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Un 2023 di guerre?

Mentre il conflitto in Ucraina non accenna a fermarsi, si riaccendono sotteranei altri conflitti nei “punti caldi” del globo. Non solo la pace sembra lontana, ma i rischi di un’escalation generalizzata, in particolare alle porte dell’Europa, aumentano.

Mentre la scorsa notte attacchi missilistici russi hanno preso di mira Kiev e un drone ucraino ha colpito un impianto elettrico nel distretto russo di Klimovsky, gli appelli per la pace sono pochi e deboli. La probabilità che le ostilità riprendano in maniera più feroce con l’avvicinarsi della primavera sono molte.

Intanto però le tensioni non si fermano allo scenario ucraino, nelle scorse settimane abbiamo assistito ad un’escalation tra Kosovo e Serbia. La minoranza serba in Kosovo ha protestato per settimane con blocchi stradali e barricate contro l’arresto ritenuto ingiustificato di tre serbi e l’invio da parte della dirigenza di Pristina di numerose unità armate della polizia speciale, accusata di vessazioni nei confronti della popolazione serba. I serbi considerano la politica di Pristina sempre più ostile e discriminatoria nei loro confronti. Si tratta di una posizione condivisa e appoggiata in pieno da Belgrado, che accusa Pristina di voler puntare alla totale espulsione dei serbi dal Kosovo (circa 120 mila su una popolazione complessiva di circa 2 milioni di abitanti, concentrati in larga parte al nord).

La Serbia aveva ordinato lo stato di massima allerta per l’esercito e la polizia, ma al momento sembra che le trattative per mezzo dell’Ue e della Nato stiano portando ad un raffreddamento delle tensioni. Le forze atlantiche e l’Ue hanno assicurato che da parte di Pristina non ci saranno arresti di serbi, liste di futuri arrestati e l’impegno della Nato a vietare il dispiegamento di forze kosovare nel nord del Paese senza il consenso di Kfor (la forza Nato in Kosovo) e dei rappresentanti serbi, ma la tensione rimane alta.

Sullo sfondo del conflitto ancora una volta lo scontro geopolitico tra Stati Uniti e Russia, infatti la Serbia, alleata russa, ha rifiutato a più riprese di recidere il legame con Mosca e imporre sanzioni. L’esplosione di una guerra dispiegata in questo sceenario secondo alcuni analisti porterebbe ad un effetto domino in grado di essere l’innesco di un conflitto globale. Di seguito l’interessante trasmissione di Radio Onda d’Urto con Enrico Vigna a riguardo:

Ma le tensioni e i segnali divergenti nella zona dei Balcani non finiscono qua, infatti mentre la Croazia adotta l’Euro ed entra nell’area Shengen, in Montenegro il Parlamento ha nominato Miodrag Lekic, un ex diplomatico in passato alla guida dell’alleanza di opposizione filorussa denominata “Grande coalizione-la chiave”, come primo ministro designato. Ma il Capo dello Stato Milo Djukanovic, europeista, si è rifiutato di nominare Lekic. Dunque anche all’interno del Montenegro, paese Nato dal 2017, lo scontro tra i settori filo-russi e quelli più filo-occidentali sembra crescere. I Balcani non sono solo uno spazio di contesa strategica tra Russia e Usa, ma anche la Cina negli ultimi anni ha portato avanti significativi investimenti sull’area.

Anche il Caucaso assomiglia sempre di più ad una polveriera. Gli Armeni dell’Artsakh sono isolati e stanno affrontando una grave crisi umanitaria: dal 12 dicembre l’Azerbaijan ha chiuso il corridoio di Lachin, l’unica via di accesso, la strada su cui transitavano tutte le forniture di beni essenziali, 400 tonnellate di merci al giorno. Baku, la capitale azera, ha inoltre tagliato l’erogazione del gas e dell’acqua potabile. La popolazione armena denuncia l’inizio di un vero e proprio tentativo di pulizia etnica finalizzata all’occupazione dei territori dell’Artsakh, messo in campo dai servizi speciali di sicurezza azeri e simpatizzanti dei Lupi grigi, formazione terroristica dell’estrema destra turca. La forza d’interposizione russa che dopo il conflitto del 2020 avrebbe dovuto farsi garante dello status quo sembra al momento non intenzionata a rompere l’isolamento dell’enclave armena. A contare è probabilmente il “rapporto speciale” che si è consolidato tra Turchia e Russia alla luce del conflitto in Ucraina. Posizione, quella della Turchia, secondo esercito Nato, ma unico paese dell’alleanza ad avere ancora un significativo canale aperto con il Cremlino, che le permette un certo spazio di manovra per conseguire i fini propri tanto in Caucaso quanto in Siria del Nord ed in Iraq. Qui continuano senza sosta i bombardamenti dell’esercito turco contro il Confederalismo Democratico, mentre Erdogan cerca il via libera da Russia e Stati Uniti per un’invasione di terra. In Iran la protesta delle donne e dei giovani continua nonostante la spietata repressione del governo continui a provocare morti. Le potenze internazionali si aggirano come avvoltoi ipotizzando nuovi equilibri strategici nell’area da contrapporre magari in un futuro alle Monarchie del Golfo sempre più interessate a farsi gli affari loro.

Anche in Asia i fronti caldi sono diversi, mentre la Cina si confronta con l’esplosione della nuova ondata Covid dopo la fine dei lockdown. La guerra dei microchip potrebbe avere conseguenze dirette sul piano militare anche se al momento si tratta esclusivamente di esercitazioni sullo stretto di Taiwan. Inoltre il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha annunciato che “Seul e Washington stanno discutendo della possibilità di svolgere esercitazioni congiunte che coinvolgano risorse nucleari statunitensi nell’ottica del contrasto alle crescenti minacce della Corea del Nord.”

Le parole di Yoon arrivano all’indomani di quelle del leader nordcoreano Kim Jong Un, che ha chiesto un “aumento esponenziale” dell’arsenale nucleare del suo Paese, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa ufficiale Kcna.

I punti di tensione dislocati in tutto il mondo sono in fibrillazione e questi conflitti più o meno regionali si intrecciano in maniera sempre più significativa nella ragnatela della crisi della globalizzazione e del suo rovesciamento in conflitti militari. La variabile indipendente che può scovolgere il paesaggio di devastazione umana e sociale imposta è quella di mobilitazioni popolari di massa che mettano sempre più al centro del proprio agire la questione del rifiuto della guerra e dei suoi effetti a livello transnazionale.

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