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Il gig work: lavoro autonomo o dipendente? Fatti privati o destini collettivi?

Nel gig work sono due le flessibilità che si incontrano: quella degli individui e quella del sistema economico. In astratto, dovrebbe essere il felice incontro di interessi convergenti: soldi guadagnati da una parte, prestazione ottenuta dall’altra. Senza strascichi; svolto il compito richiesto e accettato, pagato e ricevuto il compenso pattuito, ognuno padrone di sé come prima.

Di Bruno Cartosio, da Officina Primo Maggio

Nella realtà non è così che vanno le cose, né per quanto riguarda i lavoratori, né per le aziende, né dal punto di vista delle leggi che classificano e regolano i rapporti di lavoro. Unica parziale eccezione, anche in termini di potere contrattuale, gli autonomi veri: self-employed o freelancer, meglio ancora se professionisti.  Non c’è dubbio che siano le corporation-piattaforme a trarre i maggiori vantaggi dall’incontro tra precarietà del lavoro offerto e disponibilità dei prestatori d’opera ad accettarla, tra i bassi compensi ricevuti da chi lavora e il minore costo del lavoro per le aziende. Ne sono testimoni i grandi profitti accumulati dalle aziende fino a oggi e il fatto che nessun gig worker risulta essersi arricchito o salito nella scala sociale grazie al lavoro precario-intermittente-connesso. E a cancellare ogni eventuale dubbio sul cui prodest, sta la decisione con cui le aziende si sono opposte finora a qualsiasi tentativo di riclassificare una parte dei gig workers come lavoratori dipendenti invece che autonomi.

Tuttavia i sondaggi dicono che il nuovo precariato “connesso” incontra il favore della maggioranza dei lavoratori che lo praticano. È possibile: il richiamo individualistico della flessibilità, delle possibilità di scelta, dei minori vincoli gerarchici è forte. Tuttavia, altre ricerche mettono le opinioni pro e contro più o meno alla pari.[i] In ogni caso, chi ha poche o nessuna alternativa si fa piacere, per così dire, quello che trova, magari mentre cerca qualcosa di meglio, come è successo nella Great resignation. I gig workers lavorano senza stabilità di impiego nel presente e magari senza cercarla altrove, quasi sempre senza il salario e i benefits dei lavoratori dipendenti e accettando i lavori che trovano con una dose di (giovanile?) noncuranza verso il loro stesso futuro. Salvo poi reagire, però, alla frustrazione delle proprie aspettative quando verificano, presto o tardi, che i compensi sono inferiori alle attese e non bastano per viverci; che la propria libertà sparisce quando la povertà dei compensi costringe agli impegni ripetuti senza soste o quasi; che le spese a proprio carico taglieggiano la paga; che se hanno un incidente o una malattia si trovano senza coperture e senza entrate; che il reddito reale a cui arrivano è molto basso mentre i profitti delle piattaforme per cui lavorano sono altissimi …È allora che le risposte all’insoddisfazione possono cessare di essere individuali, e diventare collettive, solidaristiche e rivendicative nei confronti delle piattaforme. Ed è a quel punto che le soggettività dei lavoratori, gli interessi delle aziende e gli obblighi normativi dei legislatori entrano in collisione, come vedremo.

L’unica delle tre componenti che si comporta in modo univoco è quella imprenditoriale, mentre non lo sono le risposte dei lavoratori di fronte alla rigidità delle piattaforme. Rispetto a chi continua a pensarsi come lavoratore autonomo, sono cresciute le minoranze che puntano a iniziative organizzative di base per dare forza collettiva sia a “semplici” rivendicazioni migliorative su paghe e condizioni di lavoro, sia a premere – magari in accordo con le organizzazioni sindacali – affinché si arrivi a decidere sul piano legislativo che il loro è un lavoro da dipendente e non da autonomo. Tra i drivers, la componente più numerosa e inquieta, molti temono di ricadere nella condizione del vecchio lavoro precario subordinato e normato da cui avevano inteso liberarsi. Per questo difendono anzitutto la propria autonomia, benché siano aumentati anche tra loro quanti sono favorevoli ad associarsi per avere paghe e condizioni di lavoro migliori. Altri vedono come desiderabile e necessario essere classificati come employees, per potersi dare un’organizzazione di tipo più propriamente sindacale che ottenga per loro le prerogative non solo salariali che la legge garantisce ai dipendenti.

Prerogative ignorate dalle aziende-piattaforme. Le prassi da loro adottate fin dall’inizio costituivano una serie di «sfide concettuali e pratiche alle leggi e alle politiche pubbliche.» Al «centro di queste loro sfide legali» erano: la questione dell’afferenza delle piattaforme a un settore d’impresa (comunicazione) o all’altro (commercio), l’insolita e peculiare natura del gig work (precario in tutti i casi; ma autonomo o subordinato?), e quindi il rapporto con l’esistente legislazione del lavoro (in particolare il National Labor Relations Act, Nlra, che prevede che i lavoratori autonomi non possano costituirsi in sindacati e accedere a forme di contrattazione collettiva).[ii] Come è stato per le altre Big Tech corporations, negli anni iniziali di questo secolo, l’innovazione delle piattaforme è stata talmente repentina e spregiudicata da lasciare indietro la capacità della legge di normarla. In generale e sul terreno dei rapporti di lavoro.[iii] E dalla lentezza o assenza legislativa i capitalisti delle piattaforme hanno tratto gli enormi vantaggi economici da cui hanno mostrato di non essere disposti ad arretrare. In questi ultimi anni, le cronache locali sono state punteggiate dalle proteste contro di loro, che in alcuni casi – come a New York – hanno strappato accordi e concessioni e in altri casi sono sfociate poi in fermate o scioperi di portata nazionale. Questo è successo, per esempio, con il primo sciopero generale degli autisti californiani di Uber e Lyft che il 25 marzo 2019 bloccarono il servizio a Los Angeles, San Diego e San Francisco, a cui fece seguito un’analoga interruzione che fermò tutti i servizi in almeno venticinque città di tutti gli Stati Uniti l’8 maggio successivo (con fermate di solidarietà anche fuori dell’America).

Prendiamo la California, lo stato-madre delle aziende che hanno terremotato il campo, per esemplificare i modi in cui le «sfide legali» sono state affrontate dai lavoratori e dalla politica. Sintetizzo qui, e semplifico, la vicenda legale-politica californiana e nazionale. Le proteste e l’iniziativa legislativa finalizzata a sciogliere la questione giuridicamente decisiva della classificazione dei gig workers si concretarono nel luglio 2019 con l’approvazione dell’Assembly Bill 5 (Ab5). A sostegno della nuova legge voluta dalla maggioranza democratica ebbe luogo Il 9 luglio 2019 una grande manifestazione davanti all’Assemblea legislativa di Sacramento, la capitale dello stato. Per a sua realizzazione si schierarono sindacati nazionali come i Service Employees (Seiu), i Teamsters (Ibt) e i Communication Workers (Cwu) e alcune delle organizzazioni di base. E gli autisti di Gig Workers Rising, un’organizzazione di drivers nata nel 2018, e di Rideshare Drivers United, nata nello stesso 2019, inscenarono una clamorosa carovana automobilistica che in tre giorni attraversò tutto lo stato da Los Angeles a Sacramento. La Ab5 entrò in vigore il 1° gennaio 2020, fissando i criteri (sintetizzati in tre punti essenziali noti come “Abc Test”) in base ai quali è da classificare il rapporto di effettiva autonomia o di dipendenza del prestatore d’opera. In base alla legge la maggioranza dei gig workers – autisti a chiamata e corrieri – sarebbero dovuti essere classificati come employees, cioè lavoratori dipendenti a cui spettano tutte le garanzie di chi è regolarmente assunto: salario minimo, sussidi di disoccupazione, assistenza sanitaria e infortunistica, permessi per maternità e malattia, rimborsi spese ecc.[iv]

Una parte dei drivers, di categorie come giornalisti, fotografi e scrittori e soprattutto dei camionisti (che infatti ottennero l’esenzione) rimasero contrari alla legge, magari anche spinti a ciò da migliorie offerte dalle piattaforme per smontare le rivendicazioni. Ma contro la legge in quanto tale la reazione delle piattaforme fu immediata e totale, a riprova della convenienza economica e dell’importanza strategica che aveva per loro il mantenimento del gig work così com’era. Uber, Lyft, DoorDash, Instacart e Postmates montarono una campagna estremamente aggressiva contro l’Ab5. Investirono più di 224 milioni di dollari –somma mai raggiunta prima per perseguire obiettivi referendari statali – in lobbying e propaganda per lanciare e sostenere la propria abrogativa Proposition 22 (Prop 22), sotto forma di referendum su cui votare nel contesto delle elezioni del novembre 2020. Contro la Prop 22 si riformò una coalizione che portò a una nuova dimostrazione appena prima delle elezioni (le stesse in cui Trump veniva sconfitto da Biden), a cui parteciparono gig workers organizzati e sindacati, e con cui solidarizzarono gruppi sparuti di “inorganizzabili” delle aziende Big Tech della Silicon Valley. L’esito del referendum popolare fu negativo per i lavoratori.[v] Tuttavia, il risvolto positivo della mobilitazione anti-Prop 22 fu che l’opera di informazione, denuncia e proselitismo delle esistenti organizzazioni di base fece nascere altre più piccole iniziative nella stessa Silicon Valley e consolidò i rapporti con alcuni dei sindacati maggiori, come nel caso della Mobile Workers Alliance che aderisce al Seiu Local 721 di Los Angeles. Oggi in California, dove Uber e Lyft hanno diversificato le loro attività rispetto agli iniziali “taxi a chiamata” e hanno forse mezzo milione di gig workers, i gruppi di autisti organizzati che contano su decine di migliaia di aderenti hanno strappato concessioni e benefits alle piattaforme.[vi]

Nonostante la maggioranza democratica e la vittoria di Biden nello stato, il 59 per cento dei votanti californiani approvò la Prop 22, cancellando l’Ab5 e tornando alla classificazione di tutti i gig workers come soggetti autonomi contraenti di contratti privati (cui non si applicano le norme a tutela dei dipendenti). Sulla pericolosità di quel successo si pronunciò allora anche lo studioso Robert Reich, ex ministro del lavoro di Bill Clinton, che ne sottolineò l’importanza in quanto possibile precedente negativo sul piano nazionale: «La Prop 22 è ottima per gli imprenditori ed è una perdita enorme per i lavoratori. Incoraggerà altre aziende a riclassificare la loro manodopera, e una volta che lo avranno fatto, più di un secolo di protezioni del lavoro spariranno di colpo.»[vii] Anche per questo la Seiu e le organizzazioni dei drivers denunciarono lo Stato della California, sostenendo l’incostituzionalità della Prop 22. Nel 2021 il Tribunale superiore dello stato gli diede ragione: dipendenti. Ma non era finita. Le piattaforme si sono appellate a loro volta e il 13 marzo del 2023 la Corte d’Appello rovesciava la sentenza e dava ragione a loro: autonomi. (A fine marzo, la Seiu non aveva ancora inoltrato l’ulteriore ricorso che ha promesso.)

Lo schieramento dei repubblicani californiani a favore della Prop 22 coincideva con la politica del Partito repubblicano sul piano nazionale. Nello stesso infausto 6 gennaio 2021 in cui i seguaci di Trump davano l’assalto al Campidoglio – pochi giorni prima dell’insediamento del nuovo Presidente – l’amministrazione uscente pubblicava le sue norme sui contratti dei lavoratori autonomi, che cambiavano a favore degli imprenditori i criteri del Fair Labor Standard Act (Flsa) in base a cui vengo effettuate le classificazioni occupazionali. Ma prima della sua entrata in vigore, che sarebbe dovuta avvenire nel marzo 2021, la cosiddetta “Trump rule” fu sospesa e poi cancellata dall’amministrazione Biden. Anche in questo caso la reazione congiunta di politici repubblicani e aziende fu immediata e veemente. Le corporation, costituitesi in Coalition for Workforce Innovation, denunciarono presso un tribunale federale del Texas il ministro del Lavoro, Marty Walsh, per irregolarità procedurali nell’azione abrogativa del suo ministero. Vinsero la causa, e le norme trumpiane entrarono in vigore. E mentre continuava l’iter giudiziario in California, il ministro Walsh, ex sindaco di Boston ed ex sindacalista, lavorava alle nuove norme, infine pubblicate nell’ottobre 2022 ed entrate in vigore a dicembre al posto di quelle trumpiane. In sostanza, il Ministero del Lavoro stabilisce che chi è «economicamente dipendente» dall’attività praticata – vale a dire: svolge gig work per vivere, non per integrare altri redditi – deve essere considerato un lavoratore dipendente a tutti gli effetti e godere di tute le prerogative definite dalle leggi sul lavoro (Nlra e Flsa).[viii] Mentre, sintetizzando, si può dire che le nuove norme federali riprendevano i criteri dell’Ab5 e rendevano più difficile far passare come autonomi buona parte dei gig workers, la sentenza californiana che sarebbe arrivata tre mesi più tardi andava in direzione opposta. La questione rimane aperta.

Nel frattempo, cresceva la sensibilità al problema da parte dei lavoratori e, compatibilmente con la pandemia, prendevano corpo un po’ dovunque rivendicazioni, mobilitazioni e scioperi contro le corporation. I drivers sono stati i più intraprendenti nel darsi forme di organizzazione di autodifesa solidale, di condivisione delle informazioni e delle iniziative di pressione politica (advocacy groups). I media, non solo quelli vicini al mondo del lavoro, riportavano le testimonianze di lavoratrici e lavoratori che avevano sperimentato la distanza tra le promesse delle piattaforme e la realtà assai meno remunerativa e gratificante. E le organizzazioni dei drivers si moltiplicavano, anche se ad emergere alle cronache erano quasi solo quelle attive nelle maggiori città.

Oltre alle già citate Rideshare Drivers United, Gig Workers Rising e Mobile Workers Alliance, tra le più note erano e sono le altre californiane We Drive Progress, Gig Workers Collective e ora la California Gig Workers Union nata nell’ottobre 2022. Sono nate anche strutture di collegamento tra autisti e di consulenza in appoggio alle attività organizzative-rivendicative, come la Driver’s Seat Cooperative, formatasi nel 2019 e attiva a Los Angeles, Denver e Portland (Oregon). Invece a New York esistono la Taxi Workers Alliance, (che fa parte della Direct Coalition, che rivendica l’adozione dell’Abc Test californiano nello stato di New York) e la Drivers Cooperative, avviata nel maggio 2021 da 2500 autisti che condividono le informazioni, ridistribuiscono il lavoro in modo equo, e hanno una propria app, per offrire servizi più remunerativi per i soci. Il caso della Drivers Coop è interessante. È collegata alla Independent Drivers’ Guild (Idg), nata nel 2016 grazie ad accordi economici e “politici” tra Uber e la International Association of Machinist and Aerospace Workers (Iam, a cui la Idg è affiliata), e rappresenta 80.000 autisti a New York City e altri 250.000 nello stesso stato di New York e in Connecticut, New Jersey, Massachusetts, Illinois. La Idg vanta tra i suoi successi l’aver costretto la Taxi and Limousine Commission di new York City ad aumentare la paga minima dei drivers del 9 per cento e, come è scritto con orgoglio sul suo sito, «è l’organizzazione di punta degli autisti del paese, grazie a quanto ha conseguito con l’azione diretta e di consulenza»; «Siamo lavoratori di Uber e Lyft uniti per un lavoro equo. […] Siamo guidati da autisti e tenuti in piedi da autisti.»[ix]

In conclusione. La conflittualità dispiegata dalle organizzazioni dei drivers in California si è sviluppata autonomamente e a volte è stata affiancata da quella sindacale delle unions e dai primi passi delle azioni di protesta – diverse tra loro per dimensioni e motivazioni (anche nonriguardanti i rapporti di lavoro) – avvenute all’interno o attorno alle grandi di Big Tech, da Amazon a Google, ad Apple e Microsoft. I protagonisti di queste azioni sono stati gli ultimi a scendere nel campo del conflitto economico-sociale: ultimi venuti rispetto alle figure professionali e di mestiere del passato industriale, ma soprattutto diversi in merito sia ai terreni su cui si esplica e ai poteri contro cui è diretta la loro combattività, sia alle forme associative e gli strumenti organizzativi a cui fanno ricorso. È superfluo ricordare la funzione necessaria che, tra questi, hanno la Rete e i social media. Nella novità dei modi di comunicare e nelle stesse ambiguità di classificazione del gig work – e nella comune giovane età – si dà la possibilità di scavalcare le divisioni corporative. Dunque modalità diverse da quelle del passato sindacale tradizionale, che stanno contribuendo a ridefinire criteri e contenuti, se non i principi stessi, dell’associazionismo e dell’organizzazione. «Non tutti i nuovi sindacati di Filadelfia sono sindacati nel senso tradizionale del termine», ha scritto David Murrell raccontando la storia recente del piccolo Philly Workers for Dignity e della Pennsylvania Domestic Workers Alliance, la unione delle collaboratrici domestiche a cui la sindacalizzazione era preclusa da sempre.[x]

Negli scorsi anni, le cronache hanno parlato molto delle lotte – “impensabili”, come quelle dei janitors di Los Angeles o dei lavoratori delle cucine di Las Vegas … – dei falsi autonomi del commercio: prima le «Fights for 15$», sbocciate nei negozi di McDonald’s e coronate da successi clamorosi in tante città e qualche stato; ora quelle di Starbucks, dove i baristas di centinaia di caffetterie si stanno organizzando per introdurre sindacalizzazione e contrattazione collettiva. Emergono, infine, anche le mutuazioni e solidarietà da altre organizzazioni in cui si riconoscono insieme gli autonomi fittizi e reali, associazioni di autodifesa collettiva, solidaristiche e non soltanto circoscritte ai servizi poveri. Il modello forte, tra queste, è la Freelancers Union (Fu), nata nel 1995 come Working Today a New York, per iniziativa dell’avvocata del lavoro ed ex sindacalista della Seiu Sara Horowitz e ora ricca di oltre mezzo milione di aderenti in tutto il paese.

Nel perdurare della legislazione che impedisce ai lavoratori autonomi di organizzarsi in sindacati – e nonostante l’etichetta: Union – quella dei Freelancers è un’associazione non-sindacale che organizza i lavoratori autonomi di ogni professione secondo i principi del mutualismo e fornisce ai soci informazione, consulenza legale, assistenza fiscale e piani assicurativi. Ma non solo. Pur non potendo praticare formalmente né la contrattazione collettiva, né l’azione direttamente politica, Fu promuove attivamente le rivendicazioni economiche degli autonomi e l’iniziativa politica sul terreno legislativo. Per esempio, nel 2016 aveva svolto il ruolo di intermediazione e consulenza nel citato raggiungimento degli accordi newyorkesi tra Uber e Iam e nella formazione della Independent Drivers Guild, e nei recenti mesi della pandemia, ha contribuito a conquistare l’estensione agli autonomi dei sussidi di disoccupazione emergenziali istituiti da Trump e Biden. Ma è forse ancora più interessante l’iniziativa politica, a partire dall’agitazione che nel 2017 aveva conquistato a Fu e all’alleata National Writers Union (Nwu) il passaggio a New York City del Freelance Isn’t Free Act a protezione del rispetto dei contratti e della tempestività nei pagamenti delle prestazioni dei freelancers. Anzitutto, quel successo ha messo in moto una catena rivendicativa che si è poi prolungata anche altrove, fino a Los Angeles. Ma ha anche allargato il fronte delle alleanze.

Le disposizioni adottate anni prima da New York City sono state presentate come proposta di legge nel Parlamento dello stesso stato e approvate dalle due Camere nel 2022, scontrandosi però con il veto della Governatrice Kathy Hochul all’inizio del 2023. Il progetto di legge è stato subito ripresentato (tramite parlamentari dello stesso Partito democratico della Governatrice). Anche questa è una vicenda che rimane aperta. Ma a finale illustrazione della ricchezza dei fermenti che caratterizzano in particolare la scena newyorkese, si possono nominare almeno le principali forze presenti al fianco di Fu e Nwu nelle coalizioni attive nell’azione rivendicativa e nel sostegno all’iniziativa legislativa per l’adozione dell’Abc Test californiano (e del Pro Act di Biden).[xi]  L’elenco è fornito dal Freelance Solidarity Project. Vale la pena citarlo, a testimonianza della sua inclusività: American Photographic Artists, American Society of Media Photographers, Authors’ Guild, Graphic Artists Guild, National Association of Science Writers, National Press Photographers Association, Science Fiction and Fantasy Writers of America; e infine, insieme a queste: la Seiu e i Teamsters e le altre organizzazioni facenti capo alla composita New York Direct Coalition – il nome è la sigla per: Do It Right Employment Classification Test Coalition – che si definisce come un «raggruppamento di lavoratori, consumatori, attivisti e avvocati in lotta per il passaggio di un Fair Play in Employment Act nello stato di New York» e include, tra le organizzazioni che le fanno parte, i membri della 32BJ e di Make the Road New York (affiliate alla Seiu), New York Taxi Workers Alliance, Workers United, National Employment Law Project, National Domestic Workers Alliance, Nail Salon Workers Association e Legal Aid Society.

Puoi leggere un altro contributo dell’autore sul tema: Gig work tra passato e futuro


[i] Aspen institute, “The Future of Work Initiative”, Toward a New Capitalism, 2016, pp. 16-17; al sito: New_Capitalism_Narrative.pdf

[ii] O. Lobel, «The Gig Economy & the Future of Employment and Labor Law», University of San Diego, School of Law, Legal Studies Research Paper Series, Research Paper No. 16-223, Marzo 2016, p. 2.; al sito: http://ssrn.com/abstract = 514132.

[iii] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press, Roma 2019, p. 115. Nelle parole di uno dei dirigenti di Google citate da Zuboff in Ibid.: «L’high-tech va tre volte più veloce di un business comune. E i governi vanno tre volte più lenti di un business comune. Di conseguenza il gap ammonta a nove volte […] Per questo motivo bisogna assicurarsi che il governo non si metta in mezzo rallentando le cose.»

 

[iv] J. Bhuiyan, «Uber and Lyft drivers swarm Sacramento as lawmakers advance gig workers’ rights bill», in Los Angeles Times, 10 luglio 2019; al sito: Uber and Lyft drivers swarm Sacramento as lawmakers advance gig workers’ rights bill – Los Angeles Times (latimes.com); M. Pawel, «You Call It the Gig Economy. California Calls It “Feudalism”», in New York Times, 12 settembre 2019; E. Rosenberg, «Can California rein in tech’s gig platforms? A primer on the bold state law that will try», in Washington Post, 14 gennaio 2020.

[v] Dopo il loro successo californiano, le stesse corporation fecero un tentativo analogo in Massachusetts, ma la loro proposta di referendum non fu ammessa al voto nelle elezioni di midterm del novembre 2022. H. ChitkaraA. Kramer, «The fight over gig work is ugly, expensive, and nowhere over», in Protocol,  4 febbraio 2022; al sito: Uber, Lyft are bringing millions to Prop. 22 in Mass – Protocol; K. Browning, «Massachusetts Court Throws Out Gig Worker Ballot Measure», in New York Times, 14 giugno 2022; al sito: Massachusetts Court Throws Out Gig Worker Ballot Measure – The New York Times (nytimes.com). Altre iniziative imprenditoriali sono state avviate in altri stati, tra cui New York, New Jersey e Illinois.

[vi] S. Kessler, «Google Engineers, Uber Drivers, and the Voices of a New Tech Labor Revolution», in OneZero, 24 febbraio 2020; al sito: Google, Lyft, and Uber: Voices of the Tech Worker Revolution | OneZero (medium.com).

[vii] Z. McNeill, «“A Huge Loss for Workers”: CA Court Rules that Gig Workers Are Contractors», in Truthout, 17 marzo 2023; al sito: “A Huge Loss for Workers”: CA Court Rules that Gig Workers Are Contractors – Truthout,

[viii] S. Zhang, «Biden Officials Propose Reclassifying Uber, Lyft Gig Workers as Employees», in Truthout, 11 ottobre 2022; «Labor Department Moves to Change Worker Classification Rule», in Bloomberg, 11 ottobre 2022; al sito: Labor Department Moves to Change Worker Classification Rule (3) (bloomberglaw.com); G. Thompson, «How Millions of Gig Workers Could be Impacted by a New Labor Rule», in Capital and Main, 9 novembre 2022; al sito: How Millions of Gig Workers Could Be Impacted by a New Labor Rule (capitalandmain.com); K. Weisz e D. Boyle,«Why independent contractor classification is essential», 20 dicembre 2022; al sito: DOL Proposed Rule & Worker classification | Deloitte US.

[ix] Aa.Vv., U.S. Workers’ Organizing Efforts and Collective Actions, cit., p. 41.

[x] D. Murrell, «Philly’s New Generation of Unions is Young, Progressive, and Coming to a Coffee Shop Near You», in Philadelphia Magazine, 17 ottobre 2020; al sito: Inside the New Generation of Philadelphia Unions (phillymag.com).

[xi] Il generale sostegno al Pro Act, la legge voluta in prima persona da Biden a favore dell’organizzazione sindacale nei luoghi di lavoro, non è senza riserve da parte della Freelancers Union, a riprova dell’indipendenza politica dell’associazione nonostante i buoni rapporti con i legislatori democratici nello stato di New York. In quanto gruppo di pressione, la Fu chiede con forza che nel progetto di legge, già approvato dalla Camera dei Rappresentanti ma non dal Senato, vengano introdotti emendamenti a protezione anche dei lavoratori autonomi; Freelancers Union, The PRO Act e Facts about the PRO Act, Aprile 2021; al sito: The PRO Act (freelancersunion.org).

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