La città è la terra dei neri (di Grace Lee Boggs e James Boggs)
In un momento in cui la linea del colore è al centro di una battaglia di politicizzazione alle nostre latitudini, abbiamo introdotto e tradotto “The City is the Black Man’s Land” dei coniugi Boggs. Scritto nel 1966, l’articolo ci pare un utile stimolo al dibattito per la sua inattualità e predittività al contempo. Qui si può leggere la versione originale in inglese, qui scaricare la nostra traduzione.
La città è la base che dobbiamo organizzare così come erano organizzate le fabbriche negli anni Trenta. Dobbiamo lottare per controllare, per governare le città, così come i lavoratori lottarono per controllare e governare le fabbriche negli anni Trenta.
Tra il 1963 e il 1964 si produce un frattura all’interno del movimento black statunitense. Il movimento per i diritti civili che trova in Martin Luther King la sua figura emblematica (ucciso nel 1968), è attraversato da spinte sempre più radicali e dal nascere di nuovi gruppi e organizzazioni, ma è soprattutto un ciclo di riot nei ghetti neri nell’estate del 1964, oltre a una impressionante sequenza di scioperi e manifestazioni, a rendere insanabili le fratture e ad aprire a una nuova fase il movimento nero. Il 1965 conduce a una radicalizzazione ulteriore, con l’omicidio di Malcolm X (21 febbraio), la fondazione di una Organization for Black Power a Detroit (primo maggio) e la rivolta di Watts (agosto):
sei giorni di disordini, 34 morti di cui 25 neri, più di 1000 feriti, 40 milioni di dollari di danni e quasi 4000 persone di colore arrestate. Una rivolta che sarà contenuta dalla polizia nel quartiere di Watts, un’area geografica relativamente limitata, caratterizzata da casette monopiano, ma anche dalla presenza di blocchi di case popolari costruite durante la guerra per alloggiare una popolazione nera in espansione (il numero dei neri a Los Angeles raddoppia tra il 1940 e il 1944 e nel 1965 è nove volte più grande). La rivolta di Watts, ben più di quelle che l’hanno preceduta, è una rivolta giovanile, scandita dalle radio nere, unica espressione mediatica aperta allora alle minoranze. Dalle radio venne preso lo slogan che scandì quei giorni e quei riots, “burn baby, burn”. I sei giorni di sommossa di Watts, segnano uno spartiacque nelle relazioni razziali e nella coscienza dei neri americani. All’inizio è la reazione spontanea alla brutalità dei poliziotti bianchi, poi la faccenda assume connotati del tutto politici. Watts segna inoltre il fallimento di Martin Luther King e la nascita del gruppo del Black Panther. La storia venne riportata alla ribalta circa trent’anni dopo, quando a Los Angeles scoppia un’altra rivolta anch’essa causata per motivi razziali. Si trattò infatti di una delle rivolte più crude e violente della storia degli Stati Uniti d’America, superata solo da quella del 1992 per numero di danni[1].
E’ in questo clima incendiato che Grace Lee Boggs e James Boggs scrivono “The City Is the Black Man’s Land”, che esce nell’aprile del 1966 su The Monthly Review. La coppia, lei intellettuale di origini cinesi, lui metalmeccanico nero, ha militato nella Johnson Forest Tendency (che prende il nome dai fondatori C.L.R. James e Raya Dunayeskaya e poi diverrà Correspondence), una corrente del trotzkismo statunitense (dal quale lentamente si separa) che propose un’elaborazione spesso considerata come proto-operaista in virtù dell’attenzione che dedicò all’autonomia di classe. Svilupparono infatti forme di inchiesta operaia che arrivarono anche in Italia grazie alla traduzione fatta da Danilo Montaldi di “The American Worker”, contenente un resoconto della vita operaia a firma Paul Romano e un saggio di Grace Lee Boggs.
La coppia vive a Detroit (dove James lavora alla Chrysler) epicentro del sovversivismo nero in quegli anni. Inizia qui una torsione nella loro riflessione che li porta a mettere in discussione l’impianto marxista (e a rompere di conseguenza con C.L.R. James) mettendo sempre più al centro la razza. Il razzismo delle istituzioni e anche quello subito da parte dei sindacati, oltre all’esplosione del movimento nero, portano in questo articolo a una delle prese di posizione più radicali in merito, in cui il separatismo si fa netto (pur senza indirizzarsi verso il nazionalismo nero che si svilupperà in quegli anni). “The City Is the Black Man’s Land” si inserisce nel crescente dibattito attorno al nuovo paradigma del Black Power, dunque sul tema del potere aperto da Malcolm X e passato alla storia soprattutto con le Pantere Nere – organizzazione più rilevante di quella che era tuttavia una galassia di strutture e percorsi che ebbe un significativo influsso, negli anni successivi, sull’autonomia in Italia.
Il saggio qui tradotto va quindi decisamente storicizzato, non solo perché molte delle previsioni ivi contenute si riveleranno “sbagliate” (al netto ovviamente della violentissima repressione che subirà il movimento), ma anche perché chiaramente molte delle direzioni politiche che indica, passati oltre cinque decenni, non possono che essere come minimo soppesate per una eventuale traduzione – assumendo il peso della storia. Ciò che tuttavia rende interessante il testo sono almeno tre nodi, sui quali può essere interessante riflettere per l’oggi. Il primo è il suo valore storico, che consente di illuminare in modo differente ciò che è successo dopo l’edizione di questo testo e che lo faceva concentrare sulla città come spazio politico primario. Il secondo è il tema del lavoro e della rivoluzione tecnologica. Il terzo quello della dimensione internazionale. Tutti chiaramente visti dalla prospettiva peculiare di militanti rivoluzionari nel movimento del Potere Nero.
L’articolo richiama la dichiarazione del vice presidente Humphrey: “la più grande battaglia che stiamo combattendo oggi non è quella nel Vietnam del sud; la battaglia più dura è nelle nostre città”. Alla quale i Boggs aggiungono: “ma la guerra non è solo nelle città americane; è per le città”. Gli anni Sessanta sono infatti un momento molto particolare per la vita urbana statunitense. La grande migrazione dei neri vede infatti i centri urbani come meta, e al contempo si assiste al fenomeno della cosiddetta “white flight”, con le classi medie e operaie bianche che si spostano invece verso i suburb rincorrendo il sogno americano della casetta con giardino e dello spostamento in automobile. L’inedita concentrazione nera nella metropoli tuttavia non attiva uno dei meccanismi che avevano contraddistinto il modello Americano, ossia l’integrazione dei migranti nel governo della città. Quella che i Boggs chiamano una cittadinanza di serie B è dunque uno dei fattori della rivolta nera. Nell’articolo si sostiene inoltre che l’unico modo nel quale questo problema potrà essere risolto è una rivoluzione o, sul versante opposto, diverse forme di brutale repressione, tra cui uno spostamente forzato dei neri nelle riserve come fu per gli indiani. Ciò che è accaduto, oltre alla repressione del movimento, è stata da un lato l’implementazione, a partire dal decennio successivo, di una incarcerazione di massa dei neri che oggi ne racchiude centinaia di migliaia (si veda “Costruzione della razza e incarcerazione di massa dalle origini a Obama“), dall’altro la progressiva espulsione dei neri e dei poveri dai centri urbani grazie a “raffinati” meccanismi che oggi, in maniera limitante, definiremmo di gentrification. Negli anni Settanta e Ottanta infatti si assisterà al progressivo ri-acquisto da parte del grande capitale dei terreni ormai svalorizzati dei centri metropolitani, a cui si uniscono le grandi opere infrastrutturali che trasformano a partire dai Sessanta l’urbanità statunitense e che trovano la figura iconica in Robert Moses e nel suo nuovo disegno di New York, spesso paragonato ai lavori di Haussmann a Parigi di un secolo prima in risposta all’insorgenza del 1848. E’ su queste basi che si costruirà negli anni Ottanta la global city, uno dei cui esiti attuali è il fenomeno della cosiddetta “suburbanizzazione della povertà”. Non a caso il recente ciclo di rivolte nel movimento Black Lives Matters ha visto per lo più territori suburbani e periferici come teatro, a partire dalla scintilla dell’omicidio di Mike Brown a Ferguson[2]. Se dunque a metà anni Sessanta le città venivano pensate dal movimento rivoluzionario nero come possibili avamposti da conquistare in una strategia di conquista del potere, il terreno su cui tale domanda si può formulare oggi deve essere vorticosamente ripensato.
Il secondo nodo sollevato dallo scritto lo si comprende subito a partire da una frase contenuta nella dichiarazione fondativa della Organization for Black Power, che è interamente riportata nell’articolo: “la rivoluzione tecnologica ha ormai reso il lavoro non qualificato dei Negri socialmente superfluo. Il movimento per i diritti civili originatosi nel sud non può essere adeguato per i problemi del ghetto del nord”. Già allora era dunque ampiamente visibile come la ristrutturazione del modello produttivo della grande fabbrica e le innovazioni tecnologiche stessero ridefinendo il terreno sociale. “E’ proprio perché il lavoro sta diventando sempre più socialmente superfluo negli Stati Uniti che deve essere messa in campo un’altra forma di attività socialmente necessaria, e per fare ciò una rivoluzione è l’unica soluzione possibile”, affermano i Boggs, che così espongono il programma che avrebbe dovuto istituire un potere nero: “un programma di emergenza per utilizzare le tecnologie più avanzate per liberare le persone da tutte le forme di lavoro manuale. Prendere […] immediati passaggi per trasformare il concetto di welfare in un concetto di dignità umana o di benessere. L’idea di un popolo che goda dei frutti della tecnologia avanzata e del lavoro delle generazioni passate senza la necessità di lavorare per vivere deve diventare normale […]. Non ci dovrebbero essere illusioni sul fatto che ciò possa essere ottenuto senza espropriare coloro che oggi posseggono e controllano la nostra economia”.Ecco dunque tracciato uno scenario che risuona beffardamente con l’oggi, e con tutti i dibattiti su automazione, reddito di cittadinanza, fine del lavoro ecc… e che ci dà la misura di quante occasioni siano state perse nei decenni e di quali arretramenti abbia vissuto l’ipotesi di emancipazione dal lavoro.
Proprio a partire da questo nodo e dalla questione “tecnologica” si apre l’analisi internazionale dei Boggs. “Così come i popoli di colore dei paesi sottosviluppati (ossia del super-sfruttamento), gli afro-americani sono stati gettati in una condizione di sottoccupazione, svolgendo mansioni che sono già tecnologicamente superate”. E’ questa lettura che rende “uno” il mondo a partire dai differenti gradi di intensità dello sfruttamento alle diverse latitudini una considerazione da ripensare oggi, e che conduce ad affermare gli autori dell’articolo che “l’organizzazione rivoluzionaria nera renderà chiaro in teoria e in pratica che i Vietcong e il movimento per il Potere Nero negli Stati Uniti sono parti della stessa rivoluzione sociale mondiale contro lo stesso nemico”. Ecco un altro elemento da ripensare oggi, quello della costruzione di inimicizia comune tra le differenti figure “subalterne” a livello transnazionale.
Una serie di nodi che appunto rendono l’articolo tradotto al contempo inattuale e anticipatore. Buona lettura.
[1] https://www.infoaut.org/storia-di-classe/11-agosto-1965-la-rivolta-di-watts.
[2] Zona non a caso molto vicina a Pruitt-Igoe, uno dei più significativi esperimenti di urbanistica popolare negli Usa. Un quartiere costruito ex novo nel 1950, quando in Missouri vive ancora de facto la segregazione razziale, che si trasformerà brevemente in ghetto nero. Abbattuto con la dinamite nel 1973, rappresenta il rapidissimo apogeo e crisi dell’urbanistica moderna.
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