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Cosa può un corpo di donna

Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille

Il 20 dicembre il governo spagnolo ha approvato una legge fortemente restrittiva in materia di aborto (Ley Orgánica de Protección de los Derechos del Concebido y de la Mujer Embarazada) che ora attende l’approvazione del parlamento iberico per entrare effettivamente in vigore. Nel frattempo, donne e uomini spagnoli – ampiamente appoggiati da espressioni di solidarietà transnazionali – si sono mobilitate/i per interrompere il corso del provvedimento e mettersi al riparo da una legge che, con buona probabilità, sarebbe da annoverare tra le peggiori della recente storia spagnola ed europea. Per questa ragione, nelle ultime settimane, si è tornati a parlare di aborto con una certa insistenza. Tuttavia, la questione non (ri)spunta dal nulla e da tempo si è abituati a convivere con una sorta di “rumore bianco”, un attacco continuo, insistente e violento a quel “meta-diritto” che è la possibilità di scegliere. In Italia, in modo particolare, il lamento macabro dei cosiddetti pro-life è stato accolto e assecondato dalle istituzioni di ogni orientamento e colore trasformandosi in normative regionali che, di fatto, cercano di trasformare i consultori in luoghi di persecuzione. Più in generale, si può registrare un forte incremento di retoriche reazionarie e integraliste su scala europea che giocano gran parte della loro battaglia politica sul corpo delle donne e sulla definizione della sessualità. Dunque, tenendo conto del grado di generalità della questione, si possono formulare alcune ipotesi di lettura politica del recente attacco spagnolo al diritto di aborto con l’obiettivo di entrare in risonanza con i tanti contro-canti della crisi che, sempre più numerosi, emergono da ogni dove.

La sistematica messa in discussione del diritto di abortire liberamente e nelle condizioni sanitarie migliori tradisce in modo puntuale il pessimo rapporto che intercorre tra le donne e le garanzie formali di diritto. Tant’è che, anche dal punto di vista storico, la libertà di abortire si è affermata solo attraverso le battaglie delle donne e non si è mai tradotta in un diritto fondamentale. Da questo punto di vista, non stupisce che, all’occasione, il parlamento europeo abbia rifiutato di fare proprio l’obbligo di garantire un aborto libero e sicuro alle cittadine dell’unione. D’altro canto, una concezione autonoma e libera della maternità non è traducibile nel linguaggio senza corpo delle dottrine formali poiché essa non costituisce soltanto un principio, ma anzitutto una pratica. Una pratica che, ciclicamente, si cerca di limitare, reprimere e offendere. Una pratica etica e collettiva che implica la condivisione tra soggetti autonomi nella coppia e fuori di essa. La negazione del diritto di abortire, infatti, costituisce un attacco a un intero universo micropolitico fondato su relazioni di fiducia e reciprocità. Per questo nell’illegalità dell’aborto sono annidati la minaccia della violenza fisica e psicologica individualizzata, il pericolo concreto della morte legato alla clandestinità della pratica abortiva, la solitudine della colpevolizzazione, l’espropriazione dei saperi, l’ostilità del welfare che diventa nemico, l’invadenza del sovrano che entra – devastante – nelle relazioni personali, l’espropriazione del corpo e l’alienazione dei sentimenti. C’è, in una battuta, tutta la violenza che il potere può contro la vita. Che la donna, infatti, non possa disporre del proprio corpo implica, ovviamente, il fatto che altri possano/debbano farlo.

Da questo punto di vista, forse e osando, si possono tracciare linee di analogia e di affinità tra l’attacco al diritto di aborto e un accanimento generalizzato contro le forme di vita. E, in modo speculare, la rivendicazione di un’esperienza libera della maternità può costituire un significante ampio per affermare un’etica, un insieme di pratiche e di legami attraverso cui (ri)prendersi la vita. D’altro canto, un’intera storia di lotte e una vasta tradizione teorica hanno messo in luce il nesso strutturale e sistemico tra le tecnologie della riproduzione e l’architettura dei sistemi economico-politici. In modo specifico, si è mostrato come la costruzione di un regime di naturalità fondato sul potenziale riproduttivo del corpo femminile e sulla norma eterosessuale abbia garantito nel corso di circa tre secoli la sussunzione reale delle donne nel processo di riproduzione del lavoro vivo. Da questa prospettiva, non stupisce che al dispositivo predatorio della crisi si accompagni un tentativo di assoggettamento violento delle donne in particolare e delle soggettività in generale. Quando si parla di aborto molti nodi vengono al pettine e il potere tradisce il suo arbitrio, la sua parzialità e la violenza di cui è capace.

Alla luce di queste brevi considerazioni, conviene forse non adottare schemi discorsivi che, ogni volta che si assiste a un attacco al diritto d’aborto, fanno appello allo sdegno, all’incredulità e all’indignazione. Ad esempio, ricondurre all’orizzonte della “fantascienza” la legge spagnola o denunciarne il carattere “medievale” non costituiscono forse le migliori strategie discorsive di cui disporre. Formule di questo tipo, infatti, possiedono un po’ di appeal retorico, ma poca produttività politica. D’altro canto, quando le cose accadono realmente non conviene di certo assestarsi su un piano di irrealtà o metterle troppo a distanza. La questione dell’aborto non misura gradi di civilizzazione o di evoluzione dei costumi (spesso si ha quasi la sensazione che la libertà delle donne sia ridotta sostanzialmente a questo) su cui tarare forme di progressismo formale e, quando tira aria cattiva, esclamare oh my god, that’s impossible! Al contrario, la libera gestione del corpo costituisce il grado zero per l’affermazione di libertà materiali.

di Simona de Simoni per Commonware

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