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I Balcani sono il nuovo Maghreb?

 

 

I Balcani sono il nuovo Maghreb?

di Srecko Horvat e Igor Stiks

Nel solco delle trasformazioni politiche in corso nel Medio–Oriente, i Balcani si stano surriscaldando. Solamente sei giorni dopo l’immolazione di Mohamed Bouazizi a Sidi Bouzid, il quarantunenne ingegnere televisivo Adrian Sobar ha provato a suicidarsi durante il discorso del Primo Ministro rumeno al Parlamento, buttandosi da una gradinata, vestendo una t-shirt con su scritto “Avete ucciso il futuro dei nostri figli! Ci avete venduti!” (1) ,
Stava protestando generalmente non solo contro i pesanti tagli (i salari del settore pubblico sono stati ridotti di un quarto e le imposizioni sui prodotti commerciali sono salite dal 19% al 24%),ma in particolare contro coloro che avevano ridotto i contributi alle famiglie con figli disabili come la sua.
Sin dall’inizio del 2011 la Romania ha visto una serie di grosse proteste contro l’approvazione delle misure di austerity dell’ FMI e la nuova legge sul lavoro. A febbraio c’è stato conflitto sociale in Albania tra il governo e l’opposizione che ha lasciato tre morti nelle strade di Tirana in un mese.
Alla fine di Febbraio proteste di massa sono scoppiate anche in Croazia. Da allora la popolazione è scesa puntualmente in strada a Zagabria come nelle altre città maggiori. Queste proteste sono rimbalzate lungo la vecchia Yugoslavia con manifestazioni organizzate sia in Serbia che in Bosnia che hanno mostrato rivendicazioni simili.
Questi avvenimenti hanno ricevuto scarsa attenzione dai media mainstream internazionali. Per Slavoj Žižek, inoltre, gli eventi in Croazia alludono al lungamente atteso risveglio dell’Europa dell’Est e offrono un esempio prontamente rilanciato in altri paesi. (2).
Oltretutto, Julian Assange ha recentemente annunciato che le rivelazioni di Wikileaks riguardo il Sud-Est europeo che la sua organizzazione ha tentato di portare alla luce potrebbero causare sollevazioni simili a quelle in Maghreb ed in Medio Oriente. (3)
Che cosa sta succedendo attualmente nei Balcani? Se c’è un influenza della Primavera Araba nelle attuali proteste, dove può essere rintracciata? Possiamo, oltre le ovvie differenze, riconoscere dei tratti comuni? Che cosa si sta veramente covando dietro a queste espressioni di collera, e che tipo di richieste vengono protratte?
Questi eventi, secondo noi, non possono essere colti appieno senza una analisi dei ventennali esperimenti politici, sociali e di strutturazione economica della Transizione. Le loro conseguenze ora sono tragicamente ovvie negli attuali Balcani post-socialisti. Le condizioni di questa regione, comprendente oltre 60 milioni di persone, ci hanno spinto a interrogarci sull’intera narrazione teleologica della Transizione e il suo substrato ideologico politico ed economico. In questa colossale trasformazione con relative ed enormi conseguenze socio-economiche,il ruolo di leader è spettato all’ Unione Europea. Questo enorme intento dai tratti neocoloniali è oggi in profonda crisi lungo tutta la regione balcanica. Per comprendere tale crisi e le sue possibili ramificazioni, bisogna tener conto dell’ampio spettro di meccanismi usati dall’UE per pacificare, stabilizzare e incorporare (senza per questo necessariamente integrare) i Balcani. Di fatto la UE ha sperimentato in maniera capillarmente estesa il suo “transformative power”, producendo spesso molti risultati inaspettati.
In questa analisi diamo una panoramica delle BalkanPolitik dell’ Unione Europea. Il caso della Croazia da questo punto di vista appare più che mai sintomatico e le proteste che stanno agitando il futuro “28° membro dell’Unione” sono esemplificative dello stato d’animo generale dei Balcani post-socialisti, attraendo la nostra attenzione lì più di ogni altra cosa. Un movimento completamente innovativo e originale di Sinistra è sbocciato come avanguardia delle proteste, talora caotiche, senza avere paragoni nel restante Est-Europa, dove la sinistra combatte ancora con l’ “onta” politica del post-1989; movimento che ha tratto nuove energie e metodologie da altre forme di sovversione del nostro tempo.

 

BENVENUTI NEL DESERTO DELLA TRANSIZIONE


All’ inizio delle proteste in Croazia, il primo ministro dell’Interno Tomislav Karamarkp ha descritto i manifestanti come degli “Indiani”, nel senso degli Indiani nativo-americani. Questa affermazione aveva lo scopo di sminuire le proteste descrivendole come dei carnevali colorati di attori politicamente irrilevanti. Questa specie di sogno freudiano non solo si è ritorto contro lo stesso Ministro – i manifestanti hanno deturnato l’ offesa in un’arma satirica contro il governo, tant’è che molto dopo si è cominciato a parlare di “indian revolution”- ma ha pure disvelato l’essenza dell’ Est-Europa e in particolare della demagogia nei Balcani di oggi.
A dispetto delle promesse democratiche del 1989 e l’arrivo della “Fine della Storia”, i cittadini post-socialisti, questi “Indiani” dell’ “Est Selvaggio” oggi si sentono largamente esclusi da ogni processo decisionale: la maggiorparte delle elezioni si sono convertite in nulla più che un rimescolamento delle stesse oligarchie politiche, senza valide differenze nei programmi politici né nella retorica. In molti hanno perso lavoro (durante le “campagne” di privatizzazione), o hanno visto peggiorare le proprie condizioni lavorative, o le proprie pensioni andare in fumo; la maggiorparte dei servizi sociali garantiti (come l’educazione e la sanità gratuite) sono progressivamente scomparsi. In più, i cittadini sono altamente indebitati, depositando denaro in banche straniere che si sono diffuse lungo tutti i Balcani e che controllano l’intero settore finanziario [4].
Dopo la serie di guerre devastanti lungo la vecchia Yugoslavia che hanno provocato 130 mila morti ufficiali, la “promessa democratica” non è stata mantenuta per la seconda volta, dopo la fine dell’autoritarismo di Slobodan Milosevic e Franjo Tudjiman nel 2000. L’ultima decade ha aggiunto un ulteriore ondata di impoverimento, agita stavolta dalle élites “euro-compatibili” pronte a implementare ulteriori riforme neoliberali dipinte come componente necessaria nel processo di annessione alla UE.
Dopo il 1989, lo smantellamento di ciò che rimaneva dello stato socialista fu legittimato dalla richiesta di una rapida riduzione dell’onnipresente (e in alcuni casi totalitario) apparato statale. Questo processo ha implicato solitamente lo smantellamento delle reti sociali esistenti per fare posto a privatizzazioni (che molto spesso non si rivelavano nient’altro se non una depredazione dei flussi sociali e statali) o alla corruzione completa di quanto rimaneva dell’apparato.
Il risultato finale è stato una catena di ciò che oggi viene chiamato “stato debole”. La UE, insieme a numerose organizzazioni internazionali come il WTO e l’FMI, ha favorito il paradigma neoliberale della privatizzazione, deregolamentazione, e un libero mercato con uno stato ai minimi termini. Queste autorità internazionali sono servite, a loro volta, come enti esterni di legittimazione per le politiche locali coinvolte nel progetto predatorio di estrarre valore dalle risorse statali esistenti o in generale predando la ricchezza sociale prodotta dai cittadini. Quando la transizione è scivolata man mano in una guerra, l’estrazione della ricchezza sociale ha incontrato una seppur flebile resistenza. Il discorso nazionalista ha aiutato le élites locali a direzionare i capitali sociali o statali in mani private – proprie o di loro fidati – dando a questi un netto vantaggio economico, politico e sociale al cessare delle ostilità. Quando il fuoco finalmente terminò, i cittadini si sono ritrovati non solo in paesi devastati, ma anche con le tasche vuote e senza la vecchia rete sociale di riferimento. Investigando nella totalità del contesto, il legame tra le ex-istituzioni “sovietiche” e la “questione nazionale” si ripropone pericolosamente, come esemplificato nella vecchia Yugoslavia e in alcune parti dell’ex Unione Sovietica quali la Cecenia, la Georgia, l’Armenia, l’Azerbaijan e la Moldavia. In pratica ciò significa trasformare e istituzionalizzare gruppi etnici-nazionalisti in competitori tra loro, con le élites predatorie che vengono agevolate nel controllare masse e risorse il più possibile in modo da acquisire una posizione quantomai migliore dentro il “gioco della transizione”.

La storia dei “conflitti etnici” inziati con l’incorporazione dell’Europa dell’Est in una economia capitalista dominatrice occidentale che ha attivato dispositivi istituzionali etnico-territotiali già esistenti, è lungi dall’essere conclusa. Di fatto, ci siamo concentrati spesso sul leggere le conseguenze dell’integrazione senza chiederci in che modo gli imprenditori politici locali hanno visto la relazione tra i propri territori e lo sfruttamento economico e l’intercambio con l’Occidente. Se le politiche etniche sono diventate le uniche credibili nonchè l’unica via possibile per accaparrarsi maggior potere, non è sorprendente che nell’ambiente multi-etnico delle vecchie federazioni socialiste le élite stesse abbiano agito i conflitti “inter-etnici” come conseguenza dovuta.

Il processo di modificazione dei vecchi stati socialisti in democrazie liberali ed economie di libero-mercato (apparentemente i pilastri inseparabili della nuova epoca) è stato chiamato “Transizione”, portando nel discorso pubblico e politico la connotazione quasi biblica di accesso alla “terra promessa” dopo quattro decenni di supposta schiavitù.. Nonostante le pratiche della democrazia liberale siano state introdotte immediatamente dopo il 1989 e le politiche di libero mercato nei primi del ’90, la Transizione è diventata un processo senza fine.. La sua “varietà” ha prodotto una enorme quantità di lavori intellettuali; e ancora oggi, venti anni dopo, sentiamo dire che la Transizione non è finita. Il sogno nel deserto sembra non concludersi..

A dispetto della retorica dell’incompletezza (simile alla retorica dell’incompleta modernizzazione del Terzo mondo), possiamo osservare che il libero mercato domina indiscusso; l’Europa dell’est post-socialista è pienamente incorporata dentro il mondo capitalista con un ruolo semi-periferico. In pratica ciò significa la disponibilità di manodopera sottocosto e altamente scolarizzata vicino al cuore dell’Europa capitalista, la quasi-totale dipendenza economica dal cuore e dalle sue banche e corporazioni multinazionali e, infine, l’accumulazione di debito. Da un lato politico, le procedure formali liberal-democratiche sembrano aver luogo tutte qui. In verità, la nozione di una transizione non ancora compiuta domina tuttora il linguaggi mediatico, il discorso accademico, e le élites politiche lo usano per implementare e giustificare una nuova ondata di privatizzazioni. [5]

Nessuno osa dire che la “transizione” significa precisamente imbrigliare gli stati sotto rigidissimi vincoli capitalisti (c’è una parola, “transitology”, raramente usata). Rispetto a ciò, la Transizione è finita da un pezzo. Non c’è niente da far transitare ancora. A nostro modo di vedere, due ragioni principali sembrano sottostare dietro la retorica della Transizione incompleta: evitare un confronto schietto con le conseguenze della Transizione stessa, e la preservazione del discorso e dei rapporti di potere negli stati post-socialisti.
Una delle assunzioni implicite dell’eterna transizione è il “bisogno” costante di tutela e supervisione extra-nazionale.

Gli osservatori spesso guardano ad un altro fenomeno della transizione, chiamato come “nostalgia comunista”. La poloticamente asettica nostalgia da “Goodbye, Lenin” è vista generalmente con una certa simpatia, mentre un sondaggio di’opinione che mostra che almeno il 61% dei Romeni crede che la vita era migliore sotto Ceaucescu è visto con grande disappunto e irritazione nei paesi della vecchia Yugoslavia. [6]

I liberali più ferventi asseriscono che si tratta del classico “vaso egiziano” della storia: gli “schiavi” sono sempre nostalgici verso i loro tiranni invece di essere felici per divenire “liberi”, nonostante il fatto che siano strettamente orientati alla ricerca della “terra promessa”.
Leggere la “nostalgia” come una volontà espressa di ritornare magicamente al regime socialista – come se qualcuno offrisse qualche alternativa – significa tralasciare le questioni vere insite dietro a questo sentimento.

Perchè le persone si sentono politicamente espropriate del potere, derubate economicamente e schiavizzate oggi? Perché e quando la democrazia liberale e il libero-mercato capitalista, se sbagliata, non cede il passo ad altre possibilità? – e perchè non si fa niente di meglio di quanto sin qui fatto?

Prima ancora che la “nostalgia comunista” non producesse alcun movimento politico o programmatico la risposta andava cercata in un sentimento largamente diffuso che qualcosa del nuovo sistema non funzionasse e che potesse essere cambiato seguendo gli ideali che soggiacevano alle generose politiche sociali dei paesi ex-comunisti.

Il sociologo sloveno Mitja Velikonja nei suoi studi sulla “Tito-stalgia” [7] ha mostrato due tipologie di nostalgia comunista: una passiva, diretta verso l’idolazione dell’eredità simbolica del vecchio sistema, e una attiva, che cerca di osservare criticamente la realtà corrente attraverso le lenti delle indiscutibili conquiste nell’emanciapzione economica e sociale delle masse nel ventesimo secolo. Chi non può guardare o rifiuta di conoscere questi sentimenti chiude gli occhi di fronte al malcontento crescente e alle richieste della società che stanno mettendo in discussione la transizione sia come processo di riforme e sia come una costruzione di dominio teleologica-ideologica.

 

LA BALKANPOLITIK DELL’ UE E IL GHETTO DEI BALCANI DELL’OVEST

 

L’Unione Europea è il principale protagonista della transizione dell’Europa dell’Est; in accordo con le politiche di Copenaghen del 1993, si suppone di disciplinare e punire in cambio di offrire la possibilità di divenire membri dell’ Unione, ponendo termine al cammino tortuoso della Transizione, di modo da mandare avanti un processo di democraticizzazione e rilancio economico.
La realtà distrugge questa favola: pur raggiungendo l’obiettivo, le promesse non sono state pienamente mantenute: 3 stati membri della vecchia Europa hanno immediatamente imposto restrizioni nella libera circolazione dei lavoratori della “nuova ” Europa, infrangendo le promesse di uguaglianza tra cittadini europei.
Al posto di una libera circolazione delle persone, c’è principalmente una libera circolazione di capitali. Inoltre, c’è sempre un pressante bisogno di dover ulteriormente “monitorare” i Balcani dell’ Est i cui cittadini (legalmente europei) sono spesso trattati come cittadini di terza classe, come dimostrato da quei Romeni espulsi dalla Francia manco fossero alieni illegali. Né il benessere economico è stato raggiunto, né è fiorita una qualsivoglia democrazia.
L’UE è stato il più potente agente politico ed economico dei Balcani post-socialisti il cui scenario politico è complesso più di ogni altra regione europea. In questa penisola la missione “civilizzatrice” dell’ UE si è fatta quantomai evidente. Integrando pienamente la Slovenia, tramite questa monitora la Romania e la Bulgaria che sono state pesantemente messe a critica e sanzionate (specialmente la Bulgaria che ha visto perdere milioni di euro di fondi europei) per non essere state pronte ad “attivarsi” politicamente.
A quattro anni dall’integrazione, questi paesi sono stati colpiti duramente dalla crisi. [8} L’Ue non si limita a supervisionare i candidati dei balcani dell’Ovest (dire “negoziazione” sarebbe un eufemismo), ma gestisce tuttora due protettorati (Bosnia e Kosovo). La Ue sviluppa vari approcci: disciplina e punisce i membri (Romania e Bulgaria), intrattiene rapporti bi-laterali per i papabili membri (Croazia e, presto, Montenegro), punisce e riprende (Serbia e Albania), gestisce (Bosnia), governa (Kosovo), e infine ignora (Macedonia a seguito della sua disputa con la Grecia). Il comune denominatore di questo agire politico oggi è la Crisi.
Una certa depressione sociale regna sui cosiddetti “Balcani dell’Ovest”, altro costrutto geo-politico forgiato da Bruxelles, comprendente le repubbliche ex-yugoslave, meno Slovenia, più Albania. Questa regione, d’altro canto, ha ulteriori e complesse attribuzioni: non fu solo la post-socialista, ma anche la post-frammentata, nonché la regione post-bellica.
E’ stata interamente circoscritta da membri dell’Ue in una sorta di “ghetto” intorno al quale i dettami di Schengen sono stati velocemente deplorati, con Slovenia, Ungheria e Grecia a guardia della Fortezza, ruolo che Romania e Bulgaria avevano anche loro esercitato,ma alla lunga in modo insoddisfacente.

Uno potrebbe vedere l’allargamento di Schengen – invece del solo allargamento dell’UE – come una continuazione delle politiche di contenimento dei primi ’90 dove il principale obiettivo fu quello di prevenire la guerra nell’ex-Yugoslavia . Riguardo ciò, e la scelta “no Slovenia, si Albania”, tale approccio cela il fatto che la Slovenia è ancora profondamente coinvolta con i suoi confinanti meridionali e che Albania è anzitutto chiusa dal suo cuscinetto albanese in Kosovo, e che la “Yugoslavia” non è sparita come spazio geopolitico. Il senso di unità della regione, nonostante i conflitti, ha permesso a Tim Judah di coniare il nuovo termine di “Yugo-sfera” [9]

La parola si è diffusa velocemente. Occorre evidenziare che le “sfere” non sono formate solo dalle proprie forze interne centripete, ma ancor più da confini esterni o barriere di isolamento da altre sfere.

L’ approcio di imporre la sicurezza e la stabilizzazione è stata e ancora è la priorità assoluta dell’ UE, se non fosse che questo disegno è in profonda crisi. Negli ultimi 5 anni abbiamo assistito ad una ulteriore ripartizione (Montenegro ha abbandonato la nuova e presto deceduta “Solania” così come la sua rinnovata unione con la Serbia è stata osteggiata a furore popolare dopo l’accordo del 2003) e secessione (il Kosovo dichiara indipendenza dalla Serbia), hanno ulteriormente frammentato la “Yugo-sfera”. Frammentazione non limitata ai già presenti confini amministrativi tra repubbliche e province autonome.

La parte nord a popolazione serba del Kosovo, intorno alla città di Mitroviça, resta governata dalla Serbia, e nuovi enclavi serbi sono stati creati con il Kosovo.

L’accordo di Dayton in Bosnia ha preservato la divisione inter-etnica con convenzioni etnico-territoriali e consociative e quindi ha fatto fallire il rovesciamento delle politiche di pulizia etnica. In Macedonia, sin dal conflitto del 2001, l’accordo Ohrid Framework sponsorizzato dalla UE tra i ribelli albanesi e il governo Macedone ha indotto a una ridefinizione territoriale a livello di municipalità, separando ulteriormente le comunità albanesi e macedoni. Perciò, l’approccio consociativo e etnico-territoriale che auspicava a una stabilizzazione e prevedeva nel breve periodo di porre fine alla violenze ha portato a ulteriori divisioni e instabilità nel medio-lungo periodo come dimostrato in Bosnia, Kosovo (e di conseguenza Serbia), e Macedonia.

Diversamente che in altre regioni, la Ue ha agito in maniera diretta ed esplicita nei Balcani. Il Kosovo è effettivamente opera dell’Ue, tramite la sue missione Law And Order (EULEX), nonostante cinque stati membri avessero rifiutato di riconoscere il nuovo stato, ma poi prendendo parte alla missione. Ciò rivela il fallimento del comando USA e della maggiorparte della strategia preconfezionata dell’Ue sull’ indipendenza kosovara che ha lasciato la regione e la sua popolazione nel limbo di un parziale riconoscimento che ha portato a non potersi annettere ad alcuna organizzazione internazionale ufficiale. Prima dei fatti della Bosnia e del Kosovo,le forze europee,guidate dall’Italia, sono intervenute in Albania nel 1997, e i militari Ue erano presenti anche in Macedonia, e molti membri dell’UE sono stati coinvolti nel bombardamento Nato alla Repubblica Federale di Yugoslavia. Dunque l’UE nei Balcani non è stato solo una organizzazione che ha testato i paesi candidati membri. E’ bensì un soggetto attivo nella trasformazione della regione, politicamente, socialmente, ed economicamente. La nostra sopravvivenza dalla loro “Balkan Politik” richiede necessariamente una risposta alla questione del perché qualcosa non abbia funzionato nel processo di stabilizzazione e integrazione politica.

 

LA CRISI DELL’IMPERO BALCANICO

Gli Stati Uniti (in quanto leader dell’Ovest) e la Ue nei Balcani hanno dissimulato in particolar modo il loro dominio attraverso la costruzione degli Stati, di strutture politiche, e padronati locali. Ciò é precisamente quello che David Chandler ha chiamato “l’impero rinnegato” [10], offrendo un argomentazione convincente sul neo-colonialismo mantenuto con la formazione di Stati, di cui esempi sono stati per qualche tempo Bosnia e Kosovo, ma anche Iraq e Afganistan, e possibilmente Libia e qualche altro paese del Medio-oriente in passato. In pratica la strategia del padronato locale significa nulla più che implementare le riforme impulsate dall’esterno ma addossando le responsabilità alle élites locali. Un “impero rinnegato” non governa direttamente, dato i costi e l’impopolarità di un tale modello di dominio, ma tramite i vari regimi amici che restano responsabili di implementare o non implementare la costruzione di Stati o la strategia di annessione e riconoscimento a “membri dell’UE”.

Inoltre, i problemi aumentano quando le élites locali elette evitano di cooperare in sfere che potrebbero far saltare il loro potere costituito attraverso il rafforzamento dell’indipendenza istutuzionale, in particolar modo giudiziaria e di polizia.
Il problema è ulteriormente esacerbato dall’inefficienza ideologica dell’ “impero rinnegato” di domandare a questi leader eletti, nonostante le stesse elezioni di per sé si prestino a varie pre/post manipolazioni elettorali da parte delle oligarchie locali. Il modello insiste con continue riforme neo-liberali che si suppone siano legittimate dal fatto di trovarsi in un regime veramente “democraticamente eletto”,in realtà largamente corrotto e con élites profondamente anti-democratiche, che sono eventualente le uniche beneficiarie delle riforme.

Turkes e Gokgoz hanno sottolineato che la la principale strategia della Commissione Europea è precisamente quella di “ristrutturare neoliberalmente”, minando nella pratica uno sviluppo democratico, in quanto obiettivo primario stabilito dall’UE, permettendo pratiche autoritarie. [11]
La relazione causale tra riforme economiche neoliberali e la promozione della democrazia mostra di essere altamente problematica. Questi due elementi cruciali nella strategia dell’UE riguardo l’Ovest dei Balcani, “non si sono alimentati l’uno dell’altro”. Piuttosto, sottolineano Turkes e Gokgoz, “si sono trovate in contrapposizione”. Sembra che in una situazione di post-conflitto la situazione sia caratterizzata da legami ristretti tra affari,organizzazioni criminali,apparati di sicurezza dello stato ed elites politiche,con la strategia dell’Eu che rinnega il suo obiettivo prefissato,la stabilizzazione e la democratizzazione della regione.

Il tormento è precisamente che le riforme neo-liberali stiano aprendo maggiori possibilità di corruzione e di predatorismo spiccato delle élites locali,come mostra ampiamente il caso della Croazia. I processi di privatizzazione che includono infrastrutture come telecomunicazioni, grandi industrie, risorse naturali come l’acqua, outlets e servizi pubblici, in aggiunta agli investimenti delle banche straniere o filiere di credito, sono giusto alcune delle “opportunità” in crescita nella ristrutturazione neo-liberale, nella prima fase di incorporazione alla sfera-UE. Il caso del precedente premier croato Ivo Sanader, suggerito dall’ Ue e adesso in prigione in Austria per casi di corruzione immensi, è un esempio diretto di come le élites locali possano approfittare del processo di “ristrutturazione”.

 


 

 

LA CRESCITA DELL’EURO SCETTICISMO


L’eventuale risultato è una delegittimazione della UE e delle élites politiche degli stati candidati e dei recenti peasi membri. Le élites politiche caldeggiate dall’ Ue stanno delegittimando l’ Ue stessa sia implementando riforme neo-lìberali impopolari, mentre l’Ue con la sua pressione nel dover proseguire tali riforme, delegittima volta per volta le élites politiche che ne sono le ovvie beneficiarie.

Il risultato è la nascita recente di un forte euro-scetticismo generalizzato. Ciò giunge quasi come una sorpresa per molti osservatori, élites politiche e funzionari UE, dato che da più di due decenni il far parte dell’Ue è stato l’obiettivo maggiore di praticamente tutte le forze politiche nei Balcani.

I recenti sondaggi mostrano che oltre il 40% della popolazione in Croazia è contraria all’annessione all’ UE, contro il 40% di coloro che sono a favore e un 20% di indecisi, a seguito di una protratta integrazione che ha avuto solamente conseguenze economiche negative.

L’euro scetticismo non è, come prevedibile, una reazione nazionalista di destra all’integrazione a strutture sovra-nazionali o solamente una critica da sinistra su come queste integrazioni vengano maneggiate dall’UE come meccanismo generale. C’è da capire che c’è anche una repulsione della narrazione teleologica alla Transizione, con l’ Ue come “sacro fine” ma anche come tutore della “fine della storia”. Nei paesi recentemente integrati si incontrano incertezza e disorientamento; una volta giunti in queste terre, potrete scoprire la vuotezza politica e le profonde ineguaglianze caratteristiche delle società capitaliste ma senza significante protezione sociale, che è stata definitamente distrutta durante il processo di annessione all’UE.

Ciò crea una ulteriore divisione con l’UE dal momento che i cittadini dei paesi ricchi beneficiano ancora di politiche welfaristiche, seppur recedendo.
E’ contro questo background generale che bisogna analizzare il ritorno del nazionalismo in paesi come Ungheria e Polonia dove, inoltre, i membri dell’Europa hanno aperto più o meno inavvertitamente la strada a rigurgiti neo-nazionalisti. [12] Dove la sinistra è tuttora delegittimata, l’unico possibile cambiamento politico per il mainstream sembra essere le idelogie di centro-estrema destra viste sia nel “difendere la nazione” dalle istituzioni sopra-nazionali e come produttori di significato politico e di identità. Infine sembra ancora che, come Turkes e Goqkoz sottolineano, “la strategia della Commissione Europea [per i Balcani dell’Ovest] non sia né la totale estromissione né una rapida integrazione”. [13]

Qualcuno potrebbe aggiungere qui che l’integrazione politica non significa- come nei casi di Romania e Bulgaria ma anche come altri Paesi dell’est Europea mostrano – integrazione effettiva. La “nuova Europa” e i candidati balcani all’integrazione sono(e permarranno) la periferia o meglio, nel vocabolario sistemico globale, una semiperiferia. I paesi balcanici hanno hanno enormi risorse in termini di lavoro a basso costo e risorse intorno ai quali gli affari posso rimanere protetti dall’ombra legale dell’UE (tramite l’adozione delle leggi dell’UE e/o i trattati di Stabilizzazione e Associazione). Stabilizzare la regione permane come priorità, mentre l’integrazione economica attraverso la ristrutturazione neo-liberale deve essere accettata che ci sia consenso o meno, e senza che venga seguita, e certamente non alla medesima velocità, da una integrazione politica piena.

 

L’INVERNO DEL MALCONTENTO IN CROAZIA

“Zagreb=Maghreb”. A prima vista sembrerebbe solo un gioco di parole utilizzato da media tendenzialmente a sinistra. Ma subito dopo la caduta dei dittatori in Egitto e in Tunisia la “protesta di Facebook” è scattata anche in Croazia. [14]
Non ci sono analogie semplicistiche con la “Primavera Araba” e sarebbe oltremodo erroneo cercarne di stabilirle forzosamente. Nonostante ci sia una situazione differente nei Balcani, questi mostrano certe comunanze con il Medio-Oriente largamente inteso, e ciò rappresenta una base fertile per una analisi che tenti di catturare i motivi di malcontento e ribellione ai confini reali dell’ Occidente.

La Croazia viene da una serie di trasformazioni sin dal 1990 che han visto una guerra brutale, una autocrazia nazionalista negli anni Novanta, un benessere “euro-compatibile” delle élites post-Tudjman, riluttanti a chiarire pienamente gli obiettivi della precedente decade che ha condotto la Croazia all’ingresso nell’UE. Ma in che condizioni la Croazia ha bussato alle porte dell’Unione Europea? A partire dai 3 miliardi di dollari di debito verso l’estero ereditati dalla Yugoslavia, si è arrivati ora a 45 miliardi, che si aggiunge al 87,8% del PIL che in ogni caso è decresciuto nel 2009 del 5,6% e di un altro 1,5% complessivo nel 2010. [15]. Da una delle più prosperose e sviluppate repubbliche jugoslave si é rimasti pressoche senza attività industriale.

Una privatizzazione incontrollata negli anni Novanta, facilitata dalla Guerra, e le continue riforme neoliberali degli anni 2000, han creato un enorme gap sociale e infine una disoccupazione odierna attestata al 19%. Recentemente, dall’ Aprile 2010, il governo croato ha mandato avanti il “Programma di Salvataggio Economico” adottando sostanzialmente misure di austerità tagliando di un 5% il numero dei lavoratori nel settore pubblico e i relativi stipendi di un 10%. Il Governo ha annunciato la privatizzazione di grossi cartelli statali quali le compagnie elettriche, del legname e dell’acqua e delle ferrovie, sulla scia delle precedenti privatizzazioni messe in atto da corporazioni statali quali Croatian Telecom, la nota casa farmaceutica Pliva e la compagnia petrolifera Ina. Il paradiso turistico costituito dalle splendide coste reppresenta la distruzione di una delle più avanzate industrie canteristiche del continente, la quarta, che possiede oltre l’1,5% del mercato globale. Questa impiega oltre 12mila lavoratori con circa 35mila lavori direttamente ad essa collegati. [16] . La Croazia è stata costretta dall’Unione Europea a bloccare i sussidi statali ai cantieri navali che portano giocoforza a una grossa riduzione, se non alla completa chiusura, di uno dei principali comparti dell’industria croata.

Tutte le contraddizioni del nucleo capitalista come lo shock finanziario, il consumismo sfrenato, il dominio dei grossi media, le élites politiche eterodirette, il deficit democratico e la commercializzazione dei servizi pubblici sono visibili tutti assieme congiuntamente a tutti i problemi politici,sociali ed economici della semiperiferia post-socialista, post-partizione e post-conflittuale. La Croazia é assolutamente dipendente dal centro dal punto di vista finanziario (come menzionato sopra le banche strniere possiedono il 90& del settore), economico (i capitali stranieri dominano tutte le attività economiche) e in materia militare (la Croazia è stata accorpata alla Nato nel 2008). L’egemonia neoliberale é agganciata al nazionalismo conservatore che in pratica porta a una piccola quanto sciagurata alleanza alle strutture dello stato,dei grandi affari e della mafia. Fino a poco tempo fa tutto ciò non ha trovato risposta e perciò nell’Inverno, come gli echi del Levante hanno trovato una vera ricezione dall’altra sponda del Mediterraneo, i manifestanti sono scesi in strada.

 

LA “PRIMAVERA” DI UNA NUOVA SINISTRA?

Tutto é partito inizialmente da un “movimento” su Facebook che ha radunato una giovane generazione politicamente confusa e insoddisfatta dalle nuove politiche governative. Così, il 26 Febbraio 2011, che potrebbe essere condiderato come un punto di partenza, una protesta dei veterani di Guerra in opposizione all’estradizione e al tentativo di formare soldati Croati in Serbia è stata organizzata nella piazza centrale a Zagabria. La protesta si è conclusa con dei violenti scontri tra una frangia principalmente composta da ultras di calcio e la polizia. Inoltre, solo due giorni dopo abbiamo visto emergere un’altra protesta. Le “proteste di Facebook” sono cominciate mostrando più chiaramente le ragioni del malcontento, principalmente la disastrosa situazione sociale e la mancanza di confidenza nelle istituzioni e il sistema politico che alimenta la corruzione e approfondisce le inuguaglianze sociali. Le proteste indipendenti che hanno unito gruppi di varia provenienza politica sono state una grossa sorpresa di per sé. E’ stato ancor più sorprendente vedere manifesti che accusavano la Ue e il capitalismo, mettendo in discussione il sistema dei partiti e, compiendo un ulteriore passo, chiedendo democrazia diretta.

L’inaspettata emersione di ciò che chiamiamo una nuova, organizzata e originale Sinistra in Croazia che è attivamente coinvolta e sta continuamente dando forma al movimento attuale di protesta può essere rintracciata sin dal 2009. Volgendo lo sguardo indietro, un movimento studentesco indipendente ha articolato una forte resistenza alla privatizzazione e alla mercificazione del’istruzione superiore. In una sorta di concreta “universalità” hegeliana, la loro protesta contro le riforme neoliberali nel campo dell’educazione hanno rappresentato probabilmente la prima forte opposizione politica non solamente al Governo, ma verso il regime politico e sociale in generale. Durante 35 giorni primaverili e due settimane in autunno quell’anno più di 20 Università in tutta la Croazia sono state occupate da studenti e praticamente gestite da loro.
[17]. Si sarebbe potuto dire che di per sé non c’era niente di nuovo sotto il sole, ma il modo tramite il quale hanno occupato e gestito le università ha attirato l’attenzione per la propria originalità in un contesto molto più grande come quello balcanico o dell’Est Europa.

Gli studenti hanno creato assemblee plenarie cittadine – chiamate “plenum” – durante le quali non solo studenti ma altri cittadini sono stati invitati per dibattere su questioni di importanza pubblica come l’educazione e, in aggiunta a questo, per decidere sulla direzione delle azioni ribelli. Il plenum maggiormente attivo nella facoltà di Umanistica e Scienze Sociali a Zagabria ogni pomeriggio ha raccolto oltre mille individui che decidevano sulla modalità delle azioni. [18] Quest’evento ha portato a una crescita del movimento per la democrazia diretta come una necessità per modificare la democrazia elettorale e la partitocrazia e, possibilmente, una vera alternativa a questo. La nuova Sinistra croata, le cui idee si sono velocemente espanse nella sfera ex-yogoslava, non vede la democrazia diretta limitata alle pratiche refendarie ma bensì come un mezzo di organizzazione politica delle persone dalla comunità locale al livello nazionale. La dimostrazione che non era solamente una idea di gruppi marginali è giunta molto presto dopo le occupazioni studentesche. Tra il 2009 e il 2011 la Croazia ha assistito a un movimento di massa (sotto il nome della “La ragione della Città”) per la preservazione dello spazio urbano nel centro di Zagabria che era stato venduto dai governanti della città a grossi investitori [19], ma anche ad una ondata di scioperi di lavoratori dell’industria tessile, dei cantieri navali e proteste contadine. Alcune di queste azioni collettive usavano il modello assembleare del “plenum” sviluppato nelle università o una sorta di azioni democratiche dirette che hanno costituito una grossa sorpresa per le élites politiche e i media mainstream.

 

 



 

NON E UNA RIVOLUZIONE COLORATA!

Nonostante la nuova sinistra sia stata cruciale nella connotazione delle proteste in corso, queste non si sono curvate in manifestazioni marcate nettamente a sinistra ma in un movimento popolare genuino. A Febbraio,Marzo e Aprile di quest’anno oltre diecimila persone si riunivano in assemblea ogni pomeriggio a Zagabria e oltre due migliaia in altre città. Dietro il taglio retorico (un forte discorso anticapitalista mai ascoltato nella Croazia indipendente così come nei Balcani), il punto cruciale era il rifiuto di leaders, che dava ai cittadini l’opportunità di decidere sulla direzione e la forma delle loro proteste. La “rivoluzione degli Indiani” dapprima limitata alle piazze presto si è data in lunghe marce attraverso Zagabria. Questo é stato un chiaro esempio di ” spazi invitanti per la cittadinanza”, così definiti dalle strutture dello stato e dalla polizia per le espressioni roventi di malcontento, essendo soprassedute da “spazi inventati dalla cittadinanza” [20], dove gli stessi cittadini aprivano nuove strade e prospettive per le loro azioni sovversive mettendo in discussione la legalità in nome della legittimità delle loro proposte.

 

Non è affatto una protesta classica statica e,a differenza delle famose marce di Belgrado del 1996-1997, quelle di Zagabria non si concentravano solamente contro il governo, i partiti dominanti e i loro capi. Queste hanno acquisito una forte critica anti-sistemica, esemplificata dal fatto che i manifestanti stanno regolarmente “attraversando” i punti nodali politici,sociali ed economici della Croazia contemporanea (partiti politici, banche, uffici governativi, sindacati, fondi privati, TV, centri mediatici ecc.). Le bandiere del dominante Sindacato Cristiano-Democratico, il Partito ScocialDemocratico (visto per non essersi opposto alle riforme neo-liberali) e sempre la UE (essendo complice nei malaffari delle élites) sono state bruciate. I manifestanti hanno “visitato” continuamente le residenze dei politici dei partiti principali segnalando in questo modo che le loro nuove ricchezze acquisite non fossero niente altro che una rapina legalizzata.
E qui sta precisamente la novità di tali proteste. Non è un’altra “rivoluzione colorata” del modo in cui i media occidentali sono sempre tanto entusiasti (ma oltetutto non interessanti nel seguire come le “onde di democratizzazione” spesso rimpiazzano un autocrata con un altro, più cooperativo). Le rivoluzioni colorate sostenute dagli USA non mettono mai in questione il sistema politico ed economico come questa ma rispondono a una domanda genuina delle società di sbarazzarsi delle élites corrotte e autoritarie formatesi principlamente negli anni ’90. L’esempio croato mostra che per la prima volta non abbiamo una retorica anti-governativa di per sé ma un vero sentimento anti-Regime. Non solo lo stato ma l’intero apparato in cui l’oligarchia corrente è basata viene messo in discussione, sebbene caoticamente, da cittadini auto-organizzati. E non c’è colore che venga richiesto nel determinare questo tipo di rivoluzione che ovviamente non può sperare in alcun aiuto esterno né su alcuna copertura mediatica internazionale.

Voi potete fare giusto le uniche cose che gli espropriati possono fare: attraversare le cittò segnalando i topoi del regime che si sono solidificati negli ultimi due decenni ma suscettibili di spezzarsi sotto il peso delle proprie contraddizioni e delle loro conseguenze prodotte come la povertà in espansione. L’emergenza e la natura delle proteste nella Croazia attuale ci invita a ripensare le categorie usate per spiegare la situazione sociale,politica ed economica nei Balcani e oltre nell’Europa dell’Est post-socialista.

 

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE: UNA NUOVA RINASCITA NEI BALCANI?

Abbiamo dimostrato in questa analisi come il vero concetto della tradizione come costrutto ideologico basato sulla narrazione dell’integrazione dell’ Europa “socialista” nello schema Occidentale attualmente significhi una monumentale trasformazione neocoloniale di questa regione in una semiperiferia dipendente. I concetti aggiuntivi di “stato debole” o “stato in fallimento”, per esempio, chiariscono il fatto di come non ci si trovi davanti ad anomalie della Transizione ma come queste siano i suoi principali prodotti.

Il famoso problema della corruzione pone davanti una serie di elementi agli osservatori e agli studiosi portando i più a concludere che, da quando il sistema liberale non è stato più messo in questione, una corruzione dilagante è collegata alla cultura o alla dipendenza di fondo delle vite nell’Est.
Inoltre, la corruzione in realtà sembra essere una conseguenza diretta dell’intervento liberale post-1989 nell’Est Europa e, ancor di più, una caratteristica endemica alla stessa UE in quanto tale. Nel tentativo di comprendere la retorica dell’eterna transizione post-comunista, e specialmente l’attuale situazione politica ed economica nella regione balcanica, si deve andare oltre l’analisi del singolo stato, del suo fallimento o debolezza, e affrontare il concetto di Regime visto come un conglomerato che raggruppa élites politiche, giri d’affari relativi e i loro partners occidentali, le corporazioni mediatiche al loro servizio, le associazioni non governative che promuovono la felice coppia “democrazia elettorale – economia neoliberale”, il crimine organizzato intimamente legato alle élites di cui sopra, le predatorie banche straniere e, infine, una magistratura corrotta e dei sindacati controllati.

Un altro apparato ideologico del Regime ha luogo nel momento in cui si cementa la retorica dei poteri locali con i risultati prodotti dalle grandi trasformazioni neoliberali.

Ciò costituisce il minimo comune denominatore tra i Balcani di oggi e la Primavera Araba: tutti questi movimenti di protesta, nonostante le loro evidenti differenze, sono profondamente Anti-Regime. Ribellarsi contri i regimi post-socialisti è veramente molto arduo perché molto spesso non presentano una sola faccia, nessun dittatore, nessuna famiglia governante o reale non sono caratterizzati da una repressione evidente o censure. In più, la rabbia è molto simile. Una questione ragionevole puo essere, ciò detto, la seguente: c’è una nuova rinascita nell’Europa dell’Est e specialmente nei Balcani, come Zizek sembra credere? Le Avventure Persiane di Foucalt ci raccontano quanto difficile sia predire il futuro dei movimenti e delle sollevazioni popolari. Non c’è bisogno di essere avvezzi alla storia dei Balcani per capire che una rivitalizzazione del nazionalismo non è un ipotesi irrealistica.

Ma, dall’altro lato, far cadere un nuovo movimento popolare in quanto eterogeneo e soggetto ad ogni sorta di processi significa non solo abbandonare l’idea della “volontà popolare” [21], ma ingessarsi sulle vecchie immagini riguardo a presunti, precisi momenti rivoluzionari. L’esempio arabo mostra che la situazione rimane aperta anche dopo che le popolazioni danno una spallata significativa ma non esasutiva al Regime.
L’esempio della Croazia dimostra come una situazione che plausibilmente era stata innescata da elementi di destra possa essere volta al suo opposto e venire cooptata da nuove forze progressiste e di immaginazione collettiva. Dimostra anche che una nuova generazione entra a far politica seguendo la strada delle azioni di democrazia diretta e per strada e non sui canali politici confezionati dalla democrazia elettorale e dai partiti.

La nuova sinistra rinvenibile dentro e con questi movimenti è dissociata sia dal passato di un socialismo di stato che dalla tradizione dei partiti social-democratici. Non di rado in posti differenti come il Medio Oriente o la Croazia,assistiamo a una esponenziale esplosione di originale radicalità da cui molti in Occidente, troppo accomodati alle strutture della “oppressiva tolleranza” liberale, possono cogliere grandi spunti riguardo alle forme e ai metodi di politica sovversiva nel ventunesimo secolo.

 

 

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