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Il sipario aperto dal potere del noi

I beni comuni non sono una categoria merceologica, un oggetto inanimato del mondo esterno. Per questo motivo ogni habitus positivistico (ossia una metodologia analitica che separa nettamente il mondo dell’essere da quello del dover essere) è inadatto a coglierne la natura. Un bene comune lega inestricabilmente una soggettività collettiva (fatta di bisogni, sogni, desideri) con un luogo fisico (il bene comune appunto) in una relazione qualitativa paragonabile a quella che lega un organismo vivente al suo ecosistema. Infine, il bene comune emerge innanzitutto da pratiche di lotta per il suo riconoscimento e la sua difesa. Queste pratiche sono volte a interpretarlo in modo collettivo, al fine di universalizzarne l’accesso sottraendolo dalle ganasce della grande tenaglia fra Stato e proprietà privata che, fin dagli albori della modernità, lo stritola. Una volta salvato (attraverso la lotta) dal suo triste destino di sfruttamento e distruzione, ogni bene comune deve essere interpretato dal punto di vista sociale ed istituzionale in modo coerente con la sua natura.

Nessuna sfida è più affascinante oggi per il giurista rispetto a quella di trovare un vestito giuridico adatto ai diversi beni comuni. Vestito giuridico che, lungi dall’essere universalistico, deve essere a sua volta necessariamene contestuale perché soltanto i contesti (luoghi dove si declinano i conflitti e le relazioni sociali) danno senso a quella grande astrazione che è il diritto. Da questi contesti, intorno a quanto rivendicato come bene comune, sgorga un diritto nuovo, una legalità costituente che sfida il riduzionismo meccanicistico e formalistico di quella costituita. Ciò non toglie che questa «legalità nuova», fondata su un sentimento profondo di giustizia e di obbligazione anche intergenerazionale, non possa (e forse debba) trovare, nella cassetta degli attrezzi del giurista, forme idonee ad una sua rappresentazione compatibile con l’ordine giuridico attuale. Il «comune» può così realizzare il proprio potenziale trasformativo con le armi del diritto e non solamente con quelle della politica.

In cerca di egemonia

In che senso il Teatro Valle occupato di Roma è un bene comune e quali sono le implicazione del suo essere bene comune sulle forme giuridiche della sua futura gestione? Innanzitutto va detto che il Teatro Valle è oggi, proprio come il territorio della Valle di Susa e l’acqua bene comune, uno straordinario laboratorio costituente di una nuova legalità, alternativa tanto alla logica costituita del profitto (privato) quanto a quella del potere (pubblico). Il Teatro Valle acquista senso come bene comune in quanto funzionalizzato oggi, nell ambito di un fondamentale atto di lotta e di coscienza collettiva, al grande disegno, destinato ad avere ricadute intergenerazionali evidenti, di dotare anche l’Italia di un centro dedicato alla elaborazione di una propria drammaturgia (ne ha scritto su questo giornale, Gianfranco Capitta il 6 luglio).

La narrazione che facciamo del preseente trasmetterà il testimone della nostra cultura a chi verrà domani, proprio come oggi noi abbiamo maturato la nostra identità collettiva sulle spalle dei nostri antenati. Questa prospettiva di lungo periodo dà senso all’idea che la cultura è un bene comune, qualcosa che va ben oltre l’asfittiica idea del «qui e adesso» che caratterizza la logica aziendalistica che si è impadronita della narrazione dominante negli ultimi vent’anni. La «buona azione civile» degli ocupanti del Teatro Valle, come quella dei manifestanti No Tav, degli attivisti referendari, e di tanti altri cittadini attivi nelle vertenze aperte nel paese (dal movimento dei precari dell’Università, alla lotta contro gli inceneritori, a quella contro le basi Nato, per il recupero democratico dell’Aquila o contro lo sfruttamento sui luoghi di lavoro) mostra che in Italia oggi si sta diffondendo una nuova egemonia dei beni comuni. Questa nuova egemonia, deve potersi rappresentare in forme drammaturgiche nuove, anche per riscattarci a livello interenazionale dei nostro modo particolarmente vergognoso di interpretare il ventennio della «fine della storia» (che di per sé costituisce una fase assai vergognosa del cammino dell’uomo ocidentale).

Il conributo del Teatro Valle occupato a questo recupero di immagine internazionale del paese è già adesso importante (eccezionale il numero e la qualità degli attestati di solidarietà internazionale già incassati dagli occupanti); lo sarà molto di più se la battaglia sarà vinta e il «Centro di Drammaturgia Italiana» sarà realizzato. Soprattutto sarà un contributo inestimabile se questo esempio virtuoso saprà contaminarne altri, (occorrono pratiche serie di occupazione dei beni comuni: penso al centro sociale Tijuana di Pisa) fino a costruire una rete capace di riconquistare la cultura come bene comune (con tutte le ricadute politiche, culturali ed economiche di una tale impresa). Il Teatro Valle si candida a divenire, in questa fare storica italiana in cui, grazie alla nuova consapevolezza dei beni comuni una nuova egemonia si sta configurando, una delle più interessanti pratiche di governo democratico dei beni comuni. Una pratica che, godendo di una relativa calma rispetto alla brutalità poliziesca con cui altre declinazioni dei beni comuni vengono affrontate (l’esempio del territorio della «Libera Repubblica della Maddalena» insegna), si sta affinando ed ambisce a proporsi come modello di riferimento per per ogni progetto alternativo di gestione della cultura.

Deliri neoliberisti di onnipotenza

Il Valle è il più antico teatro di Roma, e si colloca propro nel centro della città alle spalle del Senato. L’occupazione fin dall’inizio ha visto coinvolte personalità importanti del mondo della cultura e dell’arte ed è stata destinataria di una buona copertura mediatica. L’occupazione è iniziata subito dopo la vittoria referendaria del 13 giugno, che ha mostrato in modo non equivoco che la maggioranza del paese si rende conto che la retorica sulla «fine della storia» ha perso la sua forza performativa e che ocorre adesso «invertire la rotta» rispetto ai delirii di onnipotenza del neoliberismo.

Gli occupanti del Teatro Valle inoltre hanno da subito dimostrato un talento incredibile nell’interpretarlo come «bene comune», offrendo gratuitamente alla cittadinanza una programmazione di buon livello ed un luogo sempre aperto di dibattito politico e culturale. È impossibile, per chiunque ci passi anche solo una sera, non voler bene alle ragazze e ai ragazzi che con grande sacrificio personale si battono per scongiurare la privatizzazione ed il conseguente scempio di questo magico «luogo comune» faro della cultura italiana fin dala metà del XVIII secolo. Inoltre, non è in vista qui, almeno nell’immediato, un’opportunità (irresistibile per tanti spiriti miserabili che ci governano) di arraffare, a qualunque costo sociale, una grande quantità di denaro pubblico come nel caso del tunnel della Tav, sicché l’urgenza di sgomberare con la violenza sembra meno pressante che altrove. Un attacco militare al Teatro Valle lo trasformerebbe inevitabilmente in una piazza Tahir di casa nostra, sicché il nostro regime agonizzante farà bene a guardarsi dal correre questo rischio.

In questo contesto ci sono le condizioni di relativa stabilità che consentono di apprezzare pienamente e rasformare in un progetto giuridico le caratteristiche del Valle come bene comune. L’itinerario discusso nel corso dell’occupazione potrebbe articolarsi in una serie di «fasi giuridico-formali» all’interno delle quali tuttavia la sostanza del bene comune, declinato per così dire dal sotto in su, caratterizza l’intiero procedimento, mantenendo un sistema flessibile ed adattabile alle esigenze della lotta. Il senso del percorso sarebbe quello di riempire di significato «dal basso» i forti appigli costituzionali che non solo promuovono la cultura, l’identità e la libera espressione a «bisogni fondamentale della persona» ma che (il riferimento è all’articolo 43 della Costituzione) legittimano percorsi di autogestione ad opera di utenti e lavoratori, rendendo il nostro processo «costituente» dei beni comuni l’attuazione (in ritardo) di un disegno e di una visione costituzionale di lungo periodo fino ad oggi tradita in modo bipartisan. Fra gli strumenti di autonomia attraverso i quali si forgia il diritto delle persone, (il diritto dei privati si diceva un tempo) ve ne sono alcuni nettamente interpretabili in quello spirito del «noi», collettivistico, solidaristico, plurale ed ecologico (ma sempre attento a non tarpare le ali agli spiriti liberi) che rende già oggi il Valle un bene comune.

La sostanza costituzionale

In questo spirito del «noi», attento ai diritti e agli obblighi costituzionali nei confronti degli altri e della comunità ecologica di riferimento, i beni comuni sono funzionalizzati alla soddisfazione di bisogni fondamentali della persona, collocati fuori commercio, e governati anche nell’interesse delle generazioni future, come previsto dal Disegno di Legge Delega presentato dalla Commissione Rodotà sui beni pubblici. Questo programma di governo ecologico dei beni comuni è indifferente rispetto alla forma giuridica pubblicistica o privatistica, perché entrambe sono forme in quanto tali compatibili o incompatibili con la sostanza costituzionale dei beni comuni. In effetti, l’azienda pubblica può essere verticistica, partitocratica e burocratica e l’ingerenza bruta del ceto politico su scelte che dovrebbero fondarsi sul sapere e non sul potere è stata più volta stigmatizzata dagli occupanti del Teatro Valle.

D’altra parte, la gestione privatistica for profit, in un contesto quale quello della drammaturgia di qualità che certamente non può produrre profitti diretti, altro non farebbe che causare l’ennesimo trasferimento di risorse pubbliche ad interessi privati ed è questa la ragione per cui al Valle occupato si avversa la «messa a gara» della gestione. Chi scrive sta lavorando assieme agli occupanti su un processo di istituzionalizzazione del «Valle bene comune» studiando le nuove forme di governo partecipato dei beni comuni che rompano con la logica della distinzione fra titolo di proprietà e gestione inserendo garanzie effettive di un governo del teatro che sia incentrato allo spirito dell’apertura, della trasparenza (codice etico) e della corresponsabilità politico-culturale solidale. Il primo passo sarà probabilmente la costituzione di un «Comitato per il Valle Bene Comune» che metta da subito in pratica, embrionalmente almeno, le garanzie e le forme di governo che potrebbero portare ad una «Fondazione Pubblica Valle Bene Comune», dotata di un proprio fondo, di un proprio organico non precarizzato, e di proprie modalità di funzionalmento aperto. Tale struttura, capace di collegare intimamente il bene culturale comune alla comunità di utenti e lavoratori che gli danno vita, potrà lottare, nelle forme del diritto e non più sontanto in quelle della politica, per conquistare un diritto soggettivo di natura costituzionale (e quindi sottratto alle variabili contingenze della politica rappresentativa) ad un equo e trasparente finanziamento pubblico di lungo periodo, possibilimente sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica.

La partita è ancora lunga ed affascinante e l’occupazione ne è parte irrinunciabile. Ne vale la pena.

Da Il Manifesto

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