino all’ambito socio educativo.
Questo processo di “esternalizzazione” ha rapidamente travolto l’ambito del “diritto alla casa”. In questi anni la “politica” istituzionale, nella funzione dell’Assessorato alla casa, si è occupata esclusivamente degli interessi dei consorzi di costruttori immobiliari e dei grandi proprietari di case, mentre la gestione dell’emergenza abitativa è ricaduta interamente sui servizi sociali. La casa ed i servizi sociali hanno smesso di essere dei “diritti”. Coloro che non riescono ad ottenerli, perchè impossibilitati a “comprare la merce-casa”, sono trattati non come persone che hanno bisogno di un aiuto fondato sulla solidarietà sociale, o sull’idea che le istituzioni debbano “garantire” determinate “soglie” di dignità e diritti per tutti. Nel neoliberismo il “sociale” è esattamente una merce come le altre. La gestione di questi problemi è quindi tesa all’ “essere assistiti” nel comprendere le “regole del gioco”, che non sono quelle dei “diritti sociali”, bensì del “Mercato”! Sfratti, mancate o interminabili attese nelle assegnazioni di case popolari, “giudizi e valutazione” per attribuire o meno lo “status d’emergenza”, sono gestiti esclusivamente dagli operatori dei servizi sociali, oltre che da Giudici, Ufficiali Giudiziari e Poliziotti.
In pochissimi anni i Fondi destinati al “sociale” sono stati tagliati dell’86%. In assenza di una redistribuzione sociale (ed anzi in presenza di una vera e propria “rapina”, dato che i fondi che vengono tagliati a noi non spariscono nel nulla ma vanno ad ingrassare banchieri, dirigenti e politici di alto grado) la politica dei servizi sociali è quella della gestione della scarsità di risorse, con il risultato di una vera e propria “guerra tra poveri per delle briciole” stimolata ed indotta da una filosofia dell’aiuto basata sull’individualizzazione del rapporto tra Assistente ed Assistito. Una relazione essenzialmente di potere, fondata sulla paura di poter accedere alle poche speranze, tenute costantemente in vita da norme e procedure di “autoattivazione”, che spingono l'”utente” a guadagnarsi la “fiducia” delle istituzioni, a “meritarsi” l’aiuto. Tra ricerca di colloqui, corsi di formazione, appuntamenti, curriculum e giro delle agenzie interinali, ricerca della casa in affitto tra le immobiliari, la vita dell’utente che vuole farcela è quella di chi “non può stare fermo”. L’importante è che questa spinta non sia rivolta mai per soddisfare direttamente le proprie esigenze, tanto meno in una dimensione collettiva! L’individualizzazione e la personalizzazione dell’assistenza è il requisito fondamentale che regge questo tipo di assoggettamento. D’altra parte la premessa di fondo è la rassegnazione a non pretendere – né poco né troppo.
Rispetto, dignità, emancipazione ed autonomia sono concetti che vengono cinicamente sacrificati sull’altare della “mancanza delle risorse” e della “crisi”. I rapporti tra gli Utenti e gli Assistenti sono quindi fondati sul binomio paura/comando. Paura di essere giudicati negativamente, Comando di poter valutare e decidere se e cosa garantire: se dare un contributo, un buono pasto, se inserirci nella lista d’emergenza.
Gli strumenti di welfare quindi quali sono? Da diritti sociali sono diventati veri e propri “crediti” che devono essere prima “guadagnati”, e poi spesi per acquistare delle merci (case, alimentazione, bollette etc..). Sembra di essere in banca, dove per convincere a farti fare un prestito devi mostrare delle “credenziali” e devi essere disposto a ripagarlo in ogni modo, pena la persecuzione! Se non hai queste credenziali sei escluso! Se le hai, e ti viene concesso il “Prestito sociale” devi essere in grado di restituirlo. Altrimenti sei un “imbroglione, un furbetto, un impostore!”.
In questo contesto il lavoro dell’assistenza sociale, al di là delle sue “professionalità”, si riduce alla ripetizione di procedure che avviliscono e mortificano chi si trova già in grave difficoltà.
– Ai colloqui gli Assistenti Sociali per chi è disoccupato ripetono incessantemente “vai al centro per l’impiego – agenzie interinali – porta i curriculum!” Anche il lavoro al nero o sottopagato è “consigliato”, piuttosto che la disoccupazione. E’ nocivo per la propria reputazione far notare che “il lavoro non c’è”: il giudizio su di noi sarebbe “non hai fatto abbastanza, sei un fannullone”.
– Per chi dalla disoccupazione passa alla “morosità”, ovvero al non pagare più l’affitto, e si trova sotto sfratto, la soluzione è: “cercati un’altra casa in affitto”. Laddove il fenomeno dell'”autoriduzione” si è necessariamente diffuso con l’acuirsi della mancanza di reddito, le agenzie immobiliari ed i proprietari di casa concedono in affitto le case solo al prezzo di caparre esorbitanti, contratte con finanziarie, oppure con la garanzia di “contratti di lavoro a tempo indeterminato” con buste paghe dai 900 euro in su, sulle quali eventualmente rifarsi trattenendo parte degli stipendi.
– Altra “soluzione” prospettata è quella di “fatti ospitare da amici”, oppure “non hai genitori o parenti”. Ogni pudore, intimità, fiducia è violata, s’indaga nei rapporti sociali e nelle relazioni per cercare di scovare possibilità che “ammortizzino” il disagio. Il peso ed il carico dello “stato sociale” viene privatizzato, e ricade quasi interamente sulla propria scaltrezza nel reperire soluzioni individuali.
– Se, in aggiunta a queste condizioni, si aggiunge quella di essere immigrato da un altro paese – ovviamente residente sul territorio da anni – il lavoro dell’assistente sociale consiste nella esplicita formula razzista del “torna al tuo paese”, o “emigra al nord”. Un razzismo sociale, espresso senza livore, ma in maniera fredda e distaccata, che racconta al meglio dove sia finita la retorica multiculturale ed il valore dell’integrazione nella società dell’austerità.
Tornando alla questione abitativa, al moltiplicarsi delle esecuzioni degli sfratti non segue nessun provvedimento degno di esser chiamato d’emergenza, tanto meno di progettualità alternativa a quella vigente. Bensì le Istituzioni sociali e politiche nel loro complesso ripropongono pari pari le stesse ricette che hanno condotto a questa situazione. Sempre meno famiglie riescono a pagare affitti da rapina: l’esplosione sociale è solo rimandata e governata scaricando verso il basso tensioni e frustrazioni, introducendo sentimenti di colpa e infondendo paura di ritorsioni e di pene più grandi nel caso qualcuno osi ribellarsi.
Il welfare e lo stato sociale sono diventati degli strumenti che cercano di contenere il disagio per non farlo “esplodere” in rabbia o ribellione. Inoltre, tutti i provvedimenti di “assistenza” in realtà non riguardano i nostri bisogni, bensì – a vario titolo – i “proprietari, gli imprenditori, i privati”. Ad esempio, se veniamo “giudicati” da un’apposita commissione in “emergenza abitativa”, le risposte che vengono prospettate tendono a risolvere “la crisi” degli imprenditori immobiliari e dei padroni di casa, piuttosto che quello dei nuclei familiari. Le alternative, a seconda del “grado” di disperazione, possono essere:
– l’inserimento in strutture residenziali private (tra l’altro l’unico convenzionato è a Stagno, nella Provincia di Livorno, neanche collegato con la città da mezzi di trasporto pubblici!) – pagate dall’assistenza sociale coi soldi pubblici – per un periodo di pochi giorni o settimane;
– la concessione di prestiti “una tantum”;
– il pagamento di parte della “morosità” accumulata nei confronti dei proprietari di casa;
– un contributo straordinario all’affitto al massimo della somma di 200 euro mensili per tre mesi rinnovabili al massimo di altri tre mesi, in abitazioni reperite autonomamente (che non vengono mai affittate da Agenzie né da Privati a chi non possiede “almeno” un contratto di lavoro a tempo indeterminato);
– l’inserimento nelle liste dell’agenzia casa, ovvero in abitazioni di proprietà private, prese in affitto dal Comune e subaffittati a canoni leggermente inferiori di quelli di mercato a nuclei in precarietà abitativa;
– buoni pasto erogati mensilmente con cui “pagare” generi alimentari presso i supermercati Coop.
Tutti questi provvedimenti sono accomunati dal fornire risposte temporanee, insoddisfacenti nella misura in cui soddisfano l’esigenza di “incasso” da parte dei Proprietari di case o di residence e, nel breve periodo, ripristinano una situazione di precarietà e grave disagio abitativo.
Ma chi è che protesta? Sono chiamati dalla sociologia istituzionale “i nuovi poveri”, quella composizione della precarietà che è impoverita ulteriormente in questa crisi e che non vuole che la propria condizione sprofondi nel baratro delle politiche di austerità. Se “non ci sono soldi io comunque devo mangiare, devo mandare mio figlio a scuola, devo vivere in una casa con dignità!”
L’assistenzialismo non funziona perchè è stato tarato sulla cosiddetta “alta marginalità” con cui ha affinato un modus operandi sociale che si basa sulla “patologizzazione” della povertà: “se sei povero vuol dire che sei malato e devi essere curato”. Una terapia sociale che però è incapace di offrire alternative alle stesse ricette che sono causa del “male”! La povertà è considerata una malattia: questo neoliberismo fuori tempo massimo assimila chi non ha casa e chi non ha lavoro a chi ha bisogno di un’assistenza, che si configura come una vera e propria “cura” di una “disabilità”, in quanto “incapace di investire su se stesso”.
Adesso che l’impoverimento è un fenomeno sociale che cresce progressivamente ed investe fette sociali considerate “normali”, gli strumenti di “assistenza” scoppiano. Questi dispositivi di controllo sono basati sull’inasprirsi di meccanismi di disciplinamento e condizionano l’accesso al reddito vincolandolo alla disponibilità di un ulteriore auto-sfruttamento ed indebitamento materiale e morale. Aumenta così l’esclusione sociale.
Negli ultimi mesi si stanno intensificando le richieste di assistenza da parte di chi lavora precariamente, di chi è in cassa integrazione, di chi ha lavorato per una vita e si trova disoccupato a 50 anni. E’ una composizione che male accetta e che non digerisce passivamente l’austerità, e che rimane incredula e poi si arrabbia di fronte all’inutilità delle risposte messe in campo dalla “Stato”. E’ una composizione che si sente “tradita” rispetto ai sacrifici che ha versato nel lavoro e nella stretta adesione ai valori di questo sistema. Ora che ha bisogno, ed è costretta a chiedere, trova solo porte chiuse in faccia.
Nel mentre, queste Istituzioni del Welfare del privato, affogano nella mancanza di risorse e nell’aumento vertiginoso della “domanda” di accesso al reddito; si fa strada il senso comune, tra i proletari, dell'”inutilità” di questi carrozzoni come la Società della Salute. “Se non ci date risposte, cosa ci state a fare? Chiudiamoli questi palazzi!” gridano i nuovi poveri non più timorosi di perdere qualche briciola. “Se le risorse qui non ci sono, o non ci vengono date, noi sappiamo dove andare a trovarle: la casa, il reddito, la salute devono essere accessibili per tutti!”. Inizia ad emergere la separazione dei propri interessi, rispetto e contro quelli delle istituzioni sociali.
La scommessa di un progetto antagonista all’altezza di questa crisi è quella che punta ad arricchire e potenziare quei processi di organizzazione di questi interessi e bisogni “di parte”, per renderli autonomi da leggi, comportamenti e strumenti che risultano sempre più “estranei” e nemici del proprio benessere.
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