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Ecuador: “L’opacità è una strategia di controinsurrezione”. Intervista a Raquel Gutiérrez

Nel maggio 2023 ho intervistato Raquel Gutiérrez per darci degli indizi e fungere da bussola per comprendere l’attuale situazione in Ecuador. In questo Paese, dal 2021, sono stati denunciati circa 500 assassinii nelle carceri e, allo stesso tempo, il numero di omicidi aumenta ogni giorno, soprattutto nei quartieri periferici delle città costiere come Esmeraldas e Guayaquil. 

La narrazione ufficiale giustifica una guerra basata sulla guerra al narcotraffico quando sappiamo che sono i territori più poveri e periferici ad essere colpiti e che sono soprattutto gli adolescenti razzializzati ad essere armati e assassinati. Abbiamo la sensazione che l’Ecuador sia smembrato da una guerra che avanza, che espelle e che allo stesso tempo convive con una migrazione forzata dal neoliberismo e dalla fame. Per decifrare questo scenario violento e coperto di opacità, abbiamo parlato con Raquel Gutiérrez Aguilar, un’intellettuale femminista che, mentre racconta l’esperienza messicana attorno alla “guerra al narcotraffico”, ci solleva domande importanti.

Testo di Ana María Morales

Tradotto da laboratoria.red


Prima che potessi fare una domanda a Raquel, lei ha iniziato la conversazione e mi ha chiesto:

Raquel Gutiérrez (RG): Quando collocheresti l’inizio di tutto questo? Se non collochi il momento delle stragi in prigione come l’inizio, dove metti l’inizio? Il primo ricordo che hai, così sensibile da dire “che diavolo è questo”, da pensare di non aver capito niente, dove lo collocheresti?

Ana María Morales (AM): Penso che potrebbe essere stato il primo massacro, è diventato molto scioccante perché qualcosa di questa portata non era mai successo prima. Ma l’inizio della vertigine arriva con lo sciopero del 2019: lì è stata oltrepassata una soglia di violenza mai sperimentata prima. Con la tua domanda, la mia mente torna allo sciopero del 2019 perché da un lato c’è quella mobilitazione di massa che non vedevamo da tanto tempo e supera una soglia di violenza che lascia undici persone uccise dalla repressione, con una persecuzione che ancora continua.

RG: Va bene, quello che dici è molto simile ad alcune cose accadute qui in Messico: la guerra alla droga ha cominciato a svolgersi nel 2007, proprio perché nel 2006 abbiamo vissuto l’anno più mobilitato e intenso dopo il 1994-1995. Ora, a proposito delle potenti mobilitazioni in Ecuador nel 2019, Cristina Vega ci ha parlato della mobilitazione della CONAIE (Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador), così come dell’importanza dell’articolazione delle lotte femministe popolari con le trame dei quartieri popolari, che riescono a neutralizzare in parte l’uso indiscriminato della violenza e infine il governo dovrà negoziare.

Il mio appello è quello di comprendere ciò che chiameremo provvisoriamente una sorta di “messicanizzazione dell’Ecuador” seguendo alcuni parallelismi. Vale a dire, una sorta di esacerbazione della violenza che ha dietro di sé un’implicita intenzione di depoliticizzare, di intervenire negli eventi in corso e di cambiare la situazione con azioni dagli effetti sanguinosi. Come queste morti nei massacri carcerari, che superano di gran lunga i livelli di violenza che la società di un Paese ammette e a cui quella società è abituata. L’Ecuador non è un paese in cui “la vita non ha valore”. A quanto ho capito, è un paese dove c’è repressione, ci sono problemi, c’è una grande esclusione, ma non un paese dove ci sono uccisioni sistematiche. Tuttavia, all’improvviso, ciò inizia ad accadere. E ciò avviene proprio dopo un periodo importante di mobilitazioni massicce e, soprattutto, mobilitazioni in cui hanno cominciato ad articolarsi forze e capacità di lotta che prima, in genere, erano state dispiegate “su linee separate”, come dicono gli avvocati; cioè senza connessioni e senza volontà esplicita e pratica di costruire e sostenere relazioni. In questo caso, è importante l’alleanza tra femminismi, lotte popolari urbane e la grande azione della CONAIE.

Ecco perché quella che chiameremo provvisoriamente una sorta di “messicanizzazione”, intesa come proliferazione di violenza apparentemente sconnessa e non politicizzata, è molto conveniente da leggere come una strategia di controinsurrezione. Dawn Paley la chiama “controinsurrezione estesa”.

Evidentemente nel corso di molti anni sono cambiate le coordinate della “insurrezione”, sono cambiati i codici per comprendere lo svolgersi delle lotte. E anche il modo in cui viene condotta la controinsurrezione politica è effettivamente cambiato. In passato, quando si studiava il modo in cui veniva condotta la controinsurrezione in America Latina, si poteva risalire alla Scuola delle Americhe, dove i militari e i corpi d’élite dell’esercito venivano addestrati alla gestione delle informazioni, al controspionaggio, agli interrogatori, ecc. per affrontare organizzazioni politiche identificabili. Allora, in termini di repressione, c’era una combinazione di violenza selettiva, violenza di massa, cattura, sparizione – ma sparizione politica – e così via; questo era il modo in cui si intendeva la controinsurrezione, attraverso tutti i tipi di azioni militari e paramilitari violente. Questa forma di controinsurrezione, secondo Dawn, si è “espansa” massificandosi e variando per affrontare le rivolte e le mobilitazioni di massa che abbiamo vissuto.

È quindi opportuno cercare di comprendere le nuove forme di controinsurrezione allargata che stanno operando in questo continente. Cominciare a dare un senso a eventi sconnessi e brutali partendo dal presupposto che esista un’intenzionalità implicita è molto utile perché altrimenti di solito non si capisce nulla. Un’ipotesi è quindi che, nel caso dell’Ecuador, dopo le grandi mobilitazioni del 2019, si sia iniziata ad applicare la “tecnica messicana” di depoliticizzazione controinsurrezionale altamente violenta. Forse ciò che è accaduto negli anni successivi a quell’importante momento di sviluppo delle lotte è lo sviluppo confuso, incerto e sovrapposto di una strategia di controinsurrezione che consiste nell’aumentare enormemente la quantità di violenza sociale depoliticizzandola. Perché viene incoraggiata – da parte di governi ed eserciti – la proliferazione di una violenza sociale apparentemente sconnessa, apparentemente incomprensibile, che decostruisce persino la possibilità di comprendere ciò che si sta giocando quotidianamente? Neutralizzare la forza organizzativa e politica raggiunta nelle lotte precedenti.

Insisto, per noi, in Messico, la guerra contro il narcotraffico è arrivata nel 2007 e non siamo riuscitə a stabilire con chiarezza che quella che stava accadendo era una guerra contro il popolo, contro la società, condotta in modo frammentario e diffuso per diversi anni dopo. Ci siamo resi conto, presto, che dovevamo separare la ricerca di qualsiasi spiegazione dal discorso travolgente che ripeteva che c’era una “guerra alla droga” e che spiegava l’aumento accelerato della violenza insistendo sul fatto che “diversi gruppi di criminali” si combattono l’un l’altro. Il discorso ufficiale oscillava continuamente, spiegando i terribili massacri e il brutale aumento delle persone scomparse sostenendo che o la “forza pubblica” si confrontava con i criminali, oppure che combattevano tra loro. Ma quello che cominciammo a capire, guardando allora allo specchio della Colombia, fu che stava aumentando l’occupazione militare o paramilitare di territori sempre più vasti. Un aumento della violenza in luoghi dove si concentravano lotte molto importanti o dove esistevano beni e conflitti per le risorse pubbliche. Tra il 2007 e il 2011 sono stati anni molto difficili, c’è stata una sorta di tremenda paralisi perché, all’improvviso, il livello di violenza, il livello di terrore, il livello di silenzio, il livello di confusione è aumentato rapidamente. Tutto è accaduto inaspettatamente e apparentemente in modo casuale. È stato così finché non siamo riusciti a pensare a ciò che stava accadendo come una strategia di controllo territoriale e di repressione delle lotte, che abbiamo chiamato controinsurrezione allargata, che siamo riusciti a iniziare a orientarci negli eventi violenti che hanno ripetutamente scioccato la discussione pubblica. Cominciammo cioè a capire che ciò che stava accadendo era un’espansione delle classiche tecniche di controinsurrezione. Poi ciò che stava accadendo smise di sembrare così confuso, così sconnesso. Abbiamo imparato qualcosa di molto importante, parte della strategia ampliata di controinsurrezione è indurre una destrutturazione della possibilità di comprensione, questo è ciò che chiamiamo strategia di produzione di opacità, cioè non si tratta solo di nascondere o falsificare ma di destrutturare la comprensione. Non si tratta solo di disinformazione, è più che disinformazione.

Ad esempio, quando si legge del primo massacro nel carcere di Guayaquil, probabilmente si legge ciò che è stato pubblicato sui media pubblici riferendosi a fonti ufficiali che dicevano queste cose. Non so se vi siete accorti che non bastava più dire “ci mentono”, ma che c’era qualcosa di più profondo: si producevano sistematicamente insiemi di discorsi che distruggevano la possibilità di dare un senso a ciò che accadeva.

Questo è ciò che studiamo da molti anni e ci è voluto molto lavoro per capirlo, e ora vediamo che queste non sono cose casuali né hanno a che fare esclusivamente o principalmente con scontri tra criminali. Per riorganizzare la capacità di comprensione è molto conveniente isolare gli assi del discorso che si mette sul tavolo. Non mi è molto chiaro il discorso specifico che il governo Lasso fa ora sugli eventi che scuotono la vita pubblica in Ecuador, ma dobbiamo esaminarlo attentamente per vedere in cosa consiste l’operazione di destrutturazione della comprensione, perché è quello che stanno facendo.

Una delle caratteristiche della produzione di opacità, dell’azione di destrutturazione della comprensione, è ciò che Dawn Paley chiama l’opacità degli autori. C’è un delitto, ci sono tanti cadaveri e non è mai chiaro chi sia stato o cosa sia successo. Quando qui in Messico scomparvero nella città di Iguala 43 studenti normali di Ayotzinapa, nel settembre 2014, durante la prima mobilitazione di ripudio di tali fatti, sul pavimento dello Zócalo di Città del Messico fu dipinto un enorme cartello che diceva: “E’ stato lo Stato”. Si trattava di uno sforzo molto importante per rompere con le contorte narrazioni ufficiali che ci facevano parlare della disputa tra “los Rojos” e i “Guerreros Unidos”. Il tutto, peraltro, in un discorso poliziesco pieno di scappatoie. Stabilendo che “è stato lo Stato” si è cominciato a rompere l’opacità dei colpevoli. È stato un primo passo. L’intera popolazione sapeva che gli aggressori erano bande armate di uomini violenti; i sopravvissuti alla brutale “Notte di Iguala” del 2014 hanno parlato di polizia municipale e statale, personale dell’esercito e civili paramilitarizzati che agivano insieme. Finché questo non è chiaro, le aggressioni violente sono altamente smobilitanti, perché quando non si capisce chi sono gli aggressori, non si sa chi sta attaccando e come procedere. Non è possibile creare un quadro chiaro di denuncia. Il sospetto c’è, certo, ma il quadro del discorso ufficiale è consolidato per ostacolare, neutralizzare l’indignazione, in modo che la situazione di violenza continui e si espanda. Inoltre, in termini giudiziari, non si chiarisce nulla di proposito: si ribadisce più volte che ciò che sta accadendo è una lotta tra criminali. Niente di più.

Nel caso degli scontri e dei massacri nelle carceri, mi colpisce che siano iniziati così in Ecuador, perché le carceri sono, in definitiva, il luogo dove il controllo statale è più condensato. Quindi, come sanno i detenuti e le loro famiglie, è ridicolo che presentino gli eventi violenti come qualcosa di casuale, sostenendo che il gruppo A ha combattuto contro il gruppo B e sono morti dieci, undici o dodici o cento. È del tutto evidente che affinché ciò sia possibile occorre un’operazione concordata da coloro che effettivamente controllano le carceri: polizia, pubblici ministeri, uffici del regime penitenziario, giudici, ecc.

Per quanto riguarda la situazione nelle carceri, tutto ciò che sta accadendo ora contrasta notevolmente con altri tempi in cui i prigionieri politici insieme ai prigionieri comuni hanno scatenato disordini. In quelle rivolte, almeno in Bolivia anni fa, furono avanzate rivendicazioni, furono pronunciati discorsi critici, ecc. A volte le mobilitazioni carcerarie sono state represse violentemente, ma il confronto, i termini del confronto, erano chiari. Mi dà l’impressione, ma soprattutto è un’intuizione che un modo oggi molto diffuso di gestire la vita nelle carceri sia quello di aumentare la violenza come strumento per inviare messaggi esemplari al mondo popolare, perché in definitiva chi è detenuto, tranne in alcuni In casi molto particolari, eccezionali, si tratta di gente laboriosa, di origine popolare. Se l’amministrazione penitenziaria incoraggia la violenza all’interno del carcere, viene esercitata una variante della guerra tra poveri. Questa è un’altra vecchia tecnica di controinsurrezione ora ampliata: contrapporsi e nascondere chi si sta contrapponendo, chi sta amministrando, consentendo confronti violenti.

AM: Sì, penso che sia importante vedere come sono costruite le narrazioni. Dopo lo sciopero del 2019, si è detto che la CONAIE è finanziata dal narcotraffico e, d’altra parte, si sta rafforzando il nemico interno, dove i gruppi del crimine organizzato devono essere affrontati sotto la categoria del terrorismo incarnato da giovani razzializzati, mentre il cognato di Guillermo Lasso è associato alla mafia albanese legata al trasporto di droga.

RG: Esatto, giocano molto su questa classificazione del terrorismo perché è immediatamente collegata a quel diritto che il governo degli Stati Uniti si è concesso nel 2001, quando si è arrogato il diritto di agire militarmente in qualsiasi Paese, ad esempio con la guerra in Iraq nel 2003. In altre parole siamo statə  coinvoltə  per 20 anni in questa strategia militare che era già stata organizzata ed eseguita in precedenza in Colombia. Credo che la Colombia sia stata un laboratorio molto importante per tutto questo: la questione per capire cosa è in gioco, è capire cosa vogliono tenere sotto controllo, cosa vogliono fermare, cosa cercano di controllare, contro cosa si oppone la loro strategia. È qui che, in termini di discorso, arriva la guerra alla droga. Notate il contrasto: in Messico la guerra contro la droga arriva nel 2007, cioè l’anno in cui inizia, ma, insisto, cosa precede l’inizio della guerra contro la droga? Il precedente è il 2006, che è uno degli anni con più più mobilitazioni che si ricordi in Messico, è l’anno dell’insurrezione di Oaxaca e dei suoi 4 o 5 mesi di occupazione e presa della città. Sono gli energici eventi di rivolta e mobilitazione che presero il nome di Comune di Oaxaca, organizzati da quell’organizzazione che prese il nome di Assemblea Popolare del Popolo di Oaxaca (APPO), che riuscì a neutralizzare l’avanzata dell’esercito nello scontro di 1 e 2 novembre 2006. La mia impressione è che qualcosa di simile sia accaduto a Quito nel 2019, quando le mobilitazioni sono riuscite a neutralizzare il dispiegamento della forza pubblica. Quando queste cose accadono, i generali iniziano a pensare e iniziano ad attuare altre strategie di contenimento, di controinsurrezione estesa che amplia i precedenti termini di repressione, ma li adatta anche alle condizioni di straripamento che già prevedevano arrivare.

È proprio in Ecuador che questa violenta controffensiva si sta svolgendo in modo molto aggressivo proprio adesso. Anche se vale la pena considerare anche ciò che accade in Cile. Lì, a mio avviso, una sintesi politica è stata realizzata dall’alto in modo diverso attraverso il patto del 15 novembre 2019, quando una parte rilevante dell’energia sociale traboccante nelle lotte è stata incanalata verso un processo costituente. Finalmente sappiamo come è continuata quella storia… ma non è questo il punto. Per quanto riguarda l’America Latina, vale la pena riflettere su come siano state implementate diverse misure di contenimento politico e neutralizzazione, sempre più violente. Guardando dall’Ecuador, è conveniente capire che, data l’impossibilità di una sintesi politica dall’alto simile a quella avvenuta in Cile, le forze dominanti, imprenditoriali, politiche e militari, legali e illegali, hanno deciso di sperimentare una strategia militare di controinsurrezione ampliata, che in altri luoghi, come in Messico, è stato efficace per contenere l’avanzata delle lotte.

AM: Penso che le tecniche di repressione nello sciopero in Ecuador e nelle manifestazioni in Cile, quell’immagine degli spari negli occhi dei manifestanti…

RG: Sto cercando di presentare indizi che ci permettano di ampliare la comprensione di questi temi nelle lotte dispiegate e anche dell’espansione e dell’attualizzazione altamente violenta della controinsurrezione Qui in Messico c’è stato un periodo molto importante di accumulazione di forze; Lotte molto profonde si stavano svolgendo territorialmente e cominciavano ad essere coordinate. Gli ordini del giorno e le proposte venivano prodotti dalle stesse persone in lotta. Tutto questo importante periodo di lotte crescenti, di espansione collettiva e conflittuale capacità sociale di intervenire nella cosa pubblica si estende, a mio avviso, dal 1994 al 2006. L’iniziativa politica è nelle mani delle organizzazioni popolari, dello Zapatismo, delle organizzazioni contadine, delle lotte popolari. Tutto ciò avvenne all’inizio del secolo parallelamente al discorso di “democratizzazione formale” , eppure, poiché i meccanismi politici di controllo elettorale non furono sufficienti a sottomettere la popolazione, “la guerra contro la droga” si abbatté sul Paese e cominciò una violenza sfrenata. L’ordine del contendere erano le risorse petrolifere, l’energia in generale, ma anche l’imposizione del modello di agro-export. Questo è solo uno schema molto grezzo ma lo presento in questo modo perché penso che aiuti a organizzare ciò che altrimenti non sarebbe compreso.

Insomma, comprendere tutto questo aumento della “criminalità”, questa violenza apparentemente apolitica che però ha forti effetti politici sulla smobilitazione è l’ipotesi che vi suggeriamo, avendo vissuto tempi molto bui qui in Messico. Adolfo Gilly, uno storico che ha indagato su quanto accaduto durante la rivoluzione messicana più di un secolo fa, ha invitato a prestare attenzione ai momenti in cui “la misura morale della violenza ammissibile in una società” viene alterata. In questi momenti si verifica un cambiamento nell’ordine politico e si comincia a mettere in atto una strategia di controinsurrezione che, in un primo momento, non viene compresa dalla società a cui viene imposta perché, proprio una delle sue caratteristiche è quella di cercare di rimanere occulta.

In Messico, prima che la “guerra alla droga” iniziasse nel 2007, un primo assaggio del cambiamento nella misura morale della violenza ammissibile si è verificato nel maggio 2006, quando si è verificata quella che Adolfo Gilly ha definito “l’occupazione militare di una città vicina a Città del Messico”. , ad Atenco, Stato del Messico. In quel periodo si svolgeva una lotta molto importante contro un’enorme impresa estrattiva ad Atenco, dove si prevedeva la costruzione di un aeroporto. La polizia federale – militarizzata – ha occupato la popolazione di Atenco dove, inoltre, si trovava anche l’Altra Campagna Zapatista. La repressione fu molto violenta. Tra l’altro, quella fu la prima volta che lo strumento della violenza sessuale venne utilizzato pubblicamente e in modo vistoso contro le donne detenute dopo l’occupazione militare della cittadina. Questi eventi furono molto scioccanti; simili agli spari negli occhi, in un’altra epoca e in un’altra geografia, che provocano anch’essi un immenso shock, e che spostano la misura morale di ciò che è ammissibile. In quei momenti ciò che lo Stato sta realmente dicendo è “vado fino in fondo, non rispetterò gli usi e i costumi del nostro modo di esercitare la violenza, lo altererò e andrò contro tutto ciò che si oppone alla mia avanzata”. Ho l’impressione che qualcosa di simile sia accaduto a voi in Ecuador.

AM: Sì, è come hai detto tu, che si sta superando la soglia della violenza…

RG: È proprio una soglia, un’alterazione di ciò che è ammissibile, e lo ripeteranno finché non sarà la nuova norma. Inoltre, implementano un’altra strategia di controinsurrezione che si espande, che depoliticizza i conflitti traducendoli in controversie criminali, e tutto ciò tende a destrutturare le capacità politiche.

AM: Continuo a pensare al ruolo del narcotraffico, perché si parla della presenza di cartelli messicani, come quello di Jalisco Nueva Generación, Sinaloa, appare la mafia albanese e, come dici tu, è difficile vedere chi si sta arricchendo con tutto questo. Ad esempio, uno dei punti più colpiti è Esmeraldas, una provincia a maggioranza afrodiscendente storicamente colpita dal razzismo e dall’impoverimento, ma ora c’è una guerra che si svolge lì e in altri territori.

RG: Dobbiamo liberarci dell’idea che questa sia una guerra del narcotraffico: bisogna spezzare questo cavallo di battaglia, perché è falso. Ciò che sta accadendo in Ecuador, a mio avviso, non è che sia stato coinvolto in una guerra tra bande di narcotrafficanti; non è affatto così. Si tratta piuttosto di una guerra contro il popolo che utilizza le tecniche di quella che Dawn Palley chiama “guerra neoliberale”, ovvero il percorso contemporaneo del “capitalismo antidroga” – oggi sempre più apertamente guerrafondaio – che si organizza e si amplifica attraverso la proibizione di alcune sostanze. Vale la pena ricordare cosa è stato il proibizionismo dell’alcol negli Stati Uniti: un periodo in cui certe fortune sono cresciute e sono state legalizzate, producendo mafie che alla fine hanno acquisito lo status di esistenza legale. Capitalismo e guerra sono sempre andati di pari passo, anche se l’ordine politico si è mascherato da democratico per un certo periodo. Se pensiamo a chi controlla ciò che è proibito, a chi stabilisce i termini di tale controllo, vediamo che si apre un enorme terreno economico per l’accumulazione di capitale e il controllo statale. Le due questioni sono associate e altamente violente.

Oswaldo Zavala, ricercatore messicano, parte da un’affermazione forte e per me sensata: “i cartelli non esistono”. Ciò significa che “cartello” è un sostantivo comune che nasconde la sovrapposizione di attività legali, illegali, civili e statali. Porre un argomento in termini di guerra di cartello cancella il fatto che esistono dispute su circuiti economici di ogni tipo, legali e illegali, amministrati da segmenti e strutture dello Stato di cui non ci è chiaro il significato.

Chi è il protagonista di queste controversie e perché e a che scopo è ciò che resta nascosto. La narrativa dei cartelli tiene conto dell’opacità degli autori di cui abbiamo già parlato. Ad esempio, non sarà facile rintracciare coloro che hanno introdotto o permesso l’introduzione di armi nel carcere di Guayaquil; Né sarà facile sapere che tipo di distribuzione e di affari vengono gestiti da lì e come sono strutturate tali attività. Per questo ci torno, nel Messico del 2014, quando le sparizioni e gli omicidi di Iguala furono così importanti da dimostrare che “è stato lo Stato”. Anche se si trattava appena di un balbettio, affermare una cosa del genere permetteva la comprensione degli eventi più confusi e violenti su un piano diverso. Se non si stabilisce una chiave di lettura, gli eventi sembrano una sorta di folle ondata di violenza incomprensibile, che finisce per rafforzare il discorso securitario.

È come se “i marziani ci avessero invaso” ma non riusciamo a distinguerli… come se si trattasse di una minaccia esterna, quando in realtà sono in gioco modalità opache e violente di gestione dei circuiti economici illegali, mettendo a dura prova i livelli più bassi della distribuzione. L’effetto di militarizzazione che ciò comporta è terribile. E la minaccia non è più “esterna”.

Qui in Messico, ad esempio, molti giovani lavorano come falchi, come dicono qui, che è l’anello più basso dei circuiti economici illegali. È meglio lavorare come falco che come maquilador o come tagliatore di palma da olio. In queste dinamiche commerciali iper-violente, i termini brutali della promozione sono stabiliti e controllati dall’alto nell’opaco – e talvolta fragile – partenariato di mercato pubblico-privato che cerco di delineare. Il processo è parzialmente controllato dall’alto e spesso sottoposto a forti tensioni in termini di concorrenza. Pertanto, l’amministrazione della violenza è molto oscura, così come non è chiaro chi amministra l’illegalità. Questo è il punto che “i cartelli non esistono”. Il cartello non è il soggetto illegale, organizzato e violento che minaccia la società, e le forze dell’ordine non combattono questi cartelli fuori controllo. L’intreccio è molto più complesso, anche se spesso un risultato visibile di queste dinamiche è che le forze armate possono attuare misure straordinarie di controllo sulla popolazione, possono avallare lo spostamento di un gran numero di persone, possono stabilire misure di eccezionalità e averne una giustificazione. È come se la società nel suo complesso si paramilitarizzasse.

In diverse occasioni, le madri dei giovani scomparsi hanno denunciato l’arrivo di grandi furgoni con uomini armati e vetri oscurati che reclutano i giovani vicino alle scuole o alle piazze. In genere chi svolge questo lavoro è un ex-poliziotto o un ex-militare, oppure un poliziotto o un militare in attività, che va e viene dal business illegale. Altre volte sono persone che circolano nelle numerose agenzie di sicurezza private e nelle varie agenzie di polizia o militari. È così che si diffonde l’occupazione territoriale paramilitarizzata, tra un’immensa confusione e un terrore che mette a tacere

In ogni caso, tutto ciò che ti dico forse non ci aiuta ancora a rispondere a domande più precise, ma forse può aiutarci a cominciare a porci domande più fertili.

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