Il contrario di guerra non è pace: è conflitto
Primo dovere per un militante – in senso forte – è invece innanzitutto di capire, senza farsi travolgere dalle emozioni individuali (“quello è il ristorantino in cui ero andato durante le mie vacanze a Parigi”) o dall’opinione pubblica dominante, che è l’opinione dei dominanti, per di più espressa sulle piattaforme tecnologiche dei dominanti. Per esempio guardando alle biografie degli attentatori, probabilmente simili a quelle dell’azione contro Charlie Hebdo o di chi va a combattere con l’Isis, quando scopriamo che si tratta di cittadini francesi, giovani, di seconde o terze generazioni che portano sulla propria pelle i segni di storie lunghe di oppressione e marginalizzazione, che magari alla religione islamica ci sono arrivati dopo aver visto le immagini di Abu Ghraib o dei bombardamenti occidentali in una delle tante guerre combattute nelle ex colonie. Persone a cui l’Isis offre un reddito, un’aspettativa mistificata, la possibilità di un perverso riscatto alla rabbia accumulata, fosse anche nella forma di teste da tagliare o di persone da lasciare stese per terra.
Dobbiamo poi guardare a come pezzi differenti della composizione sociale reagiscono rispetto a questo tipo di attentati: a gennaio la segmentazione geografica della metropoli francese, di classe e di razza, emerse con chiarezza, con buona parte del ceto medio bianco raccolto attorno ai valori della Republique e buona parte delle banlieue indifferente o addirittura ostile al cordoglio per Charlie. Pensare che ciò ci restituisca da una parte i nemici e dall’altra gli amici sarebbe caricaturale, perché i nemici e gli amici sono sempre il prodotto di un processo di lotta e di organizzazione. Al momento, gli uni e gli altri in forma diversa sono perlopiù le figure soggettive prodotte dallo sfruttamento e dalla crisi, dall’impoverimento e dal declassamento, dall’assenza di futuro e dalla privazione di aspettative. Sono i soggetti così come vengono costruiti dal capitale, quindi da destrutturare e trasformare radicalmente, da scomporre e ricomporre in una direzione opposta.
Ma per farlo, dobbiamo capire che – piaccia o non piaccia – da qui partiamo. Senza capire questo, cosa opponiamo alle retoriche degli sciacalli che, sentendo odore di sangue, si fiondano su media e social network per eccitare le passioni popolari? Certo, è semplice associare il termine sciacalli a chi lo è per definizione, i Salvini, i fascisti e le varie risme di reazionari conclamati. Ma costoro non sono altro che il prodotto dei progressisti per bene, degli Hollande, degli Obama e dei buffoni di corte alla Renzi, che con l’elmetto in testa chiamano alle armi per difendere i valori universali della civiltà. Parlate per voi, sciacalli, perché quell’universale è da sempre fratturato da una linea di classe, da secoli di guerra e di colonialismo, dalle divisioni razziali che avete creato per costruire la vostra civiltà capitalistica e imporla, appunto, come universale. Al netto dalle dietrologie e dei mostri usciti dai laboratori della geopolitica imperiale, l’Isis e l’orrore di Parigi sono il prodotto dell’orrore della civiltà che ci hanno imposto.
Questa guerra è la loro guerra, non possiamo combattere l’effetto senza combattere la causa. Chi oggi pensa che basti urlare ai nazisti perché colpiscono le zone della città “progressiste” o “libertine”, imposta la questione su basi sbagliate, applicando degli schemi di lettura completamente inadeguati e autoreferenziali. Per gli attentatori di Parigi, probabilmente, quelle zone rappresentano il consumo e la forma-merce, questi sì i valori che il capitale ha imposto sul piano globale. Chi oggi dirige tali azioni indiscriminate non lo fa per mettere fine ai rapporti di oppressione e sfruttamento, ma per costruirne di nuovi. Non per dare nuove prospettive alle periferie, ma per costruire un nuovo centro. Questa è la contraddizione, dura e difficilissima, da agire.
In questo scenario, infatti, non abbiamo bisogno di mitologie sugli ultimi o codismo verso i primi. Da anni siamo in guerra, chi se ne accorge solo quando approda a New York o Parigi ne è complice. Dobbiamo sapere che la guerra ci pone sempre di fronte a una situazione radicale, nel senso letterale del termine: siamo cioè alla nuda radice dei problemi, rispetto a cui non tengono quelle forme di mediazione e compromesso che in altre circostanze possono invece funzionare. Oggi la guerra è alimentata dalla difficoltà delle lotte collettive e del conflitto radicale. Se vogliamo batterci contro la guerra, che è la loro guerra, non possiamo farlo con i buoni sentimenti o vaghe idee di giustizia: bisogna porsi il problema di come quelle radici vengono destrutturate e organizzate in una forma opposta a quella attuale. Da quei pezzi di composizione apparentemente impazziti bisogna passare, per rovesciarli in un’altra direzione; altrimenti faremo esclusivamente gli spettatori di eventi su cui l’unico potere che abbiamo è quello del “like” o del “dislike”. Citare quello che stanno facendo i curdi è semplice e corretto, ma non basta. Il punto è come facciamo come i curdi qui, nel ventre della bestia, contro l’unico nemico e le sue molte teste.
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