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L’uomo non è buono: il Coronavirus, il Capitale, lo Stato, le mucche e noi

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(conferenza di Franco Piperno alla scuola di Bologna, il due d’aprile 2020)

Nel pericolo ciò che non uccide, salva.
W. Benjamin.

Di questi tempi, una riflessione, che non sia apologetica, sui saperi e le prassi scientifiche non può non riferirsi, prendendolo come dato fattuale di partenza, alla pandemia del CoronaVirus-19, che è in corso di svolgimento a livello planetario.
A scanso di omissioni e di ogni spiegazione in termini di complotto, rifiutando insomma le indignazioni facili e pur tuttavia mal riposte, bisogna subito dire che il Covid19 non è stato fabbricato direttamente dagli gnomi al servizio del Kapitale o unicamente dalla forsennata trasformazione capitalistica dell’agricoltura – a riprova basterà ricordare che la mutazione di microbi animali in agenti patogeni umani non è certo un processo nuovo e nemmeno recente: esso appare già nel neolitico, con l’invenzione dell’agricoltura, quando ha inizio la deforestazione per estendere le terre coltivabili e l’addomesticamento degli animali per farne bestie da soma o da macello; gli animali, a loro volta, hanno contraccambiato come meritavamo, ci hanno offerto più di un regalo avvelenato, virale appunto, a seconda della loro specie: così dobbiamo ringraziare i bovini per il morbillo e la tubercolosi, le anatre per l’influenza, i maiali per la tosse, le zanzare per la malaria e, forse, i cavalli per la verola, e ancora i topi per la peste e così via.
Detto altrimenti, la situazione che, nei giorni nei quali ci capita di vivere, è venuta via via emergendo a livello planetario, cioè di mercato mondiale, non è uno scontro di classe, strutturale, tra operai e capitale, una contraddizione specifica del modo di produzione capitalistico (esigenze di crescita della valorizzazione e del controllo dispotico sul lavoro vivo, smantellamento del settore industriale pubblico a favore del privato, unificazione del mercato mondiale, ecc.); no, essa è piuttosto il delinearsi di un  profondo conflitto tra natura umana e natura non-umana, tra la nostra specie e tutte le altre siano esse vegetali o animali.

A ben vedere, infatti, il manifestarsi sempre più frequente di un’attività microbica – che vive, per così dire, in latenza nelle specie animali ma che evolve in pandemie una volta che fa il salto di specie impiantandosi nel corpo umano – rende evidente come la questione dei mutamenti climatici e quella della pandemia siano due aspetti temporali della stessa questione: la prima appare solo nel lungo periodo la seconda invece nel breve.
Infatti, sia detto per chiarezza: la pandemia non è il portato dei selvatici, che sarebbero infestati da microbi patogeni mortali, in agguato, pronti a infettarci. La grande maggioranza dei microbi impiantati nei selvatici vivono come ospiti graditi e non fanno alcun male.
Le cose cambiano radicalmente, e precipitano verso la tragedia epocale quando la deforestazione, la cementificazione, l’urbanizzazione sfrenata creano le condizioni per le quali questi microbi vengono in contatto col corpo umano; e alcuni tra di essi si ritrovano a loro agio e vi si adattano.

Tra le specie che sono in pericolo per via della attività antropica vi sono molte piante medicinali e numerosi animali che per secoli hanno fornito agli esseri umani la base stessa dell’attività farmaceutica.
Le specie che riescono a sopravvivere lo fanno adattandosi negli spazi ristretti lasciati loro dalla attività antropica; ma così aumenta la probabilità di contatti ravvicinati e ripetuti, col risultato di facilitare il passaggio dei microbi nel nostro corpo, dove, da esseri innocui, si trasformano spesso in agenti patogeni mortali.

A titolo d’esempio, riportiamo l’Odissea del Pipistrello nella ricostruzione di Sonia Shah: l’abbattimento della foresta costringe il pipistrello a spostare la sua dimora sul melo o sul pero di un giardino o di una cascina; un essere umano ingerisce della saliva del pipistrello, mordendo un frutto che n’è ricoperto; oppure tentando di scacciare e di uccidere questo visitatore inopportuno si espone così ai microbi che si annidano nei tessuti dell’animale.
È proprio in questo modo che una moltitudine di virus, di cui il pipistrello è portatore sano, riesce a infettare centinaia di esseri umani.
Questo è quel che è accaduto per Ebola, ma anche per Nipah o Marburg. Il fenomeno è noto come «salto della barriera di specie». Anche se questo salto non avviene molto spesso, la sua frequenza è comunque sufficiente per permettere ai microbi ospitati nei tessuti del pipistrello d’adattarsi all’organismo umano, per poi evolvere fino al punto di divenire patogeni.

Il minaccioso emergere nel corso dell’ultimo secolo di fenomeni pandemici non è provocato solo dalla distruzione degli habitat delle specie selvatiche; ancor di più dalla loro sostituzione con i dispositivi dell’allevamento industriale. In queste aree, equivalenti complessivamente a tutto il continente africano, la specie umana, per soddisfare la sua fame di carne, alleva delle specie destinate alla macellazione: milioni di bestie, in spazi minimi, una sull’altra, trascorrono la loro breve vita forzate all’ingrasso, private di ogni sensualità, in attesa d’essere abbattute, senza mai aver veramente vissuto.
Si tratta di un dispositivo ideale per permettere ai microbi di mutarsi in agenti patogeni mortali.
Così, delle specie, che in natura non sarebbero mai entrate in contatto, si incastrano, l’una accanto all’altra: i microbi si trovano facilitati a passare dall’una all’altra. Questo è quel che è accaduto nei primi anni 2000, col coronavirus responsabile della epidemia di sindrome respiratoria acuta severa ‘SRAS ); e questo o un fenomeno analogo potrebbe essere all’origine del coronavirus clandestino, il Covid-19, che assedia in questi mesi i luoghi dove abitano gli umani.

Una digressione tecnica

Si usa dire, quando si descrive la riproduzione allargata di una moltitudine di virus, che si tratta di una crescita esponenziale in funzione del tempo. Si intende con questa espressione descrivere quantitativamente una situazione dove, per esempio, posta uguale a 100 la popolazione iniziale, un tasso di crescita del 7% dopo una unità di tempo – sia essa un giorno, un mese o forse più – comporta che la popolazione sia divenuta 107. Alla fine di una altra unità di tempo l’incremento del 7% non sarà sulla popolazione iniziale ma sul nuovo valore ovvero su 107; e così via.
Per capire come il processo esponenziale funziona si può ricorrere, per coloro che hanno una scarsa familiarità con le matematiche, a una ragionevole approssimazione, la cosiddetta «legge del settanta» che può essere così enunciata: se il tasso di crescita è X per cento, la popolazione iniziale raddoppierà dopo 70/X unità di tempo. Così al 10% il raddoppio avverrà dopo sette unità di tempo; al 6% in circa dodici unità temporali; e continuerà a raddoppiare ogni sette anni o ogni dodici, a seconda del tasso di  crescita.
La crescita esponenziale non può durare per sempre, altrimenti di raddoppio in raddoppio diventerebbe infinita, e l’infinito è un concetto illusorio, sia per il senso comune che per la matematica.
Infatti, poiché la crescita avviene in un ambiente ( uno spazio-tempo di dimensioni finite) la crescita si nutre dell’energia contenuta in questo ambiente, energia essa stessa finita e quindi destinata a esaurirsi.
Detto altrimenti, nell’ambiente dove si svolge la crescita, a causa di questa stessa crescita, si sviluppano fenomeni, detti in gergo non lineari, che contrastano la crescita, la ridimensionano fino a spegnerla.
Per esempio, nel caso dei virus, la crescita della popolazione dei patogeni ha luogo fino a quando ci sono dei tessuti da infettare; una volta che il contagio ha coinvolto quasi tutti i corpi a disposizione, la crescita della moltitudine dei virus si contrae, diviene una decrescita esponenziale, fino a spegnersi o quasi.

Qui sarà bene ricordare che il fenomeno della crescita accelerata o esponenziale non è una esclusività né dei virus né dei batteri né dei microbi più in generale. Tutte le specie, animali o vegetali che siano, attraversano periodi di crescita e così come di decrescita accelerata.
In particolare, l’umanità, l’animale uomo, si trova in una fase di crescita esponenziale; a far data, grosso modo, dal XVI secolo; e destinata, secondo i demografi, a toccare il suo picco a metà di questo millennio – eravamo un miliardo a mal contare nel Rinascimento, siamo ora con buona approssimazione oltre sette miliardi, saremo più o meno dieci miliardi alla fine del XXV secolo – microbi e catastrofi cosmiche permettendo.
Ma forse quel che è intellettualmente più intrigante quando si esaminano le crescite esponenziali, non sono tanto quelle che si svolgono secondo la maestà della «antica e onnipossente natura-non-umana»; piuttosto quelle che caratterizzano fenomeni inventati di sana pianta dagli esseri umani, quelle riconducibili senza residui alla socialità della nostra natura.
Ve ne sono molte, in ogni caso assai più di quel che ci si potrebbe aspettare, vista la sproporzione tra uomo e natura.
A questo proposito, è il caso di ricordare in particolare un dispositivo economico-politico che regola segretamente l’abisso delle nostre emozioni, ma al quale siamo talmente assuefatti da rimuoverne, a livello di senso comune, pressoché ogni consapevolezza del suo esistere.
Ci riferiamo al dispositivo del denaro nella forma dell’interesse composto. In breve si tratta di questo: se dispongo di una somma di 100 euro (o l’equivalente in dollari o sterline o rubli, ecc.) esistono dei luoghi pubblici, noti come banche, dove posso recarmi per concordare di quanto verrà incrementata la mia somma iniziale anno dopo anno senza che io debba in nessun modo curarmi della cosa. Così, se l’interesse composto che mi viene accordato è del 6% in 100 anni si raddoppierà un po’ più di otto volte ovvero diverrà quasi 26.000 euro, o dollari o rubli. È l’interesse composto, il denaro che compie miracoli: non unità di conto né di scambio ma il denaro che produce denaro, il denaro nella sua terza determinazione, per dirla con Marx.
In quanto interesse composto il denaro trascura il presente e promuove una sorta di dittatura del futuro: piuttosto che dare 100 euro a mia nipote perché li spenda oggi conviene vincolarli per qualcosa che non esiste, per quando sarà divenuta ella stessa nonna.

Secondo Sohn-Rethel, l’interesse composto compare in Lidia subito dopo l’invenzione del denaro e il superamento del baratto con lo scambio mercantile.
Per secoli, tuttavia, la pratica dell’interesse composto è stata ritenuta peccaminosa e bollata come usura; ad esempio, in Occidente, fino al basso Medioevo, era lecita solo per le comunità non-cristiane.
Poi, all’inizio del Rinascimento, a Firenze, nasce la «banca», ovvero quel dispositivo che promuove l’epoca moderna proprio legalizzando l’usura e assicurandone la diffusione nel continente europeo.

Insomma, possiamo concludere che l’interesse composto è una sorta di virus virtuale che, entrato per tempo nelle nostre vite, fa anche più male di quello reale.

La pandemia e i saperi esperti

La pandemia globale è, come scrive Alain Supiot, un «fatto sociale totale», un fenomeno che scuote l’intera società e le sue istituzioni.
Il tentativo di comprenderlo richiede preliminarmente di non decomporlo secondo lo spettro dei saperi (biologico, geografico, storico, economico, giuridico, demografico, politico, psicologico, economico e via dividendo ) perché solo con una appercezione totale riusciamo a coglierne l’essenziale.
A fronte di un fatto sociale totale i saperi scientifici non possono limitarsi a spiegare il fenomeno ma devono porre sotto indagine anche coloro che l’osservano nonché i risultati dell’ osservazione.
Interrogarsi sui propri limiti, e quindi sulle proprie responsabilità, non è una abitudine diffusa tra gli esperti, tra coloro che si suppone possiedano i saperi scientifici. Il mettersi in dubbio – che è la vera attitudine scientifica – diviene un esercizio sempre più difficile da quando, con la modernità, coloro che hanno il potere economico politico, non potendo più fondare l’esercizio di questo potere sull’autorità religiosa, pretendono di amministrare scientificamente gli uomini come se fossero delle cose.
È così accaduto che diversi saperi esperti o «scienze», come la biologia o l’economia o il diritto, nel corso degli ultimi due secoli, siano divenute dei riferimenti normativi volti a indirizzare il potere politico e a ristrutturare l’ordine giuridico.
L’attuale «stato d’eccezione», come ha osservato Giorgio Agamben, offre una descrizione qualche po’ paradossaledello situazione presente : il governo agisce legittimato da un «comitato tecnico scientifico» e restringe drasticamente quella che è la libertà elementare fondamentale, la libertà di muovere il corpo; la corte costituzionale da parte sua tace su questa plateale violazione della costituzione repubblicana.
Quando la scienza diviene fondamento del vero non solo permette al potere politico di scaricarsi delle responsabilità che gli competono ma finisce con lo svolgere il ruolo che apparteneva precedentemente alla religione, divenendo scientismo ovvero secondo il caso biologismo, economicismo e così via.
Già a partire dal XX secolo si è affermata la tendenza, tanto nel modo di produzione capitalistico come in quello detto socialistico, a fondare le istituzioni sulla scienza piuttosto che a fondare la libertà dell’attività scientifica, sulle istituzioni.
Il risultato è un «governo dei numeri» che rappresenta gli uomini e le società come esseri programmabili, sottoponibili a esperimenti.

Un governo siffatto è per sua natura estraneo e nemico delle pratiche democratiche che subordinano il diritto alla diversità e imprevedibilità dell’esperienza sociale.
Come scrive Supiot, ogni malato ha della sua malattia un’esperienza che il suo medico non ha.
Il più umile tra coloro che lavorano in contatto diretto con le persone, per circoscrivere e alleviare la loro sofferenza, ha un’esperienza della pandemia in corso che di sicuro manca a coloro che lavorano solo sui numeri e su ciò che è virtuale.
Ecco allora che il virus, produttore non annunciato di un fatto sociale totale, svolge la sua opera buona rimettendo in discussione la legittimità delle disuguaglianze che strutturano la divisione del lavoro, o la previdenza sociale o i sevizi pubblici. Perché, a ben vedere, un ospedale non è un’azienda.
Così, per un momento almeno, la crisi squarcia l’illusione economista secondo la quale il lavoro umano non è altro che una merce, sia pure particolare; e il suo valore è stabilito, in ultima analisi, dal mercato.

Ma v’è di più: la pandemia mette in luce una l’organizzazione della sanità strutturata non attraverso i luoghi, con servizi che tengano conto della specificità territoriali; ma tramite una rete di ospedali allocati per lo più nei capoluoghi, ospedali pubblici e privati, gestiti come una catena d’aziende. All’interno di queste aziende, quasi sempre in dissesto, il lavoro dei medici è parcellizzato secondo le svariate specializzazioni medicali.
Il malato entra in contatto con i servizi sanitari di solito tramite il cosiddetto «medico di base» che ha il compito di individuare le patologie del malato e indirizzarlo verso gli specialisti che operano per la gran parte negli ospedali.
Il risultato di una simile sanità è che nessuno si occupa del malato – che fino a prova contraria è un essere unitario, composto di mente e corpo – e tutti curano le malattie… senza spesso venirne a capo.
Il medico di base è, a vero dire, un burocrate, più o meno cortese: si limita, dopo aver interrogato distrattamente il malato, senza mai smettere di conversare al telefono con altri suoi pazienti o amici vari, a redigere una breve anamnesi, dove, in buona sostanza, vengono indicati i nomi degli specialisti che dovranno occuparsi del malato: tra una settimana quando va bene oppure un mese o forse più.
Se il medico di base è un burocrate, gli specialisti certo non lo sono: essi infatti appartengono a quella categoria di lavoratori, creata dal modo di produzione capitalistico, che «sanno tutto su niente». Come gli operai della fabbrica fordista, sono degli «idioti specializzatiu; e.g. conoscono il funzionamento della rotola in ogni dettaglio ma ignorano o quasi le articolazioni dell’alluce. Fach-Idiot, così li chiamavano gli studenti tedeschi nelle assemblee del ’68.

Infine, per ultima ma non ultima, una considerazione: grazie alla pandemia in corso ecco mostrarsi senza più veli lo spreco e l’inefficienza nella quale versa l’industria e in particolare la ricerca farmaceutica.
Nel mondo, oltre che per fame, sono milioni gli esseri umani, in primo luogo i bambini, che muoiono a causa di malattie, epidemie, pandemie per le quali da tempo si sono trovati in Occidente gli antidoti, i rimedi, i vaccini in grado, quando non di guarire almeno arginare il contagio e dispensare le cure.
Centinaia di milioni di esseri umani continuano a morire di vaiolo, morbillo, influenza, poliomielite, tubercolosi e via elencando perché l’industria farmaceutica realizza profitti enormemente maggiori occupandosi della ricerca e della produzione di farmaci per i ricchi – come i trapianti di organi o le demenze senili o le creme per colorare e poi sbiancare il viso, ecc. – di quanto possa conseguirne producendo medicine per le malattie banali, quelle che affliggono l’immensa platea dei poveri.

Infatti, pressoché smantellati i piccoli laboratori di ricerca che operavano nell’università, solo la grande industria farmaceutica è in grado di gestire un piano di ricerca sistematica sui vaccini — piano reso tanto più urgente dalla previsione, condivisa dalla stragrande maggioranza dei ricercatori, sull’inevitabile apparire di nuovi microbi patogeni nella misura in cui la popolazione umana continuerà ad aumentare – senza considerare il ritorno di virus già apparsi e poi precipitati allo stato di latenza in attesa di riemergere.
Questa strapotere dell’industria farmaceutica è poi garantito dalle regole che disciplinano il regime dei brevetti.
Il brevetto è un dispositivo regolato per la prima volta dal senato dellaVenezia rinascimentale per assicurare la diffusione delle scoperte, e.g. quelle relative alla lavorazione del vetro, tradizionalmente custodite in segreto. Brevettando la sua invenzione, l’artigiano la possiede legalmente, i.e. ha diritto a venderla, e questo diritto ne garantisce la circolazione.
Ai nostri giorni, nell’industria farmaceutica, assistiamo a un rovesciamento paradossale della funzione originaria del brevetto, rovesciamento che si risolve in una vera e propria beffa: il brevetto viene acquistato e per così dire secretato, messo in mora, per evitare che la scoperta porti alla produzione di un nuovo farmaco magari più efficace; e come tale in grado di competere con successo con dei prodotti che la stessa industria che compera il brevetto ha già immesso nel mercato.

Il corona virus e l’individuo sociale: che fare?

Non v’è dubbio che questi primi mesi dell’anno 2020 segnano una tragica cesura tra «il prima e il dopo». Niente sarà come prima, si sente dire in giro non senza un abissale malessere.
Quasi se il virus, con il suo diffondersi esponenziale sull’intero pianeta, avesse stracciato per sempre il velo che, a far data almeno dalla modernità, ha ricoperto il «reale», nascondendolo.
Agli occhi di centinaia di milioni di donne e uomini il progresso, la civilizzazione, appare essere una manifestazione ideologica, di falsa coscienza che ha portato le nostre società sull’orlo del baratro, propriamente della morte collettiva.
Val la pena ribadire che questa tragedia epocale non è il portato inatteso dello scontro tra operai e padroni, e neppure una conseguenza esclusiva dell’industrializzazione, sia essa capitalistica o socialistica.
Qui è all’opera una contraddizione originaria, totale, forse insanabile: quella tra uomo e natura.
Secoli di progresso hanno conseguito una colonizzazione delle coscienze, una mentalità posseduta dalla vanità consumatrice; dove la misura del benessere umano avviene  in termini di crescita esponenziale della produzione; mentre i luoghi, la diversità dei luoghi, abitati da animali e piante, sono divenuti sedi commerciali, punti di vendita omogenizzati e ingoiati dal mercato globale; e, d’altro canto, lo sviluppo della conoscenza si trova ormai subordinato alla necessità dell’industria di creare nuove merci per evitare la saturazione dei mercati.
Nel mondo contemporaneo, soprattutto nei paesi più ricchi, l’essere umano perdendo il contatto con la sua animalità, sembra essere fuoriuscito dai suoi limiti e trascorrere la vita privandosi del suo stesso corpo, in una realtà virtuale.
Ora la storia mostra con ogni evidenza che l’uomo ha bisogno di aderire all’animalità, al corpo.
Questa bisogno d’adesione spiega perfino la capacità di seduzione esercitata in origine dalla scienza moderna; e ancora oggi, in Asia e in Africa, costituisce gran parte della potenza, intellettualmente attrattiva, delle religioni tradizionali.
A contrario, è proprio l’abbandono di questo contatto la causa principale di quella «angoscia inutile» nella quale sembrano menare la vita i cittadini delle società dette avanzate.
Infatti, quando si perde il rapporto con il reale, i soli criteri valoriali in grado di dare continuità all’attività intellettuale sono il «cambiamento» e il «nuovo». Ma se risulta ovvio come questi siano elementi indispensabili, altrettanto ovvio è che, se divengono unici, come accade ai nostri giorni, essi risultano catastrofici per la vita sociale: perché allora finiscono ciecamente col valorizzare per poi svalorizzare qualsiasi cosa.
Così, sia detto per inciso, quegli intellettuali che s’appassionano per le sorti dell’Africa dovrebbero farsi carico non solo di «esportare» le nostre numerose verità ma anche di «importare» qualcuna di quelle che si coltivano in quel continente; una delle quali potrebbe appunto essere il senso del reale, il rapporto con l’animalità degli umani.
Rispetto alla modernità, l’epoca nella quale siamo appena entrati, grazie al CoronaVirus, richiede un soggetto collettivo costruito sulla scal non già della nazione o della classe sociale bensì sulla dimensione della specie.
Bisogna riconoscere che il movimento ambientalista ha, per parte sua – in una certa misura, e sia pure senza riuscire a evitare le ingenuità del catastrofismo – posto la questione dell’animalità, del reale, dei luoghi: il rapporto cioè tra tutte le forme di vita che abitano il pianeta Terra.

A ben vedere, un tale soggetto esiste da tempo. Ad esempio, Marx lo chiama individuo sociale» e lo caratterizza in quanto «portatore di una coscienza enorme, una coscienza all’altezza della specie».
Questo soggetto non agisce nella prospettiva della presa del potere politico ma in quella, di per sé più mite, dove mezzo e fine si convertono l’uno nell’altro: il mutamento delle abitudini di vita e la riconciliazione con la natura non umana.
Si potrebbe dire che la strategia spontanea dell’individuo sociale sia riconoscere i suoi stessi limiti in quanto appunto limiti della specie; mentre il principio d’individuazione che lo caratterizza lo porta ad agire, in una società come la nostra incentrata sul virtuale, per gesti simbolici.
C’è da aspettarsi che i primi tra questi gesti saranno quelli rivolti agli animali e in particolare ai mammiferi, per via della prossimità di specie.

Forse dopo un censimento, luogo per luogo, degli allevamenti industriali, ci ritroveremo, in migliaia, ad abbattere i recinti di questi stabilimenti della vergogna, per  liberare mucche e buoi ammucchiati gli uni sugli altri – in fondo si tratta di nostri parenti, sia pure alla lontana; insomma poco meno di cugine e cugini.

Da orestescalzone.wordpress.com

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