Il neoliberismo in terapia intensiva
La pandemia di COVID-19, avendo rivelato la tossicità del binomio ‘privatizzazioni-austerità’, rappresenta un’opportunità per la tanto attesa transizione oltre un sistema economico fondato sullo sfruttamento del lavoro subordinato precario, del lavoro di cura non retribuito, e degli ecosistemi. Il campanello d’allarme suonato dalla pandemia è che un sistema organizzato attorno al profitto è socialmente ingiusto ed ecologicamente insostenibile. Questa è una crisi di vulnerabilità causata dal capitalismo e che il capitalismo non può risolvere: richiede una trasformazione sociale ampia e profonda. E ciò deve iniziare dall’anello della catena che si è spezzato per primo: il Servizio Sanitario Nazionale.
Il sistema sanitario in condizioni critiche
I sistemi sanitari di molti Paesi sono sull’orlo del collasso poiché non ci sono abbastanza letti di terapia intensiva per tutte le persone infette da COVID-19 che la necessitano. Tale inadeguatezza dei sistemi sanitari è da attribuirsi al loro cronico sottofinanziamento e crescente privatizzazione.
Riguardo al processo di privatizzazione, basti pensare che il 40% della spesa sanitaria regionale in Lombardia oggi è destinata a strutture private. L’eccellenza sanitaria lombarda inventata da Formigoni su una sinergia pubblico-privato a vantaggio del secondo ha, in realtà, fornito un servizio più amichevole per i ‘pazienti-clienti’, trascurando però prevenzione e cure vitali. La Lombaridia è la regione con la percentuale di letti in cliniche private più alta in Italia. E le cliniche private hanno interesse nell’investire solo in servizi specializzati su cui i margini di profitto sono più elevati. Il risultato è che rimangono solo i pronto soccorso per fornire cure primarie con l’inevitabile congestione che ne consegue. Non a caso la Lombardia è l’unica regione in Italia ad aver raggiunto una saturazione delle terapie intensive.
La privatizzazione del servizio sanitario può essere vista come parte di una più ampia dinamica di mercificazione, ossia di un’espansione della logica di mercato nella società. In un sistema in cui imprese e governi hanno come obbiettivo massimizzare i guadagni finanziari (rispettivamente profitti e PIL), trasformare i servizi sociali, come l’assistenza sanitaria, in una merce che si deve acquistare sul mercato è considerato progresso economico poiché aumenta il PIL. Ma ciò che viene dissimulato come ‘crescita economica’ è in verità solo un trucco contabile a spese di coloro che più dipendono dal welfare. Il processo di privatizzazione, invece che ‘tagliare i costi’ come si sente spesso ripetuto, trasferisce semplicemente i costi di fornitura dei servizi di base dal bilancio dello Stato a quello delle famiglie. Ciò chiaramente va a detrimento dei più poveri poiché le spese sanitarie sono così individualizzate invece che essere pagate collettivamente tramite il sistema tributario progressivo vigente (chissà ancora per quanto) in Italia.
Parallelamente i sistemi sanitari pubblici sono stati per molti anni cronicamente sottofinanziati a causa di draconiane politiche di austerità. Si pensi all’Italia dove, nonostante l’invecchiamento crescente della popolazione, la spesa per la sanità è passata dal 7 al 6,4 per cento del PIL dal 2012 a oggi. Negli ultimi 10 anni sono stati erogati 37 miliardi in meno al Servizio Sanitario Nazionale, riducendo così i posti in terapia intensiva a 8,5 ogni 100mila abitanti.
L’austerità consiste nel tagliare la parte di spesa pubblica meno produttiva in termini di valore economico (scuola, sanità, cultura, ecc.) per devolvere una maggiore parte del bilancio ai settori più produttivi (ad esempio l’infrastruttura per la rete 5G). Ma ciò è, ancora una volta, un’illusione contabile: le attività economiche sono soppesate in base al loro contributo al PIL nazionale con l’obiettivo finale di stimolare la crescita economica piuttosto che di soddisfare i bisogni dei cittadini. Per quanto essenziale sia l’assistenza sanitaria pubblica, essa rimane un settore a bassa produttività con limitati ritorni sugli investimenti.
Tali osservazioni palesano una delle contraddizioni centrali del capitalismo: il divario crescente tra valore di scambio e valore d’uso delle attività economiche. Il valore d’uso si riferisce alle caratteristiche di un servizio in grado di soddisfare un’esigenza concreta. Il valore di scambio, invece, ha a che fare con il valore monetario di un servizio. Ora, cosa succede se privatizziamo il sistema sanitario? I prezzi salgono e così anche la spesa sanitaria in percentuale del PIL nazionale. Questo è il motivo per cui i paesi dell’Europa occidentale spendono in media il 9% del loro PIL per la sanità, mentre invece gli Stati Uniti che hanno un sistema sanitario interamente privato ne spendono il 18%. Ma tale incremento monetario del sistema sanitario non ne migliora la qualità. In realtà, spesso avviene il contrario: i paesi con un sistema sanitario privato performano peggio di quelli con assistenza sanitaria pubblica. Ad esempio, gli Stati Uniti sono il decimo paese più ricco del mondo per PIL pro capite, ma si collocano al 64° posto in termini di salute.
Il valore d’uso diminuisce, ma cresce quello di scambio a beneficio del PIL, ossia del tasso di accumulazione del capitale. Giudicare il valore del sistema sanitario in funzione del suo valore monetario è utile (e pericoloso) quanto guidare guardando solo l’indicatore del carburante.
Prendersi cura delle persone e del pianeta
Oltre che garantire il diritto alla salute, la sanità pubblica ha anche l’ulteriore vantaggio di avere un’impronta ecologica minore rispetto ai sistemi privati data l’efficienza dell’economia di scala nella gestione delle risorse. Ne consegue che privatizzare i servizi di base non solo richiede più soldi per farli funzionare, ma anche più risorse ecologiche. Nel contesto della crisi ambientale tali considerazioni non possono essere ignorate. È quindi opportuno che non si affermi la tendenza di contrapporre artificiosamente un’emergenza (quella sanitaria) all’altra (quella ambientale) per rivedere tutte le priorità e tornare a perseguire scelte socialmente ed ecologicamente scellerate solo per rilanciare la crescita.
Ciò è tanto più importante se consideriamo le intersezioni tra la diffusione della pandemia COVID-19 e la crisi ecologica. Ad esempio, un recente studio ipotizza un rapporto di causalità fra l’alta concentrazione di polveri sottili in Lombardia e la più elevata vulnerabilità delle comunità locali all’agente virale. Ciò deriva sia dallo stato di affaticamento del sistema respiratorio dei cittadini sia dal fatto che le polveri sottili agiscono come vettore per la propagazione del virus. Queste conclusioni sono confermate sia da un ulteriore studio sul Nord Italia sia da un altro che rileva che circa l’80% delle morti attribuite al COVID-19 in Italia, Spagna, Francia, e Germania sono avvenute nelle rispettive aree del paese più inquinate. Ma il rapporto di causalità fra degrado ambientale e pandemie opera anche nel verso opposto: i virus trasmessi dagli animali selvatici agli esseri umani (come Ebola, Sars, influenza aviaria e ora Covid-19) sono in aumento a causa della perdita di biodiversità a livello globale.
Abbiamo perciò un disperato bisogno di una trasformazione economica che metta al centro attività di riproduzione socio-ecologica piuttosto che la produzione di beni di consumo. Per riproduzione socio-ecologica s’intende, ad esempio, la messa in sicurezza del territorio, il riciclo dei rifiuti, la creazione di sistemi energetici locali con fonti rinnovabili, nonché istruzione, cultura, e salute. È tempo di prendersi cura sia delle persone che del pianeta. La cura può diventare il segno distintivo di un’economia basata sul sostentamento del vivente, piuttosto che sull’espansione delle merci. Le attività di cura sono ad alta intensità di lavoro perché traggono il loro valore dall’attenzione e pazienza con cui vengono profuse. Risulta perciò evidente il loro potenziale nel ridurre la disoccupazione favorendo al contempo la creazione di una società più umana.
Nel contesto della pandemia il lavoro di cura a cui ciascuno di noi è stato chiamato è incrementato considerevolmente. Prenderci cura della casa, dei bambini, degli anziani, e dei malati ci ha costretto ad acquisire cognizione dell’importanza delle professioni a cui abitualmente demandiamo tali attività: medici, infermieri, badanti, insegnanti, addetti alle pulizie, e assistenti sociali. Per troppo tempo il loro lavoro è rimasto invisibile e sottopagato. Queste professioni erano considerate marginali e superflue a causa della loro bassa produttività. Ma è ormai chiaro che la nostra sopravvivenza dipende da loro. Stiamo improvvisamente aprendo gli occhi sul fatto che l’individualismo, sommo valore del neoliberismo, è un privilegio.
Tali considerazioni sull’importanza di queste professioni gettano luce anche su di una domanda che la maggior parte delle persone si sta ponendo per la prima volta: dovrei andare al lavoro o no? È impossibile rispondere a questa domanda senza sapere che tipo di lavoro. Sì, infermieri e fornai dovrebbero andare al lavoro anche se questo crea un rischio di contagio, ma la stessa logica non si applica a chi produce automobili o crea pubblicità. Il rischio di contagio ci sta costringendo a distinguere tra necessità e lussi. Ciò che molte persone potrebbero aver realizzato nelle ultime settimane è che il loro lavoro non è così importante come pensavano. Una buona parte di loro ha in realtà quello che si definisce un ‘bullshit job’: un lavoro senza il quale il mondo andrebbe avanti comunque, anzi sarebbe un posto migliore.
Fanno quindi bene gli operai di molte aziende a protestare contro il fatto che le fabbriche in cui lavorano rimangono aperte durante la pandemia: sono queste fabbriche inutili al funzionamento della società e non vale la pena rischiare la pelle. Ma il punto è che moltissimi di questi lavori non sono mai essenziali, non solo durante la pandemia. Riconvertiamo quindi questi settori industriali per produrre e riparare tutti i macchinari ed infrastrutture di cui abbiamo bisogno per la conversione ecologica.
Ma dobbiamo anche svincolare l’accesso al reddito dalla partecipazione all’economia di mercato. Una proposta che va in tale direzione è quella di istituire un Reddito di Cura da rendere disponibile per tutti coloro che – non essendo formalmente salariati – sono impegnati nella cura delle persone e/o degli ecosistemi.
Reinventare l’economia
Per far fronte alla crisi sociale innescata dalla pandemia, i governi di molti paesi si sono dimostrati inclini a mettere in dubbio l’ortodossia neoliberista e ad introdurre forme di protezione sociale, di sostegno al reddito, e sussidi. Fra tanti possibili esempi, la Spagna sta per distribuire un reddito minimo garantito, la Francia distribuisce sussidi di disoccupazione a coloro che non possono andare al lavoro e non possono lavorare da casa, l’Australia ha adottato una moratoria di sei mesi sugli sfratti, la città di New York ha sospeso i pagamenti dei mutui per 90 giorni. Le istituzioni economiche stanno cambiando ad un ritmo senza precedenti, dimostrando che la crisi ha aperta una breccia nel senso comune egemonico. Siamo in un momento di massimo dirigismo istituzionale sostenuto dall’emergenza sanitaria.
Tutte queste misure sono state pensate come temporanee, fintanto che dura quest’emergenza. E se l’emergenza sociale in cui siamo oggi non fosse affatto transitoria? Prima gli incendi in Amazonia, poi quelli in Australia, poi la pandemia di COVID-19, ed ora il crollo del prezzo del petrolio ai minimi storici. Sembra che usciamo da ogni crisi solo per entrare in un’altra. Sappiamo che ci sono delle dinamiche di lungo corso che rendono impossibile sostenere l’attuale sistema economico. Vale la pena allora considerare il fatto che il potere incontra molta più resistenza nell’annullare dei diritti dopo che la gente ne ha assaporato il gusto rispetto a quanto succederebbe se li avesse negati in primo luogo. E allora queste politiche d’espansione del welfare intese come transitorie, potrebbero risultare inevitabili sul lungo periodo. Una svolta apparentemente riformistica come quella della presente congiuntura può avere sbocchi rivoluzionari.
È ormai chiaro che l’unica via d’uscita dalla pandemia di COVID-19 e dal collasso ecologico globale passa per l’abbandono della crescita economica quale priorità sociale, per una massiccia ridistribuzione della ricchezza, e per la valorizzazione delle attività legate alla riproduzione socio-ecologica. Questa primavera non devono fiorire solo i narcisi, ma anche un nuovo senso comune. È sorprendente quanto velocemente il discorso pubblico stia cambiando e quante iniziative di solidarietà e di mutuo soccorso si stiano costituendo. La buona notizia è che ciò che è possibile oggi rimarrà possibile anche domani se lo vogliamo. Dobbiamo quindi lasciare che questo momento ci radicalizzi. Dopotutto lo slogan adottato da molti movimenti sociali nelle ultime settimane è eloquente: “No volveremos a la normalidad porque la normalidad era el problema.”
Dobbiamo impiegare l’immaginativa e la solidarietà catalizzata dalla pandemia per affrontare un altro virus che cresce esponenzialmente e finisce per uccidere il proprio ospite: il capitalismo.
Riccardo Mastini è un dottorando di ricerca in ecologia politica presso l’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale dell’Università Autonoma di Barcellona. Lo potete seguire su Twitter e Facebook.
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