Forme di organizzazione del precariato negli Usa
Mentre in Europa l’idea di precariato circola da parecchi anni, è solo di recente che essa ha fatto il suo ingresso nel dibattito statunitense. Se già dal Manifesto di Marx l’idea di vita precaria era contemplata, è tuttavia soprattutto attraverso il libro di Guy Standing (“The Precariat: the New Dangerous Class”, 2011) che il precariato diviene un riferimento sociologico-politico che identifica una classe sociale, distinguendola dalle più tradizionali figure della classe operaia e del proletariato. In Italia sostanzialmente si tende ad utilizzare indifferentemente l’idea di precarietà/precariato, e tuttavia non è chiaramente una distinzione da poco parlare di precarietà come condizione diffusa del proletariato o di precariato come nuova classe. Ma non è questo il luogo dove approfondire questo discorso. Limitiamoci a sottolineare come in fondo una delle letture più dannose che sono state sviluppate della precarietà è quella che la legge come anomalia o novità. Assumendo un minimo di prospettiva storica, risulta infatti chiaro come in fondo la precarietà intesa come sostanziale “insicurezza/incertezza” sia una condizione che accompagna il capitalismo sin dalla sua nascita. L’anomalia storica è piuttosto il welfare state, le garanzie offerte dal lavoro a tempo indeterminato ecc… Ossia i risultati delle conquiste ottenute sostanzialmente come effetto di sponda prodotto in Occidente dalla rivoluzione sovietica e come conseguenza delle lotte in Europa e negli Usa. Una serie di conquiste delle quali sostanzialmente ha goduto una generazione, due al massimo. Se ciò è vero, si capisce come leggere la precarietà come anomalia sia problematico laddove implica una proposta politica che tende all’esclusiva difesa di conquiste ottenute, che guarda ad un modello in via d’estinzione immaginandolo come “normale” ed eludendo così il tema dei rapporti di forza.
Caduta della middle class e del sindacato
Fatta questa premessa, dicevamo che il termine precariato è arrivato negli Usa solo negli ultimi anni soprattutto sull’onda del successo del libro di Standing. Ed è stato utilizzato in particolare per spiegare la crisi che sta incrinando alcuni degli aspetti caratteristici del sogno americano. Emblematica la drastica diminuzione della mobilità geografica, vero simbolo della società statunitense, e la caduta della fiducia nel sistema. Un interessantissimo articolo del New York Times al riguardo spiega la questione sostenendo che “questa visione pessimistica richiama il concetto che da tempo sta galleggiando sull’Europa: il Precariato […]. Il Precariato Americano sembra rannicchiato, insicuro, non aperto al rischiare, facendo sempre più affidamento sugli amici e sulla famiglia, ma senza nessuna fede nelle possibilità offerte dall’America. Questo fatalismo è storicamente insolito per l’America”. La crisi recente ha chiaramente acuito questo processo. Tuttavia, così come spesso in Italia l’idea di precariato è stata eccessivamente curvata su alcune figure del lavoro vivo tendenzialmente legate ad una classe medio/medio-alta (ossia leggendo la cognitivizzazione come legata ad una sorta di creative class in grado di guidare i nuovi processi di trasformazione), così questa descrizione dell’articolo del NYT è forgiata soprattutto sui giovani della classe media bianca, che al di là dell’enfasi sulla Silicon Valley e sulle startup sta vivendo un profondo processo di caduta verso il basso. Così come in Europa, laddove l’autopercezione sociale negli anni ’80 portava una larghissima fascia di popolazione a definirsi quale “classe media”, oggi questa percentuale è drasticamente ridotta.
Una delle questioni rilevanti è che questa parte sociale, che tradizionalmente ha trovato nell’istituzionalizzazione del sindacato una forma di rappresentanza e di garanzia, ha visto questo strumento organizzativo di fronte ad un tracollo verticale. Oggi meno del 9% dei lavoratori sono sindacalizzati negli Usa (solo il settore pubblico, con più del 35%, mantiene livelli significativi), rispetto al circa 25% di quarant’anni fa. Ma i numeri sono forse anche troppo generosi rispetto al reale potere che ha il sindacato attualmente. Prendendo come indicatore il numero di scioperi susseguitisi dagli anni ’70 ad oggi, si nota una sostanziale scomparsa di questa espressione concreta di forza che il sindacato riesce a mettere in campo. E laddove questi avvengono, sono quasi sempre forme di resistenza di fronte a massicci attacchi padronali, che tra l’altro spesso si concludono in sconfitte. Oltre a ciò, negli anni si sono accumulati strumenti legali che rendono durissima la possibilità di scioperare, e non a caso le ultime forme di lotta dei fast food worker e a Walmart (tra l’altro promosse in primo luogo da worker center -sui quali torneremo dopo- e solo in seguito appoggiate dal sindacato) sono comunque state tendenzialmente eventi brevi e di piccola scala.
I fattori di questo declino sono vari: frazionismo e continue divisioni, enorme burocratizzazione e leadership spesso incapaci da un lato; i processi di globalizzazione (leggi: delocalizzazione, innovazioni tecnologiche ecc…) dall’altro. Ma soprattutto l’ampia implementazione delle politiche neoliberali dagli anni ’70, che tra deregolamentazione, privatizzazioni e austerità ha disintegrato il potere dei sindacati, presentati come freno all’espansione del libero mercato. Queste politiche hanno via via prodotto una sempre crescente massa di precari, ma appunto il sindacato non è stato in grado o non ha voluto intercettarle. Oggi i licenziamenti per chi tenta di organizzarsi sul posto di lavoro, la sistematica violazione delle leggi sul salario minimo, il ricorso ad una mano d’opera di “clandestini”, sono la normalità. Le Union hanno provato a rispondere a questa crisi coinvolgendo, dai primi anni Duemila, molti quadri provenienti dai movimenti sociali, e già da metà anni ’90 John Sweeney (il nuovo segretario dell’AFL-CIO) aveva fatto una chiamata a “organizzare l’inorganizzabile”, ossia le nuove forme di lavoro precario. Questi tentativi condussero alla sperimentazione di nuove tattiche e strategie sindacali, che tuttavia scontrandosi con la pachidermaticità dell’organizzazione condussero ad una scissione che diede vita ad una nuova formazione, Change to Win, anch’essa tuttavia con scarsi risultati.
Di fatto nel Nuovo Millennio i principali sindacati si sono orientati su un sostegno massiccio alle campagne dei Democratici promuovendo il voto per loro, garantendosi in tal maniera una sopravvivenza (come i dati sopra menzionati di sindacalizzazione nel settore pubblico mostrano), ma al prezzo di una ulteriore marginalità politica e di una sostanziale rinuncia agli altri settori di intervento. Inoltre questo ha prodotto una enorme polarizzazione politica, e laddove i repubblicani sono alla guida degli stati ciò ha condotto ad un feroce attacco al sindacato. Basti pensare che in Wisconsin e molti altri stati del Midwest, oltre che in Indiana, sono state approvate dai governatori repubblicani durissime leggi antisindacali per il settore pubblico. Nonostante enormi proteste queste sono passate, e ad esempio nel Wisconsin tra il 2011 e il 2012 la percentuale di iscritti al sindacato nel pubblico è passata da oltre il 50% a poco più del 37%.
Le colpe del sindacato sono dunque tremende, basti solo aggiungere che fino al 2000 molti sindacati erano favorevoli alla restrizione dell’immigrazione, e che solo dopo l’ondata di movimento migrante del 2006 alcuni hanno iniziato a guardare al lavoro migrante. Dunque la classe media in via di impoverimento si trova sprovvista di forme pre-date di organizzazione nonché di una qualsivoglia possibilità di accesso ad una cultura politica critica. Non a caso Occupy, che in particolare laddove è nato (New York) è stato sostanzialmente espressione della classe media bianca, ha mostrato grossi limiti proprio nella capacità di organizzazione e di tenuta.
I worker center
Un aspetto molto interessante, per quanto estremamente percorso da ambivalenze, antinomie, contraddizioni, è quello dei worker center. Un elemento che introduco a questo punto della discussione perché si lega direttamente ai temi sinora discussi: il precariato e l’organizzazione. Ma andiamo con ordine. I worker center sono forme di organizzazione di stampo comunitario lungo linee etniche, razziali e di classe, che sostanzialmente si basano sull’autorganizzazione dei lavoratori poveri o disoccupati. Solitamente lo zoccolo duro di queste forme sociali è composto da numeri non particolarmente numerosi di militanti sociali. Si sviluppano attorno ad un’ampia agenda rivendicativa che spesso ha una prospettiva sia sul locale che sul globale. Si muovono tramite vertenze sui posti di lavoro e campagne di azione diretta (che qui ha un significato molto più ampio di quello che può avere in Italia) contro alcuni datori di lavoro, e con un intervento nel sociale (spesso organizzano corsi di inglese, garantiscono un accesso alla sanità, forme di educazione, formazione, copertura legale, ecc…). Sono in stragrande maggioranza basati sulla difese dei diritti dei migranti, hanno una impostazione ideologica debole, più comunitaria che politica in senso tradizionale.
Nati dunque per organizzare, sostenere e difendere i lavoratori a basso reddito, marginalizzati e migranti come forme alternative al sindacato tradizionale, si concentrano oggi su quello che viene definito appunto “precariat”, con molti parallelismi con le condizioni di lavoro in voga prima del New Deal degli anni ’30, dal quale traggono anche molti strumenti organizzativi. I primi esperimenti sono a fine anni ’80 a New York, che vedremo meglio; in Carolina organizzati dalla comunità nera; e ad El Paso e San Francisco. A metà ’90 c’è un’espansione significativa basata soprattutto sull’immigrazione latina e asiatica, dietro l’impulso di organizzazioni religiose, di avvocati o legate all’assistenza sociale, o a forme sindacali. Dal 2000 ad oggi c’è stata una terza ondata, che si è sviluppata sia nei centri metropolitani che nei suburbs e anche nel lavoro agricolo, sempre centrata soprattutto sui lavoratori migranti (in particolare messicani, africani ed asiatici). Questo movimento si è sviluppato nell’aperto scetticismo se non ostilità dei sindacati, giudizio tra l’altro ricambiato considerandoli anacronistici e non equipaggiati per le nuove forme del lavoro. Mentre continuano a declinare gli iscritti al sindacato, i worker center sono passati da 4 nel ’92 a 137 nel 2003, fino agli oltre 200 attuali.
Vediamo allora alcune storie di New York, che va detto rimane piuttosto anomale nel panorama nazionale. Nonostante anche qui i trend siano comuni al resto del paese, le percentuali di sindacalizzazione risultano quasi doppie. Pur tuttavia negli ultimi anni si è visto un significativo incremento della precarietà, che oltre a colpire l’enorme quantità di migranti che raggiungono la città più aperta alle migrazioni di tutto il mondo, coinvolgono ora anche grossi strati di ceto medio, sempre più costretto a confrontarsi con questa tipologia di lavoro. Tuttavia il livello non drammatico di caduta dei tassi di sindacalizzazione ha indotto il sindacato a non occuparsi affatto del precariato. Un piccolo esempio in controtendenza fu l’eccezione dell’International Ladies’ Garment Workers Union, che già da fine anni ’80 diede vita ad un paio di centri che si possono considerare quali precursori degli attuali worker center, richiamandosi alla storia del “social unionism” (sindacalismo sociale) praticato soprattutto dalla comunità italiana ed ebraica nei primi anni Trenta. Ma il primo vero antecedente è quello della Chinese Staff and Workers’ Association (CSWA), organizzazione di lavoratori della ristorazione fondata in aperto conflitto con il sindacato, mentre l’organizzazione precedentemente menzionata aveva una maggiore internità ad esso. La CSWA “era critica col sindacalismo tradizionale, con la sua natura orientata al business, il suo razzismo e le politiche anti-immigrati, la sua tendenza al compromesso, la sua compromissione con la politica elettoralista ed il suo focus strettamente orientato all’acquisizione di nuovi membri” (Chen, 2003). Questa fu un’importante esperienza di autorganizzazione di mutualismo, che diede vita a lotte sui posti di lavoro ma anche a diverse forme di servizi autogestiti. Molto simile la storia del Workplace Project, basato soprattutto a Long Island, fondato nel 1992. Centrato sui lavoratori giornalieri e domestici, per lo più centroamericani. Anche questa organizzazione rifiutava apertamente le forme di sindacalismo tradizionale, e puntava molto alla formazione di una militanza di base non fornendo servizi (per non trattare i lavoratori come clienti) ma puntando sulla formazione anche attraverso veri e propri corsi sui propri diritti.
Se come abbiamo visto New York ha subito meno che altre città la de-sindacalizzazione (anche grazie ad un sistema produttivo non basato sulla grande industria), molte fasce di lavoro non toccate dal sindacato hanno negli ultimi 20 anni sperimentato forme di organizzazione rifacentisi a questi due modelli. Da metà anni ’90 si sono sviluppate importanti forme di organizzazione di base per quanto riguarda i lavoratori clandestini Latinos, la Union of Needletraders, Industrial and Textile Employees (un successore della ILGWU) ha sviluppato una campagna significativa di lotta dei lavoratori messicani soprattutto nei piccoli alimentari e nei fruttivendoli. Altre significative esperienze sono state quelle dei lavoratori africani delle consegne a domicilio e di quelli sud asiatici come guidatori di auto. Tutte forme sviluppatesi in maniera autonoma e che talvolta hanno ricevuto un appoggio ex post da alcuni sindacati. Queste esperienze ebbero difficoltà a stabilizzarsi, mentre altre lotte, nate anch’esse in forma autonoma e spesso in contrapposizione col sindacato, diedero vita a forme di sindacalismo di base di tipo categoriale a partire dall’organizzazione nei worker center: The Taxi Worker Alliance; Freelancers Union; Domestic Workers United; Make the Road New York… In sostanza si sono strutturate come sindacati di base ma, a differenza degli antecedenti storici sopra descritti, si sono dotate anche di forme di servizi stabili. Sono tutte gestite per lo più da immigrati, e nel tempo hanno sviluppato anche una capacità di condurre campagne pubbliche non solo basate su singole vertenze.
Riflessioni
I worker center, per quanto complessi da categorizzare dal punto di vista politico, sono indubbiamente sperimentazioni interessanti di autorganizzazione sociale con un potenziale di azione crescente. Infatti laddove il sindacato è sempre più impossibilitato a proporre o intraprendere seriamente forme efficaci di sciopero e lotta, i worker center possono agire sui luoghi di lavoro con più libertà, avendo alle spalle anche una strutturazione comunitaria e “territoriale” che consente loro un decisivo sostegno. Non sono chiaramente LA strada da seguire, ma una delle traiettorie da inchiestare. E non è un caso che proprio il sindacato stia ora provando a cooptare molte di queste esperienze. Come per il caso di Occupy, dove se da un lato ci furono interessanti momenti di contatto fra movimento e sindacato, dall’altro per lo più è finita col sindacato che ha bloccato i processi di radicalizzazione de facto depotenziando il movimento, anche rispetto ai worker center la partita probabilmente si gioca sulla loro capacità di mantenere un’autonomia ed eventualmente nell’aver la capacità di usare il sindacato laddove ciò possa essere utile. Una sfida non certo semplice…
A conclusione, va posto un tema veramente difficile da affrontare negli USA, quello delle possibilità e potenzialità di composizione e generalizzazione delle lotte. Anzi il più difficile di fronte alla complessità, frammentarietà ed eterogeneità della società nordamericana. Risulterà evidente infatti come i worker center abbiano un limite difficilmente superabile nell’essere espressioni fortemente legate a singoli settori lavorativi e a specifiche comunità etnico-razziali (cose che nella maggior parte dei casi si sovrappongono). Da un punto di vista di prospettiva ed orizzonte politico è dunque ineludibile riflettere attorno a questo nodo: come possono esperienze simili intrecciarsi con forme differenti? Una suggestione ed un esperimento possibile potrebbe venire proprio da quella caduta delle classi medie col le quali si è aperto l’articolo. Spesso infatti le forme di militanza ed attivismo di queste ultime, tra l’altro piuttosto deboli e rarefatte, si sviluppa in ambiti chiusi ed autoreferenziali, oltre che fortemente ideologizzati. Mentre probabilmente un approccio umile avrebbe molto da apprendere da forme organizzative sviluppate da chi la precarietà la vive da anni come la composizione dei worker center. Questo ovviamente senza nessun pauperismo né per far discorsi teoretici senza appigli col reale. Ma è una traccia di composizione, o quantomeno di potenziale interattivo tra classe media in via di impoverimento e poveri, che potrebbe svilupparsi in seguito ad una dinamica sempre più significativa in una città come New York: i processi di gentrification. Una affermazione che a molti risulterà paradossale o provocatoria. Ma non lo è. Provo a spiegarmi. La superficie e l’innesco che spesso ha il fenomeno in questione è data dal fatto che comunità “creative” (artisti, startupper o simili) si stanziano nei quartieri poveri sfruttandone i bassi costi insediativi, aprendo così la strada e le porte ala speculazione che innalza i costi espellendo conseguentemente le comunità originarie. Ma in termini generali la gentrification è anche un processo di espulsione dai quartieri sempre più ricchi di chi non è più in grado di sostenerne i costi crescenti. Per esempio vivere a Manhattan è ormai inaffrontabile per pezzi consistenti di middle class, che dunque sono costretti a spostarsi (soprattutto i giovani) verso zone più periferiche, innescando appunto una guerra tra impoveriti e poveri per la conquista o il mantenimento di posizioni non troppo periferiche.
Entrambe queste composizioni (al di là degli artisti e affini, verso i quali c’è spesso un odio che porta anche ad affermazioni del tipo “Una volta ci volevano i marines per aprirsi la strada ai quartieri popolari, oggi ci sono loro…”) subiscono una coazione economica, pur chiaramente con effetti differenti viste le differenti posizioni di partenza. Il punto ed il problema politico è che non si sviluppano interazioni fra questi due soggetti. Ma è invece in questa connessione elusa o mancata che potrebbero vedersi inedite combinazioni sovversive. Ed è in questo senso che l’esperienza dei worker center potrebbe insegnare tanto oltre il proprio classico bacino di riferimento avendo le giuste lenti non ideologiche per leggerne le potenzialità, soprattutto nella capacità di territorializzazione dell’intervento politico, che in fondo è una delle risorse decisive dei senza potere…
nc
Per la scrittura di questo articolo mi sono basato su informazioni reperibili in rete ed i seguenti testi:
Chen Pei Yao (2003), The ‘Isolation’ of New York City Chinatown: A Geohistorical Approach to a Chinese Community in the United States. Phd dissertation at CUNY.
Fine Janice (2006), Worker Centers: Organizing Communities at the Edge of the Dream, Cornell University Press, Itaha, NY.
Hollens Mary (september 1994), Workers Center: Organizing in Both the Workplace and Community, Labor Notes.
Ruth Milkman & Ed Ott (eds) (2014), New Labor in New York – Precarious Workers and the Future of the Labor Movement, ILR Press, New York
vedi anche: Una lotta di lavoratori latini nel Bronx
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