Hebron, Palestina: il cuore dell’ingiustizia
Attraversiamo strade brulicanti di vita, e più ci avviciniamo alle porte del mercato, più l’aria è caotica e viva. Arrivati davanti alla porta che si affaccia sul mercato, Bassam ci spiega quello è il limite tra area A e area C. Dopo gli accordi di Oslo del 1993, infatti, le terre palestinesi vennero divise in tre differenti aree: area A, sotto il formale controllo palestinese (sul piano amministrativo e della sicurezza); area B, sotto il controllo amministrativo palestinese ma, sotto il profilo militare, israeliano; e area C, sotto totale controllo israeliano. La particolarità di Hebron è che è essa stessa divisa tra zone A e C, contenendo linee invisibili che prendono forma nell’area attorno e dentro la città vecchia. Non basta: la definizione di “zona sotto controllo militare” del centro storico è dovuta ad una delle politiche più assurde che, a causa dell’ideologia, vengono portate avanti: dopo l’occupazione israeliana del 1967 decine di coloni hanno occupato gli edifici del centro storico, sbattendo fuori i palestinesi che ci abitavano con l’appoggio dello stato israeliano.
Hebron è divenuta così una città in cui la religione e il riferimento al sacro (ad esempio la Tomba dei Patriarchi che vi è situata, sacra tanto agli ebrei, quanto ai cristiani e ai musulmani) sono usati da una potenza militare per colonizzare non soltanto la provincia e le aree circostanti la città (come avviene in tutta la Cisgiordania), ma il centro urbano stesso nel suo cuore più vissuto e antico, provocando una tensione e una situazione di odio che sovrappone all’ingiustizia dell’occupazione la realtà assurda della colonizzazione e della sua violenza. Ad una prima occhiata, il quartiere a ridosso della città vecchia sembra attraversato da un mercato qualunque. I negozianti ci danno il benvenuto, mostrano la loro merce ed ci invitano ad entrare nei loro negozi. Basta alzare lo sguardo, però, per vedere il primo orrore: una gigante rete posta sopra la via che copre tutto il mercato.
Bassam ci spiega che serve a proteggere i negozianti dalla spazzatura che viene tirata dai coloni, che si sono installati ai piani alti delle abitazioni dei palestinesi, dalle finestre; spesso non è solo la spazzatura, dall’alto arrivano sputi e in certi casi proiettili tirati dai coloni armati che sparano dalle finestre sulla folla. Spesso, inoltre, il sabato i coloni sfilano nel mercato arabo scorati da centinaia di soldati per provocare la popolazione palestinese e rivendicare assurdamente la proprietà di quelle strade. I coloni che attualmente vivono ad Hebron sono 500, mentre i palestinesi sono oltre 200.000. Continuando a camminare verso il cuore del centro storico, notiamo che molti negozi sono chiusi e che, più si va avanti, più è raro trovare un negozio aperto. “Questi negozi – dice Bassam – sono stati chiusi su ordine dell’esercito israeliano”. Più ci avviciniamo alla Moschea di Ibrahim, più il chiasso caotico del mercato si trasforma in un silenzio assordante. I passanti si fanno sempre più diradati, i negozi aperti sempre più rari, le grate contornate di filo spinato incombono in modo sempre più soffocante sopra e ai lati delle vie.
Una targa affissa sul muro ricorda un colono ucciso alcuni anni fa, menzionando come causa della sua morte la “violenza araba”. Bassam sottolinea come l’aggettivo “arabo” sia utilizzato in questo contesto come termine dispregiativo, con intenzione razzista. Ci racconta inoltre che il negozio davanti alla targa è stato fatto chiudere dai soldati che per due mesi hanno torturato il proprietario per ottenere da lui informazioni sull’episodio. A poche decine di metri dalla moschea si avvicina un ragazzo di diciassette anni, che ci racconta dell’uccisione di una sua amica di quindici anni proprio sotto il luogo sacro, appena due ora prima, da parte di un soldato israeliano. Decide di accompagnarci per un pezzo di strada e ci racconta un po’ la sua storia. E’ nato e vive a Hebron da sempre, e riferisce di una situazione terribile; quando gli esprimiamo il nostro dispiacere per l’accaduto di poche ore prima, risponde: “Tranquilli, è normale, succede spesso qui…”
Ci accorgiamo che in alcune parti della via cammina rasente i muri, e quando ci mostra poi le torrette dei soldati israeliani che si affacciano sulla via ne capiamo il motivo. Quasi arrivati al primo check point superiamo una rete rotta al lato della strada e ci viene mostrato uno dei tanti edifici fatti chiudere dai militari, circondato da due torrette, ora divenuto scuola ebraica (diverse scuole islamiche sono state invece confiscate dall’esercito nella stessa area). Bassam dice al ragazzo di spostarsi da li, ma lui scuote la testa e tira giù la zip della felpa, facendo intravedere delle protezioni che gli coprono il petto. Arrivati a pochi metri dal check point si ferma, sorride e ci saluta. Bassam gli propone di entrare con noi, ma lui con un mezzo sorriso dice: “Meglio di no, mi ucciderebbero perché sono parente della ragazza che hanno ucciso oggi”.
I soldati imbracciano i fucili e guardano nella nostra direzione. Bassem alza la mano in un gesto eloquente, come a dire che non è venuto qui per aggredirli. Le porte automatiche si aprono, passiamo attraverso due tornelli arrugginiti. Passato il posto di blocco ci troviamo davanti ad una strada che separa la parte dove vivono i coloni da quella ancora abitata dai palestinesi, completamente deserta. In strada ci sono solo bambini palestinesi che vendono braccialetti o chiedono monetine con i segni della miseria e di violenze fisiche sul volto, e postazioni di soldati ogni 50 metri. Al secondo check point, di fronte al metal detector, un soldato chiede se la nostra inviata ha addosso un coltello: la stessa frase che qualche settimana prima era stata fatta ad una ragazza di Hebron ad un check point poco distante, con l’unica differenza che, a lei, la domanda era stata rivolta in ebraico, e la ragazza non capendo è rimasta ferma in silenzio: il poliziotto ha aperto il fuoco, uccidendola. (Le dichiarazioni successivo sull’accaduto sono state che la ragazza è stata uccisa perché in possesso di un coltello).
Entriamo nella moschea, realizzata dai musulmani dopo la conquista araba di Hebron nel VII secolo, sulle vestigia della precedente chiesa, che a sua volta era testimonianza della dominazione cristiana, in tarda età imperiale romana, su un sito che, prima della conquista romana della Palestina antica, era la Tomba dei Patriarchi, un sito religioso ebraico. Accanto alla moschea c’è una sinagoga risalente all’età cristiana, che i musulmani lasciarono intatta quando la chiesa dei Patriarchi fu trasformata in moschea. Questa complessa eredità architettonica del sito è dovuta al fatto che tanto Abramo quanto Isacco, qui sepolti, sono profeti di eccezionale importanza per tutte e tre le grandi religioni monoteiste. Dopo l’occupazione israeliana di Hebron, nel 1967, oltre alla sinagoga due terzi della moschea sono stati riservati all’ingresso di sole persone di religione ebraica, mentre un terzo è rimasto a disposizione di musulmani, cristiani e visitatori di altro genere. Per dieci giorni all’anno, la parte musulmana della moschea viene in ogni caso riservata alle visiyte dei coloni e bandita a tutti gli altri (non di rado i giorni diventano, all’anno, anche di più).
Bassam ci mostra i segni dei proiettili ancora visibili sulle mura della parte musulmana della moschea: recano memoria della strage avvenuta nel 1994, quando un colono entrò all’interno, aprì il fuoco contro i musulmani riuniti in preghiera uccidendo 29 arabi e ferendone circa 150 (ne risultò una rivolta in cui sia lui che altri cinque coloni vennero linciati dalla folla e decine di palestinesi vennero uccisi negli scontri dall’esercito israeliano). Molti coloni israeliani onorano ancora oggi lo stragista come un esempio e un martire, celebrando con visite alla sua tomba l’ammirazione che provano per il suo operato.
Usciti dalla moschea, ci incamminiamo sulla strada deserta, ogni 50 metri ci sono postazioni di 3-4 soldati. Ci fa notare Bassam che a terra, sul cemento, c’è una linea e ci racconta che fino a pochi anni prima li era stato costruito un muro che divideva la strada in due parti: due terzi per i coloni , e un terzo per i palestinesi. Arrivati alla fine della strada , dove l’accesso è vietato per palestinesi e turisti, facciamo delle foto per documentare le condizioni delle case e i posti di blocco dove i soldati mangiano e ridono mentre imbracciano i loro fucili, a poche ore dall’uccisione, proprio lì, della ragazzina di quindici anni. Mentre ce ne andiamo uno di questi soldati ci chiama chiedendo di fermarci. Ci chiede il passaporto, che cosa facciamo li. Finge di guardare i passaporti e sogghignando ci guarda ed esclama : ”Welcome to Israel!”.
Hebron, anche sotto il profilo del diritto internazionale, è territorio palestinese. Per la stessa legge israeliana Hebron non è Israele, ma territorio occupato. Sebbene tutte queste leggi e distinzioni non interessino (giustamente) alla popolazione di Hebron, che ritiene di abitare semplicemente la Palestina, è interessante notare che una pretesa teoricamente avanzata soltanto dai coloni, spesso bollati ipocritamente come “estremisti” dal governo israeliano (ma supportati e difesi da sempre dall’esercito) sia pienamente fatta propria anche dai soldati di guardia ai siti sacri: ulteriore dimostrazione della falsità della contrapposizione fittizia tra una “destra” sionista che appoggia le colonizzazione e una “sinistra” sionista che sarebbe disponibile a cessarla; esiste soltanto un’ideologia malata nei suoi presupposti intimamente coloniali, che mette presunti diritti “storici” (o “divini”) di un “popolo” sopra quelli degli “altri”. D’altra parte, non abbiamo potuto fare a meno di chiederci: quale istituzione, che non fosse marcia nel profondo, potrebbe dare il benvenuto senza vergogna in un luogo dove è riuscita a creare una situazione simile?
dai corrispondenti di Infoaut e Radio Onda d’Urto a Hebron, 18 Febbraio 2016
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