Enrico Berlinguer, un maestro di cui abbiamo imparato a fare a meno
A trenta anni dalla morte, numerose iniziative hanno commemorato l’ultimo segretario del Partito Comunista Italiano.
Per l’occasione, il nostro Walter si è fatto regista e produttore di un lungometraggio sulla vita di Berlinguer [qui la recensione di Infoaut]; nei media, il film è divenuto una specie di biografia ufficiale–circostanza questa che la dice lunga sull’eredita etico-politica del rivoluzionario sardo.
Soleva dire Giancarlo Pajetta, con una di quelle sue battute illuminanti, che “Enrico Berlinguer si è iscritto fin da piccolo alla direzione nazionale del PCI.”
In effetti, l’intellettuale sardo era cresciuto più dentro l’apparato che nelle lotte sociali. Aveva aderito giovanissimo al partito scegliendo per se il destino di rivoluzionario di professione; ma la prassi politica lo aveva trasformato in funzionario di partito.
Va da sé che siamo in presenza di una personalità singolare, moralmente integra.
Ma la ragione per la quale i libri di storia lo ricorderanno non sarà di certo la sua onestà e ancor meno l’opera di comunista; piuttosto il contrario,l’avere liquidato definitivamente l’anima rivoluzionaria del PCI; e quindi,di lì a poco, il PCI per intero.
A ben vedere, Berlinguer, nel suo piccolo, ha svolto un ruolo analogo a quello,più grande e tragico, di Gorbachov : questo è divenuto il simbolo della demolizione dall’interno dell’Unione Sovietica così come quello lo è stato nel tradire l’esperienza comunista italiana in quanto prassi sovversiva.
A farla breve, le cose sono andate così. Una volta registrato, per altro con grande ritardo, il fallimento del socialismo di stato, del sistema economico sociale costruito nell’Unione Sovietica, il gruppo dirigente del PCI ha abiurato ad ogni idea di grande trasformazione sociale, ha accettato come orizzonte esclusivo l’economia capitalistica ed il sistema rappresentativo parlamentare.
Privati della ragione per la quale erano nati, di quella fede rivoluzionaria che aveva fatto nido nel senso comune del nostro paese, i comunisti italiani rischiavano di restare nudi, di perdere la loro specificità divenendo un partito come gli altri.
Ed è qui che si fa strada la proposta di Berlinguer : sollevare l’eterna Questione Morale, il passaggio suicida dalla guerra di classe alla lotta al crimine.
Il presupposto, per la verità qualche poco fragile, di questa nuova strategia riposava sulla natura antropologicamente altra dei politici comunisti, l’essere immuni geneticamente da ogni crimine e corruzione.
Questa strategia ha portato a consegnare il partito comunista nelle mani dei giudici, cosa mai accaduta nella storia del mondo.
Mentre, fatto non meno grave, la menzogna per omissione e l’ipocrisia finivano col degradare il discorso pubblico del partito, in primo luogo di Berlinguer stesso: accusava gli altri partiti di ricevere finanziamenti illeciti e rimuoveva il contributo che i tanti “compagni Greganti” portavano al suo partito.
L’eredità di Berlinguer giace disponibile alla bisogna di tutto il ceto politico: il compromesso storico si chiama ora larghe intese, e per questione morale s’intende la trasparenza. Tutto come prima solo un po’ peggio.
Quel che in questi trent’anni è sicuramente cresciuto è l’ ipocrisia, questo male estremo della Repubblica. Male al quale,malgrado le intenzioni certo nobili, grandemente ha contribuito l’azione politica di Enrico Berlinguer.
Il maggiore officiante è stato Walter Veltroni; sì proprio lui, già traduttore in volgare del pensiero di Clinton e ancor prima direttore del giornale l’Unita, l’unico dirigente di quel partito che abbia confessato pubblicamente di non essere mai stato comunista– come dire, un infiltrato precoce.
Franco Piperno
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