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Identità in movimento

Un’intervista con Robin Kelley, storico radicale afroamericano. Il filo rosso di una critica al razzismo e all’oppressione, dal «potere nero» alla recente esperienza di Occupy.

 

La straordinaria e controversa esperienza del Black Power, la capacità di valorizzare la cooperazione sociale, creando nuove istituzioni; la potente irruzione del femminismo nero, i nodi irrisolti dei percorsi politici costruiti sul terreno delle identità, il tema spinoso della solidarietà e l’eredità di quell’esperienza nei movimenti contemporanei. Sono questi i temi affrontati da Robin Kelley, eclettico studioso e militante, figura di spicco del radicalismo nero in America che ha attraversato da protagonista diverse stagioni di attivismo politico, compresa l’esperienza di «Occupy». Kelley, con lo sguardo interno del militante, riafferma le peculiarità, a volte nascoste, di «Occupy», rintracciandone la «genealogia».

Anche se i media hanno insistito sulla presenza di giovani di classe media, iscritti al college, che soffrono la mobilità sociale traducendola in rabbia contro il mondo della finanza, Occupy ha visto, sostiene Kelley, una significava presenza di african american. Ma soprattutto è stato il prodotto di reti sociali sviluppatesi nei decenni precedenti intorno a organizzazioni multirazziali attive sul tema del lavoro, della povertà. Vanno quindi analizzati l’impatto politico e gli insegnamenti lasciati dal Black Power – di fatto smantellato dal «controspionaggio» del Fbi – che hanno influenzato e continuano a influenzare le successive generazioni di militanti. Non c’è però una linea diretta. L’unica connessione evidente con il Black Power è il Black Panther Party (che non è mai stata una formazione del potere nero, ma un’organizzazione socialista con una forte vocazione multinazionale) attraverso la «Rainbow Coalition», di cui fu artefice Fred Hampton a Chicago. Una «coalizione» tesa ad organizzare portoricani e altri lavoratori latinos, anche se al suo interno erano presenti anche molti bianchi, gran parte di origine asiatica. A Los Angeles, ad esempio, il «Labor Community Strategies Centre» ha tra i suoi fondatori un ragazzo della working class newyorchese, membro del «Congress Observation Equality», che dopo alcuni anni di prigione come militante dei «Weather Undergound» si è dedicato alla lotta multirazziale. Quando dilaga la protesta di Occupy, lo «Strategies Centre», che combatte le politiche razziste delle agenzie di trasporto, ma anche la criminalizzazione dei giovani blacks e latinos, è una delle più importanti strutture di mobilitazione, con circa trent’anni di esperienza alle sue spalle.

La presenza african american dentro Occupy è un tema controverso e ampiamente dibattuto… Qual è il suo punto di vista?
Il movimento Occupy a New York e Los Angeles non ha una critica radicale al razzismo. È per questo che non attrae molti afroamericani. Diverso è il caso di Okland: qui esiste una working class nera organizzata e sindacalizzata che fa la differenza. Non è un’eccezione isolata. Conosciamo anche un movimento parallelo a Occupy, guidato da african american: è «Occupy the Hood». Nato a Detroit, si è poi diffuso in tutto il paese, concentrandosi sul fatto che a neri e latinos, in misura esponenzialmente maggiore, viene pignorata la casa. Negli Usa, i mutui sono cresciuti in modo predatorio per l’intervento di agenzie di intermediazione che propongono di rinegoziare il debito, usando in una cornice razzista la necessità economica e i dati individuali. «Occupy the Hood» funziona a binari paralleli. Alla battaglia contro il pignoramento delle case si affianca quello contro la criminalizzazione degli african american.

La capacità di agire contemporaneamente su piani differenti è un punto di contatto con le pratiche del Black Panther Party…
Sul finire degli anni Sessanta, nel movimento afroamericano c’è stata una profonda discussione su quale fosse il vero luogo del processo organizzativo. Una parte lo individuava nel posto di lavoro, l’altra nella comunità nera; le due strategie sono state combinate. In particolare, sono state le università a rappresentare il punto di convergenza. Nel 1968, alla Columbia University, la protesta si è trasformata in una critica alle collaborazioni dell’ateneo con le agenzie militari, ai processi di gentrification avviati nella vicina Harlem, battendosi per l’istituzionalizzazione degli «ethnic studies» e per cambiare i curricula universitari. Oltre alla «riforma» delle università: l’altro obiettivo perseguito era il coinvolgimento di tutta la comunità dentro le mobilitazioni. Insomma, c’era la difesa della popolazione di Harlem, ma anche la volontà di coinvolgerla nella mobilitazione dentro e contro l’istituzione universitaria. Ad anni di distanza, la posta in gioco, per i neri, è ancora la fine di tutte le forme di oppressione.

Proprio intorno al tema dell’identità e al senso della politica si è prodotta una delle più radicali e produttive rotture dentro il Black Power, quella del femminismo nero…
Molte delle iniziali militanti femministe nere provengono dal «Black Power». Il loro punto di partenza era il conflitto verso chi le voleva tacitare, dentro e fuori la comunità nera, sulle loro critiche verso la politica di genere. Nello stesso tempo, hanno prodotto una critica del femminismo bianco, spesso indifferente verso il razzismo nella società americana. Detto questo, resta la modalità specifica con la quale hanno espresso un dissenso radicale rispetto l’oppressione patriarcale di classe, il razzismo e la sessualità. Era in gioco contemporaneamente la loro identità come donne, african american e in quanto destinatarie degli aiuti di Stato. Negli anni Novanta, la lotta contro la «Milion Man March» della Nation of Islam e le battaglie contro gli attacchi al welfare avevano come protagoniste donne nere. Anche sul tema dell’anti-imperialismo, le più lucide critiche afroamericane sono arrivate da Angela Davis, Gina Dent e Barbara Smith.

Un’altra delle preziose intuizioni del femminismo nero è stata la critica alla solidarietà, parola spesso usata per mascherare processi di vittimizzazione…
Si tratta di capire in che termini parliamo di solidarietà. Se è il rapporto tra un gruppo che rivendica un’identità per migliorare la propria posizione all’interno di gerarchie capitaliste e un altro che non ha alcun potere, non è solidarietà. I nativi americani, le donne nere, la classe operaia afroamericana hanno sempre spinto per politiche di solidarietà basate sulla demolizione dei regimi razziali, del patriarcato e del più complessivo stato di oppressione. I lavoratori bianchi negli Stati Uniti non sono stati in grado di comprendere che anche la loro emancipazione era legata alla distruzione del regime razziale. Non sono d’accordo, invece, con chi propone di superarare le politiche delle identità. La solidarietà dipende dall’identificazione con le lotte di altri soggetti. Per esempio negli anni Ottanta a Los Angeles, il «Sanctuary Movement» combatteva il sostegno del governo statunitense ai regimi dittatoriali in solidarietà con i rifugiati politici che scappavano dagli squadroni della morte in Salvador, Guatemala e altri paesi dell’America latina. Nessuno di noi aveva mai visto in faccia uno squadrone della morte, ma con un salto d’immaginazione abbiamo capito che quella era anche la nostra lotta. Oggi invece i processi politici sono basati sugli interessi. La nostra battaglia diventa allora comprendere come poter costruire solidarietà in una società in cui le identità sono imposte dall’alto e utilizzate per strutturare le forme di politica attorno ai gruppi di interesse.

Ma come si può sfuggire alla gabbia ideologica che il concetto di identità produce?
Negli Stati Uniti, i liberal bianchi hanno accusato donne, african american, disabili e poveri di mettere in discussione le conquiste degli anni Venti e Trenta del Novecento: l’argomento sbandierato era proprio la questione identitaria. Ma queste identità stanno dentro sistemi di «razzializzazione» e di autorità patriarcale che creano gerarchie di potere. Detto questo non ha mai creduto alle favole in base alle quali un giorno ti svegli e dici: «Sono orgoglioso di essere nero o di essere donna». Le identità devono essere parte di un processo dinamico in cui diventano risorsa. Per esempio, non c’è whiteness senza black o senza brown: l’abolizione del concetto di «bianchezza», dell’identità bianca del privilegio, è il primo passo verso una forma profondamente radicale di solidarietà.

Per restare in tema di identità, un’ultima domanda è sul ruolo di Obama all’interno della black community che continua a sostenerlo, benché siano ormai tramontate le speranze che molti afroamericani avevano riposto nel presidente….
Oggi in America il potere della politica spettacolo ha reso impossibile una critica di massa a Obama e soprattutto ha reso arduo discutere di razzismo. In tanti vogliono credere che il razzismo sia finito. Obama è però il presidente che ha deportato il maggior numero di lavoratori senza documenti, che ha intensificato gli attacchi di droni. Tra gli afroamericani è tuttavia diffuso la convinzione di «non criticare il nostro presidente». Siamo così abituati alla logica neoliberale che non ce ne rendiamo conto. Diverso è il pensiero tra gli attivisti nella tradizione radicale nera: sono molto critici su Obama, ma non hanno una piattaforma condivisa. Io dico sempre che non si impara niente dalla pelle. Bisogna invece saper come costruire un terreno di condivisione. Chiedersi: perché le persone hanno il salario minimo? O sono in carcere? Per quale motivo uomini e donne continuano ad essere buttate fuori dalle loro case? E come mai i banchieri fanno così tanti soldi? Discuto spesso con i miei studenti che pensano di sapere tutto solo per il fatto di essere neri o latinos. È necessario invece leggere, criticare, impegnarsi, mettere in discussione, discutere e produrre un’analisi che sia dinamica e mai statica. E questo in una situazione dove l’infotaitment ha reso quasi impossibile una formazione critica.

 

da: Il Manifesto

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