Economia pandemica: governo tra MES, Recovery Plan e Finanziaria
Mentre il paese si prepara ad un nuovo formato ‘festivo’ di restrizioni, orientate a far convivere il Covid-19 con gli “imprescindibili” consumi natalizi, il governo Conte II, diviso e fiaccato, continua a trascinarsi tra scadenze istituzionali nazionali ed europee.
Il 9 dicembre si voterà al senato la riforma del MES, e non l’attivazione del MES sanitario, il 10-11 andrà in scena il Consiglio Europeo del ‘salvifico’ Recovery Plan, ed entro il 18 dicembre sempre palazzo Madama dovrà dare il via libera alla manovra di bilancio 2021.
Tre momenti complessi per l’esecutivo, la cui complessità purtroppo è ancora ristretta alle diatribe di posizionamento di un arco istituzionale sempre più distante da un tessuto sociale ‘sospeso’ e paralizzato dall’attesa che passi la mareggiata, almeno per rendersi conto dei danni che ha portato.
Tuttavia la comprensione di questi tre passaggi istituzionali che intrecciano la scala nazionale a quella regional-europea è di vitale importanza per aprire la strada di un 2021 che, pandemia o meno, dovrà sciogliere alcuni nodi chiave degli assetti economico-sociali del nostro paese e dell’area UE.
Andiamo in ordine cronologico.
Il MES
L’Italia, dopo aver approvato la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità in sede di Eurogruppo lunedì 30 novembre, deve dare il via libera ‘interno’ ai ritocchi apportati a questo annoso ‘fondo salva-Stati’ (Salva-banche con i soldi degli Stati sarebbe un nome più pertinente).
Le modifiche sono essenzialmente due: una prima riguarda la messa a disposizione di 70 miliardi di fondi europei per la risoluzione di crisi bancarie.
Il MES assumerà la funzione di backstop, termine tecnico per indicare il ruolo di prestatore di ultima istanza che renderà il fondo un soffice paracadute per il drogato settore bancario europeo colmo di miliardi di prestiti non esigibili (NPL, non-performing loans).
Nel bel mezzo dell’ennesima crisi economica, con milioni di imprese indebitate che rischiano la chiusura, la tutela delle grandi banche da eventuali perdite è una priorità incalzante per i vertici del capitalismo europeo.
Un primo asse di riforma che si commenta da solo.
La seconda sostanziale modifica al trattato, che ricordiamo entrò in vigore nel 2011 durante il governo Monti e sostenuto da tutto l’arco parlamentare, riguarda le clausole di azione collettiva.
Queste sono il meccanismo tramite il quale gli Stati membri possono chiedere un intervento di ristrutturazione del debito sovrano di un altro paese se ritengono che questo non si “comporti” in maniera finanziariamente sana.
Strumento voluto e utile ai ‘santi’ paesi frugali per continuare a giocare, in un futuro post-Covid, la partita dell’austerity da una posizione di forza contri i ‘peccatori’ del sud Europa, i cui conti pubblici sono sempre più incompatibili con il fiscal compact ed il suo programma di rientro ventennale del debito.
Le clausole vengono modificate nella modalità con la quale uno Stato può richiederne l’attivazione: dalla doppia maggioranza si passa alla maggioranza qualificata, da un lato si snellisce l’iter della richiesta punitiva dall’altro si costituisce una qualificazione necessaria per l’attivazione.
Questa maggioranza qualificata, infatti, consta di un regime di proporzionalità che vede gli Stati più popolosi (Italia, Francia, Germania e Spagna) avere maggior peso rispetto agli altri consentendo, per esempio, a Spagna ed Italia di darsi manforte e permettere a quest’ultime di trattare direttamente con Parigi e Berlino.
La sintesi della riforma potrebbe essere la seguente: l’azzardo morale di incauta esposizione debitoria va bene per le grandi banche ma non per gli Stati.
Quanto scritto sopra non ha molto a che fare con l’ormai celebre ‘MES sanitario’, invocato come panacea di tutti mali da Zingaretti, Renzi e a tratti dal Berlusca.
IL MES, prima del Covid, era una misura salva-banche con missione di rifinanziamento punitivo, supervisione e controllo dei debiti sovrani, ma da luglio per dargli un barlume di ragion d’essere dentro la caotica attualità pandemica, i tecnici di Bruxelles si sono inventati una terza funzione ossia la linea di credito di 36 miliardi a scopi sanitari.
Fondamentalmente altro debito, più o meno agli stessi tassi di interesse dell’attuale emissione italiana di titoli di stato.
Questa descrizione mostra chiaramente come il dibattito tra le forze politiche sia per lo più un gioco di posizionamento tra PD, Renziani e 5S. I primi, con sfaccettature diverse, hanno nell’ancoraggio all’UE e alle sue regole la loro unica distinzione politica parzialmente efficace nel conservare il serbatoio di voti della popolazione italiana più abbiente.
Mentre per i 5S il no al MES rimane l’ultimo tentativo incarnare un’opposizione a tali meccanismi di controllo.
Se aggiungiamo che questa frattura con le sue contraddizioni è cavalcata, ma insoluta, anche a destra si configura il solito macabro teatrino politico.
Recovery Plan
Un passo falso al senato nella ratifica nazionale del trattato MES non renderebbe a Conte più facile la partita sul Recovery Fund. Programma di rilancio da 209 miliardi, un terzo a fondo perduto, due terzi a prestito, il cui ottenimento è il vero, e forse unico, successo del Premier.
Tuttavia la strada verso l’attuazione del ‘messianico’ Recovery è tutt’altro che in discesa.
Tralasciando i veti di Ungheria e Polonia sullo stato di diritto, che meriterebbero una trattazione a parte, i paesi ‘frugali’ non si sono del tutto rassegnati all’elargizione di fondi verso le cicale del sud Europa.
Anche se si risolvessero le diatribe est-europee, Austria, Olanda e Finlandia daranno battaglia sui dettagli del piano d’uso italiano, imponendo quanto meno una dilatazione dei tempi.
Tempistiche che sono tutt’altro che secondarie.
Se le risorse non arrivassero entro l’autunno 2021, la stessa finanza pubblica italiana andrebbe in seria difficoltà avendo già messo a bilancio della finanziaria 2021 ben 15 miliardi del Recovery Plan.
Sul legame tra Recovery e legge finanziaria ci torneremo dopo, mentre è ora necessario menzionare, per quanto niente sia pubblico o ufficiale, quali saranno le iniziative italiane inserite nel piano.
Com’è noto ci sono sei macro-aree di investimento:
Digitalizzazione, transizione green, infrastrutture, istruzione, inclusione sociale, salute.
Solite ‘belle’ parole senza sostanza.
Sul Recovery c’è bagarre totale tra le forze politiche, nemmeno a dirlo tutti vogliono una fetta della torta.
L’idea di Conte è la seguente: sei manager per ogni area d’intervento con un esercito di tecnici al seguito (tra gli 80 e i 300). La cabina di regia dovrebbe essere diretta dal Premier stesso insieme ai ministri Gualtieri (economia, PD) e Patuanelli (sviluppo economico, 5S).
La forma è sostanza, e nell’Italia dove la politica è, giustamente, percepita come una cricca di incompetenti, affidarsi ai tecnici e ai manager è diventato un modo per ammantarsi di un’aurea di trasparenza e competenza.
Non è dato sapere cosa questa cabina di regia abbia recepito dai piani d’investimento che i singoli ministeri hanno approntato per candidarsi ai fondi, ma sappiamo con certezza che senza una spinta dal basso, saranno le solite lobby di industriali e rentiers vari ad aggiudicarsi il piatto.
Bonomi e la Confindustria in primis.
La Finanziaria 2021
Il 18 dicembre ci saranno le ultime votazioni al senato sul quarto decreto ‘ristori’ che insieme agli altri tre è entrato a far parte del disegno più ampio di legge di bilancio.
Una manovra nel complesso povera e fatta con i soldi del monopoli, 15 miliardi come già menzionato provengono dal recovery fund, con tutte le problematiche descritte sopra, gli altri 23 in deficit.
Con quest’ultima tornata d’indebitamento l’Italia supera quota 11% sul rapporto debito/PIL, per intenderci nel 2009 anno post crack finanziario globale questo era poco superiore al 5%.
Sembra superfluo sottolinearlo ma la pandemia, nonostante il suo profondo impatto storico, non ha minimamente scalfito le priorità politiche di chi governa e ciò si evidenzia plasticamente in questa manovra.
Gli elenchi non sono entusiasmanti ma restituiscono la povertà del tutto.
In primis si continua a cercare di stimolare le assunzioni attraverso gli sgravi contributivi alle imprese, soprattutto al sud, soprattutto per le piccole e medie imprese, soprattutto per il lavoro femminile.
Quattro decreti ristori per le varie tipologie di imprese o individui danneggiati dalle chiusure Covid.
Deroghe al rinnovo di contratti di lavoro determinato oltre il massimo dei 36 mesi.
Misure per la natalità che vanno dall’assegno famigliare unico ai finanziamenti per gli asili.
Rifinanziamento cassa integrazione e reddito di cittadinanza, pilastri della precaria tenuta sociale di ampi segmenti del paese.
Bonus una tantum a medici e infermieri e ben 320 milioni di euro per le specializzazioni di medicina, un provvedimento che dovrebbe a malapena scalfire il cronico imbuto formativo delle professioni sanitarie. Perché è necessario ribadire che non solo l’Italia non forma abbastanza medici e infermieri, non solo molti emigrano, ma coloro che terminano gli studi per anni faticano ad avere accesso alla formazione di specializzazione necessaria.
Sul versante della sanità, finora sono state elargite briciole.
Sulla scuola e l’università la situazione è ancora più ridicola.
Il fondo ordinario per gli enti e gli istituti di ricerca aumenterà di 65 milioni di euro.
Il concorso ‘straordinario’ per la docenza scolastica è stato bloccato dal Covid, chi l’avrebbe mai detto, mentre di quello ‘ordinario’ non se ne ha traccia. Per l’edilizia scolastica si parla di semplificazione dell’iter per le ristrutturazioni ma non si parla di fondi.
Le politiche sociali lungimiranti che dovrebbe mettere in campo questo governo sembrano ben riassunte dal seguente fatto: i bandi per le assunzioni delle forze dell’ordine sono ben più cospicui dei 5000 insegnanti di sostegno assunti con questa manovra.
Infine c’è da sottolineare l’immancabile spesa militare, ministero della difesa che costa 25 miliardi l’anno, e che quest’anno vede un bell’investimento di 6 miliardi per sommergibili, fregate, cacciabombardieri, blindi e lanciamissili, what else?
Davanti a cotanta sperequazione di risorse, anche quest’anno distratte dai bisogni essenziali e cooptate dalle retoriche riguardo il fare impresa, la centralità dell’individuo e l’importanza di far girare armi ed economia, ha fatto scalpore la timidissima proposta targata Frantoianni e Orfini di introdurre una patrimoniale progressiva sui patrimoni mobiliari (quindi non le case) sopra i 500 mila euro. Una patrimoniale con diverse fasce che vanno dallo 0.2 al 2%.
Questa proposta sarebbe giudicata timida anche dall’FMI. Una patrimoniale del genere non inciderebbe minimamente nella redistribuzione di reddito e non spingerebbe la domanda verso l’alto, dramma centrale dell’accumulazione capitalistica odierna che nelle eccessive disuguaglianze inizia a riscontrare problemi di ‘realizzazione’ della merce prodotta.
Tuttavia l’utilità della proposta si può riscontrare nella levata di scudi che ha innescato.
Da Di Maio, abolitore della povertà, che parla di tasche degli italiani per una manovra che andrebbe a toccare circa 400 mila persone (meno dell’1% più ricco) fino a Zingaretti e il PD, che facendosi due conti in tasca rischierebbero di andare a danneggiare il proprio elettorato dei centri cittadini.
Pur comprendendo l’orizzonte strategico delle rivendicazioni sulla patrimoniale riteniamo necessario non farsi incantare da uno strumento che non è più un tabù per certe compagini dei think thank capitalisti e per alcuni versi è compatibile con la prosecuzione di un regime capitalista in difficoltà di “valorizzazione”, sempre più drogato dal suo successo auto-distruttivo. Di ben altro spessore sarebbe una proposta di redistribuzione, seppur minima, di una parte dell’accumulazione di capitali delle big tech corporation, di cui tanto si blatera da anni, ma che non ha trovato serie sponde politiche ed internazionali a cui appoggiarsi.
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