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Gilets jaunes: il movimento e la letteralità di un problema

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Riceviamo e pubblichiamo volentieri la traduzione di questo articolo di Alexandre Mendes, pubblicato in Brasile, che ci sembra un utile strumento di discussione sul movimento dei gilet jaunes a partire da uno sguardo “de-centrato”.

Una delle domande che sorgono dal movimento francese di queste settimane è infatti quale tipo di lettura e ipotesi possiamo trarne entro una prospettiva che non si riduca ai suoi perimetri nazionali. In altri testi abbiamo provato a confrontare genealogie, similitudini e differenze con movimenti come quello dei forconi italiani o con quello No Tav, in altri abbiamo proposto di leggere la mobilitazione francese come un rinnovata pratica dello sciopero, logistico e metropolitano, all’altezza dei tempi. In questo senso lo stimolo del documento di Mendes a collocare i gilet jaunes all’interno del tempo della crisi, leggendolo a partire dal 2011-2013, ci pare utile. Viene da chiedersi: siamo di fronte a una “fase due” che potrebbe aprirsi per i movimenti? È possibile agire sulla possibilità di un nuovo “effetto contagio” globale come in quel biennio? O siamo piuttosto di fronte a “qualcosa di nuovo”? Indubbiamente se il 2011-2013 rispondeva alla crisi del 2007-2008, pur in forme ovviamente eterogenee e cangianti a seconda del contesto, criticando o abbattendo regimi storici o ipotesi per lo più social-democratiche che di lì a poco, come risposta, avrebbero virato in strette di austerità, il movimento francese pare collocarsi dentro una nuova curvatura della crisi globale, quella cosiddetta “populista”, proprio nel punto paradossalmente “più indietro”, con quel Macron (un Renzi fuori tempo massimo) che incarnava la speranza di tenuta politico-sociale di fronte alla fine conclamata dei corpi intermedi e all’ormai da tempo avvenuta fine del “ceto medio”, o, meglio, potremmo alquatianamente dire al ridefinirsi di un neo (iper-) proletariato del tempo della crisi.

A partire da questi temi, dobbiamo anche dire che non condividiamo tutti i passaggi di questo articolo. Non riteniamo in particolare che l’uso dell’immagine dell’impollinazione sia strumento analitico adeguato per catturare la logistica delle lotte espressasi in Francia, e che alcuni tratti dell’argomentazione rischino di essere più dei desiderata che delle concrete possibilità che abbiamo di fronte. Ciò non toglie che in questo momento sia importante procedere in una discussione politica disintossicata e che possa “allargare lo sguardo”. Buona lettura.

 

 

1) Gilets jaunes: qualcosa di diverso

 Di tutte le frasi che hanno attirato la mia attenzione, nella protesta di sabato, quella che più mi ha colpito è stata quella di un giornalista che dopo aver condotto un confuso dibattito in televisione sui gilet jaunes, quasi rassegnato, ha riconosciuto: «ok, ok, ma quel che è certo è che abbiamo appena vissuto, l’8 dicembre 2018 [sottolinea la data], una cosa molto diversa a Parigi, davvero molto diversa». Questa osservazione ha fatto eco ad altri due commenti che ho sentito tra il via vai di quasi otto ore di protesta in strada, in una città totalmente trasformata dall’interruzione di tutte le sue attività e dalla presenza colossale delle forze di sicurezza.

La prima testimonianza, di un giovane francese che ci ha accompagnato durante il cammino, celebrava l’inedita adesione della sua famiglia, originaria di una delle città più povere del nord della Francia, a una mobilitazione politica: «Sono molto orgoglioso di loro, sono tutti col gilet giallo, mi sento orgoglioso», ha detto. La seconda, frutto di un dibattito estemporaneo iniziato con una semplice richiesta di informazioni («vieni da Place de la République?»), è stata un vero e proprio apprendistato all’aria aperta. Un uomo di circa 60 anni, residente di una banlieue parigina, lavoratore della metropolitana in pensione e sposato con una cameriera filippina, ha illustrato in un unico discorso senza pause tutte le ragioni della sua presenza nelle proteste dei gilet jaunes:

«Sono stanco di vedere la mia pensione restringersi sempre più, sono stanco di dover restituire metà di quello che guadagno allo Stato, mia moglie è andata a cercare un appartamento di 10 metri quadri a Parigi e non ha potuto continuare a causa del prezzo, dei costi dei dossier amministrativi e di tutti i requisiti, è pazzesco. Non resta quasi più niente alla fine del mese. A scuola sono stato educato a dover abbassare la testa, poi al lavoro con le minacce del capo, ora è il governo che impone tutte le misure come se dovessimo accettare tutto in silenzio. Non sono d’accordo con quello [indicando il fuoco in mezzo alla strada], ma la cosa importante è che stiamo equilibrando la paura. Basta sentir paura da solo, ora anche loro dovranno sentir paura.»

Nelle due testimonianze, l’esempio vivente di ciò che il conduttore televisivo percepiva come l’emergere di qualcosa di diverso. Non capita tutti i giorni che famiglie di piccole città dell’interno del paese, senza alcun precedente storico “militante”, decidano di indossare un giubbotto giallo e trascorrere giornate accampate a una rotonda ai margini della strada generando una mobilitazione nazionale. Non capita tutti i giorni che un pensionato lasci la banlieue per protestare per ore su strade battute da fuochi e barricate, affermando che non se ne andrà finché la paura non sarà almeno “equilibrata”. Non capita tutti i giorni che una città come Parigi sia completamente chiusa (negozi, metropolitana, musei, biblioteche e grandi attrazioni turistiche) per lasciare il posto al movimento incessante di piccoli gruppi di gilets jaunes in dribling permanente contro le forze dell’ordine.

 

2) Impollinazione gilet jaunes e l’enigma della protezione sociale

 L’irruzione di qualcosa di diverso deve essere compresa nella sua rarità. Contro tutti i pubblici ministeri della normalità mondiale che fin dall’inizio hanno osato dire che il movimento sarebbe diminuito col tempo, che era opportunista, falso nelle sue rivendicazioni, oltre che razzista, maschilista ed anti-ecologico, i gilet jaunes hanno aperto una frattura ineludibile. La presa dell’Arco di Trionfo, contro la forte reazione della polizia e le ferme determinazioni di palazzo, è stata la sintesi simbolica di un movimento che ha conquistato il diritto di porre un problema il cui enigma non sembra in grado di risolvere nessuno.

La difficoltà dell’enigma, tuttavia, non si trova nel carattere indecifrabile del problema che viene posto. Non c’è nulla che sfugge ai nostri occhi, alcunché di occulto, come insistono tutte le versioni cospirative e paranoiche del mercato globale del panico. Ciò che ci interpella è una letteralità brutale: i gilet gialli indicano un allarme legato alla sicurezza nella circolazione e alla necessità di raddoppiare la nostra attenzione in situazioni che possono avere gravi conseguenze per la vita. Il messaggio è chiaro e diretto: come produrre una nuova sicurezza sociale in un mondo che intensifica e governa la circolazione a partire dalla gestione di una crisi permanente?

Non è un caso che nel recente elenco di rivendicazioni della delegazione ricevuta dal governo (elaborate nella tradizione dei cahiers de doléances) ci siano richieste relative alla valorizzazione della sicurezza sociale, del salario minimo, della pensione, dell’uguaglianza fiscale, di una “nuova era” di politiche di welfare per gli anziani; una soluzione per l’indebitamento sociale dei più poveri, inclusa la fine delle politiche di austerità e la lotta alla frode fiscale; la richiesta di affrontare l’aumento del costo della vita, con l’interruzione dell’aumento dei prezzi di affitto, delle tariffe dei servizi essenziali privatizzati (gas, elettricità, ecc.), dei carburanti, della deviazione dei proventi dei pedaggi e degli oneri per i piccoli commercianti; la necessità di un trattamento dignitoso dei richiedenti asilo e l’apertura di centri di accoglienza in vari paesi per far fronte ai nuovi flussi migratori, ecc.

L’insieme di queste rivendicazioni, articolandosi alla mobilitazione semi-insurrezionale, indica non solo che il movimento è riuscito a rafforzare la prevalenza delle richieste sociali di fronte alle pressioni più nazionaliste – che appaiono ancora nelle rivendicazioni legate alle politiche di integrazione degli stranieri o tentativi di bloccare la delocalizzazione industriale –, ma che punta al centro della dimensione politica del problema: come sfidare l’attuale consorzio pubblico-privato, vale a dire il governo della globalizzazione forgiata dagli anni ’90, attraverso un movimento reale di valorizzazione della vita e della cooperazione sociale? Come lottare per la vita all’interno dei flussi stessi della mondializzazione, e non a partire dall’idealizzazione di una via di uscita utopica o dalla falsa protezione di una trincea difensiva?

É qui è che possiamo estrarre la seconda letteralità del movimento. I gilet gialli attraversano lo spazio della circolazione (dalle strade ai social network) come un vero sciame di api, un vortice in più direzioni che impollina un territorio in continua espansione. La letteralità qui non riguarda le domande oziose sul livello di “coscienza” del movimento e l’effettivo “progetto” dietro le rivendicazioni, ma la corporeità e l’intensità dell’atto stesso di fare sciame. Pertanto, per impollinazione non ci riferiamo a una semplice metafora o a uno stile di linguaggio, ma a un processo reale, collettivo e involontario (indipendente dalle “coscienze”), che ha tre caratteristiche:

In primo luogo, il superamento della prima fase delle insurrezioni della Primavera Araba, il cui impasse si è dato tra la dinamica territoriale di occupazione delle piazze e delle proteste di strada, da un lato, e il sostegno generale basato sulla cittadinanza diffusa, dall’altro. Entrambi mediati dalle dinamiche dei social network. Nel diffondere le occupazioni nella direzione del terreno radicalmente mobile della stessa logistica e della circolazione (ogni rotonda diventando una piccola occupazione, ogni convoglio una protesta non limitata alla velocità dei piedi), i gilet gialli mobilitano direttamente l’attivismo della gente comune, creando una risonanza più vivace tra occupazioni, proteste e reti sociali. Così, creano anche condizioni favorevoli (non sappiamo fino a quando) per evitare le trappole sedentarie del potere (inversione dell’opinione pubblica, assembleismo ossessivo, assedio da parte della polizia e formazione di bolle digitali).

In secondo luogo, indica che il terreno per la reinvenzione e l’espansione della protezione sociale, oltre ai meccanismi esistenti basati sulla relazione salariale (in crisi), deve tener conto “del calcolo della ricchezza delle esternalità positive che derivano dall’impollinazione” [Cfr. Moulier-Boutang, “Pour un revenu d’esistenza de pollinisation contributive”, Multitudes, 2016]. Cioè, una sorta di remunerazione garantita che considera le mutazioni del lavoro contemporaneo (l’intensificazione e la precarizzazione) e sottolinea l’esigenza imprescindibile di dirigere alla protezione sociale una parte dell’enorme flusso di denaro che circola nelle transazioni monetarie e finanziarie a livello globale (ad esempio, attraverso una “tassa polline”, seguendo la proposta di Moulier-Boutang). Così, le grandi fortune possono essere concepite al di là della vecchia visione del mero stock individuale ed essere considerate nel loro movimento globale, e devono in tal modo entrare nei calcoli del finanziamento dei diritti sociali.

In terzo luogo, l’impollinazione è un’opportunità per mantenere il processo di rivolta fiscale in discussione permanente, evitando la sua cattura da parte dell’opportunismo populista o avanguardista. Così, l’appello degli “stati generali” da parte dei gilet gialli che ricorre nuovamente all’immaginario della Rivoluzione francese, è l’invito a un’ampia mobilitazione attorno al dibattito sulle alternative di protezione sociale di fronte alla doppia crisi neoliberale e keynesiana. Ciò può rompere la falsa contraddizione tra il sociale e l’ecologico, il sociale e il politico, e consentire che le diverse prospettive si incrocino in uno spazio democratico. In questo senso, l’impollinazione si oppone alla politicizzazione – nel senso volgare del termine, ossia quello di “disputare” o “egemonizzare” il campo politico. La decisione di sostenere o meno i gilet gialli, dilemma iniziale nella sinistra francese, sarà meramente formale se non metterà in discussione i modi di fare politica a partire dai punti di vista lanciati dal movimento stesso – ad esempio, la caratterizzazione del movimento come “apolitico” che genera così tanti traumi all’interno dell’attivismo dogmatico, deve essere preso nella sua dimensione positiva, come rifiuto di seguire le formule di gestione della crisi finora fallite.

 

3) Brasile e Francia: tempi sovrapposti

 È curioso seguire le proteste in Francia dopo aver vissuto il processo di deterioramento politico e soggettivo prodotto negli ultimi cinque anni dalle reazioni alle insurrezioni del Giugno 2013 [in Brasile, ndt]. Da un lato, il reincontro con l’allegria di assistere a una democrazia viva che irrompe nelle strade contro tutti i consensi. Dall’altro, il constatare che l’ingenuità del 2013 è stata lasciata alle spalle, dando luogo a una certa gravità che impedisce la ripetizione dell’esperienza originale. Per non cadere nel fatalismo o in qualsiasi altro determinismo, bisogna cercare di comprendere come l’emergere di qualcosa di differente può rompere la semplice ripetizione dello stesso. In questo senso, tra le due insurrezioni può essere fatto un interessante scambio di punti di vista: il Brasile anticipando possibili fallimenti dei gilet gialli, la Francia dando continuità a un processo che in Brasile finisce con l’essere fortemente catturato da un arcaismo schiacciante.

Si possono trarre due lezioni dall’esperienza brasiliana. In primo luogo, i tentativi di fuoriuscita “dall’alto” dalle dinamiche della globalizzazione e della finanziarizzazione, e una svolta populista in politica, hanno effetti disastrosi e gravi che aprono il cammino a un degrado generalizzato il cui esito è la vittoria dell’estrema destra. In Brasile, molto prima che il populismo politico-economico diventasse oggetto di dibattito in tutto il mondo (con la Brexit e Trump), il tentativo di una svolta sviluppista e sovranista del 2008 ha spinto il paese in una crisi senza precedenti, aggravata dal soffocamento sistematico delle mobilitazioni che avrebbero potuto aiutare a rianimare la democrazia. Quindi, in secondo luogo, di fronte alla crisi globale della sicurezza sociale, l’unico modo per evitare le scorciatoie populiste, consiste nel mantenere un processo di mobilitazione sociale sempre aperto e relativamente autonomo rispetto alle macchine elettorali e di produzione del consenso – apparati di potere che in Brasile hanno distrutto, non sappiamo ancora se completamente, la ricchezza di Giugno: prima la sinistra, poi l’estrema destra.

In relazione alle esperienze di lotta che hanno avuto luogo in altri paesi nel contesto della Primavera Araba, la Francia sta vivendo un interessante divario. Mentre le occupazioni delle piazze proliferavano nel 2011, la Nuit Debout (l’occupazione in Place de la Republique) appare solo nel 2016, ma senza essere in grado di superare le trappole dell’assembleismo e del localismo; inoltre, le dinamiche di protesta con un carattere destituente (esigendo il rovesciamento del governo) appaiono solo ora, con il grido “Macron démission” e per lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale. Tuttavia, anche con il loro relativo “ritardo”, le lotte francesi rivelano aspetti di ciò che potremmo chiamare una seconda fase della Primavera Araba.

In questo senso, la Nuit Debout era ben lontana dal radicalizzare le esperienze dei paesi arabi, della Turchia, della Spagna, del Giugno brasiliano, ecc. È sorta a partire da questioni direttamente legate al “mondo del lavoro” (in particolare l’approfondimento della precarietà) e a una dimensione soggettiva che oggi è uno dei terreni più importanti di confronto. Nel lottare contro la paura generalizzata provocata dall’insicurezza sociale, dalla paralisi di fronte agli attentati di Parigi e dallo stato di emergenza, l’occupazione francese ha indicato un legame che si pone al centro dei conflitti contemporanei.

Questo ispido filo conduttore – la relazione tra la gestione delle crisi, il lavoro precario e la produzione della paura – finisce con l’essere recuperato e lanciato come un problema trasversale che sfida tutta la società francese, e quindi la sensazione di malessere. Come abbiamo visto, due aspetti sono stati fondamentali per questo movimento: in primo luogo, la generalizzazione del problema nella direzione del campo della stessa circolazione (dove il carattere impollinatore del lavoro contemporaneo è più evidente); in secondo luogo, l’apertura di una grande discussione sui meccanismi di finanziamento e alimentazione, attraverso l’appropriazione della ricchezza collettiva, del consorzio pubblico-privato e del suo patto inter-elite (difeso con la massima intransigenza da Macron).

È qui che il movimento francese conferma la dimensione globale della recente lotta dei camionisti in Brasile – anch’esso per la sicurezza sociale e contro il pagamento della crisi – e allo stesso modo, tocca il punto più delicato del processo brasiliano. Come vincere la paura e la paranoia collettiva dopo cinque anni di guerra psicologica operata da macchine elettorali e da stili di militanza caduti nel fanatismo? Come si darà la riorganizzazione del patto pubblico-privato in una nuova governance militare-ultraliberale nato tra le macerie del ciclo del 1988? Come trovare quella lucidità leggera del pensionato della metropolitana parigina che ci ha ricordato che la cosa più importante, prima di tutto, è “bilanciare meglio” la paura?

È nel mosaico di queste reciproche anticipazioni e tendenze che mescolano la vecchia relazione centro-periferia e l’idea stessa di un tempo lineare governato dal futuro, che può avvenire l’opportunità degli “stati generali”. Non solo come un’assemblea consultiva all’interno di una sovranità in crisi, ma come un processo di sperimentazione e condivisione di lotte dinnanzi a uno stesso dilemma globale.

 

Traduzione a cura di Giuseppe Orlandini

 

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