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Ferguson: per uscire dall’ipnosi post-razziale

La nostra prima domanda ha a che fare con il modo in cui Ferguson è esplosa dopo l’omicidio di Michael Brown e con la risposta della polizia. Quali sono le dinamiche sociali che hanno preceduto i riot? Cosa ha soprattutto mosso la rivolta della comunità nera e come si può spiegare la violenza della polizia?

Per descrivere il più generale contesto storico in cui i fatti di Ferguson si sono prodotti è importante, soprattutto per chi non vive negli Stati Uniti, sapere che la violenza della polizia qui non è un fenomeno astratto o universale, ma piuttosto un fenomeno storico che riguarda in particolare, ma non esclusivamente, i neri e gli afroamericani. Ferguson è un sobborgo di St. Louis, e la cosa lascia immediatamente emergere tensioni razziali dal portato storico. Quasi completamente bianca fino agli anni Settanta, Ferguson è rapidamente diventata una città a maggioranza nera, e oggi circa il 70% della popolazione è nera o afroamericana, mentre la polizia è rimasta prevalentemente bianca. La stessa FBI ha di recente diffuso dei dati che mostrano, per esempio, come il 92% degli arresti per “condotta disordinata” interessano neri, cosa che fornisce un quadro piuttosto chiaro della sistematica persecuzione a cui sono sottoposti. Piccoli reati come la “condotta disordinata” vengono dunque utilizzati dalla polizia come strumento di controllo sociale. Si tratta, ancora una volta, non di un problema astratto ma della storica ripetizione della supremazia bianca incarnata nella violenza della polizia, per cui la vita dei neri non vale nulla e la loro morte è quasi sempre legittimata. Un’interpretazione che ritorna in modo costante nella narrazione che i media forniscono di episodi come questo, rifacendosi, al di là di ogni coerenza, alle scarne spiegazioni fornite dalla polizia. Così si dice che Michael Brown fosse coinvolto in una rapina e che la polizia fosse stata in precedenza chiamata per intervenire. Anche se, stando al video che la polizia ha fatto circolare, il ragazzo indossava abiti diversi da quelli che portava il giorno dell’uccisione. Oppure si dice che stava attraversando la strada in modo irresponsabile, e anche questa è una cosa che va considerata alla luce di forze di polizia che letteralmente perseguitano le persone per reati minori. Diventa quindi molto chiaro che si tratta sempre di una questione che ha a che fare con l’essere bianco e l’essere nero. I bianchi da una parte, i neri dall’altra, proprio come nelle immagini, fatte circolare dalla polizia, in cui si vedono da una parte quelli che sono stati chiamati i “saccheggiatori” di Ferguson, e dall’altra la polizia bianca schierata a difesa della proprietà, anch’essa rigorosamente bianca.

Dicevi che dopo gli anni Settanta Ferguson è diventata rapidamente nera, una cosa che ha più complessivamente a che fare con la “fuga dei bianchi” nel Midwest e con i processi di deindustrializzazione che hanno interessato il paese in quegli anni. Ci puoi parlare delle implicazioni di classe di questi processi, cioè di come la “fuga dei bianchi” ha prodotto tensioni razziali e di classe?

Affrontare questo tema vuol dire parlare della geografia della razza. La razza è infatti sempre un fenomeno che si manifesta geograficamente e che, il più delle volte, ha a che fare con la fuga dei bianchi verso le periferie. Si tratta di un processo di lunga durata che ha avuto una potente accelerazione durante la deindustrializzazione degli anni Settanta. Così oggi ci sono grandi città nel Midwest e altrove, ad esempio a Filadelfia dove vivo, in cui, nel contesto della cosiddetta era “post-razziale”, è più probabile essere codificati geograficamente che in termini apertamente razziali. Quindi, che si tratti di una valutazione relativa ai distretti scolastici o alle aree pericolose o che abbia a che fare con il trasferirsi in periferia per dare maggiori opportunità ai propri figli, ciò di cui stiamo parlando è la realtà di una crescente segregazione nel paese. Ferguson è proprio uno di questi luoghi, un tempo esclusivamente bianchi, ora divenuto prevalentemente nero, in cui la polizia, in linea con la geografia della razza, non si limita a terrorizzare la popolazione per farla per così dire “rigare diritta”, ma ha anche il compito di mantenere neri e afroamericani lontani dalle altre periferie bianche della zona.

Spostandoci invece sui riot che hanno infiammato Ferguson: quali motivazioni, esperienze o emozioni collettive hanno spinto la black community a scendere in strada a protestare?

Quello dell’uccisione di neri da parte della polizia negli Stati Uniti è un tema che molti osservatori bianchi, e soprattutto liberal, semplicemente non considerano, benché in presenza non di un evento eccezionale ma di una lunga serie storica che non ha neanche bisogno di lunga memoria. Nell’ultimo mese, con una grande risonanza sui media, almeno 5 uomini neri sono stati uccisi dalla polizia, aggiungendosi ad una lunga e mai interrotta serie di uccisioni. A Ferguson, le persone con le mani alzate attestano proprio questo: da Emmett Till a Trayvon Martin al presente, la serie di uccisioni impunite è piuttosto lunga. Non riconoscerlo vuol dire non cogliere la profondità della rabbia che emerge in questi momenti. Questa rabbia è per molti versi un prodotto del sentirsi impotenti di fronte alla costante ripetizione di questa violenza, ma è anche la volontà e la consapevolezza che qualcosa deve essere fatto e che, in assenza di una riforma giuridica che possa modificare le cose, in assenza di funzionari e deputati intenzionati a intervenire, solo le ribellioni e le rivolte possono funzionare. Il che, storicamente parlando, non è in realtà impreciso. Se si guarda l’intera storia degli Stati Uniti, rivolte e ribellioni hanno infatti giocato un ruolo enorme, direttamente o indirettamente, nel trasformare la sfera politica e l’azione politica. Anche guardando a Ferguson, il conflitto per le strade tra la comunità nera e un corpo di polizia pesantemente militarizzato ha quantomeno determinato la destituzione dello sceriffo della contea dalla gestione dell’ordine pubblico.

Per riprendere quanto dicevi a proposito dei bianchi liberal e di come si rapportano alle violenza della polizia e ai riot, vorremo riprendere le immagini circolate negli ultimi giorni: grande diffusione di immagini della poliziotti in marcia con i manifestanti, delle veglie e delle azioni pacifiche a discapito delle immagini della rivolta, dei saccheggi e delle proteste nelle strade. Che cosa significa questo privilegiare la “tranquillità” sulla “violenza” nella storia del razzismo negli Stati Uniti? Può oscurarlo o distorcerne la comprensione?

Assolutamente sì e dobbiamo essere perfettamente chiari su questo. C’è un titolo che campeggia sui media da quando le pattuglie della stradale hanno raggiunto Ferguson: “La polizia si unisce alle proteste”. Ma la polizia non si sta unendo alle proteste. Queste è una strategia contro-insurrezionale, una strategia storicamente utilizzata per allentare il pugno di ferro della risposta militare utilizzato inizialmente. É la svolta del guanto di velluto: una strategia morbida per disarmare la protesta che non modifica l’intenzione di indebolire la mobilitazione popolare attraverso la cooptazione. Non è quindi una buona cosa che la polizia abbia raggiunto le proteste, anche se descrive uno scenario meno brutale di quello visto nei giorni precedenti. L’altra questione è che ciò che sta accadendo a Ferguson non riguarda direttamente la militarizzazione della polizia, che è un fenomeno ben più vasto. Soprattutto dopo l’11 settembre, i dipartimenti di polizia attraverso il Dipartimento della Difesa, borse di studio e finanziamenti per la lotta al terrorismo hanno acquisito tecnologia militare. Tuttavia, con la minaccia terroristica che si è dissipata o, forse meglio, che non è mai esistita, l’hardware militare acquisito è lì che chiede di essere utilizzato. C’è un vecchio detto che dice: se si dispone di un martello, tutto sembra un chiodo. Questo è esattamente ciò che stiamo vedendo per le strade di Ferguson con gli sceriffi che schierano i mezzi blindati. E se sei seduto sulla cima di uno di questi mezzi blindati, guardando attraverso il mirino di un fucile da cecchino, ogni cosa sembra un ribelle, ogni cosa sembra un combattente nemico. É un aspetto fondamentale per comprendere i fatti di Ferguson, ma non si tratta dell’essenza di ciò che sta accadendo. Se cerchiamo l’essenza di ciò che sta accadendo nella militarizzazione della polizia ci sfugge che negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, la polizia non era militarizzata ma ugualmente razzista, brutale occupante delle comunità nere. Abbiamo così bisogno di mantenere entrambe queste traiettorie nella nostra analisi (quella della militarizzazione della polizia e quella della supremazia bianca), evitando di limitarci a dire che bisogna riformare la polizia o portare via i loro carri armati. Ancora una volta, la polizia quasi interamente bianca di Ferguson è in servizio in una comunità nera con largo ricorso a forme di controllo brutali e terroristiche. Eliminare le armi pesanti non risolverà le cose. Abbiamo piuttosto bisogno di comprendere le tensioni razziali all’origine dei fatti alla luce di una lunga storia di supremazia bianca. E poi abbinare questo alle trasformazioni che hanno interessato la polizia in un progressivo processo di militarizzazione.

A proposito della continuità tra relazioni razziali e violenza della polizia negli Stati Uniti, possiamo considerare due poli di un continuum: l’uragano Katrina e Ferguson. Da un lato Katrina, con le relazioni razziali che si sono in gran parte date come abbandono sistematico di massa della comunità nera, e dall’altro Ferguson, con la violenza direttamente applicato ad una comunità. In entrambi i casi emerge una relazione storica importante: negli Stati Uniti quando non c’è violenza diretta, c’è sempre un contesto di abbandono continuato…

La questione abbandono versus violenza diretta è in realtà ben più di un fantasma. Non sono mai stato a Ferguson, ma la mia ipotesi è che si tratta di una via di mezzo, nel senso che mentre diventava una città nera è stata sempre più abbandonata, com’è accaduto in molte altre città. Ferguson non è stata semplicemente blindata per essere governata, è stata più complessivamente strutturata sulla base della violenza sistematica della polizia. E le due dinamiche hanno lavorato insieme. Così, il processo di deindustrializzazione, inteso in primo luogo alla luce del lungo contesto storico di cui stiamo parlando e poi nella storia più recente, è un processo che rende una grande fetta della popolazione degli Stati Uniti, quasi prevalentemente nera, estranea al processo di produzione; diventa, in altre parole, popolazione in eccesso. La risposta dello Stato è l’incarcerazione di massa oppure il suo immagazzinamento in strutture specifiche, dove magari poter estrarre plusvalore attraverso il lavoro forzato. Da questa prospettiva la questione si dà concretamente tra immagazzinamento e abbandono. Visto più complessivamente, si tratta di un cambiamento, proprio al XX secolo, che interessa l’intera storia delle relazioni razziali a partire dall’ansia sociale generata dall’abolizione della schiavitù e in merito al cosa farsene degli ex schiavi. Ancora una volta, leggere la continuità storica dei processi è fondamentale per comprendere i lasciti della schiavitù, a partire dalle conseguenze generate dall’introduzione della mezzadria e soprattutto dal tredicesimo emendamento della Costituzione che sanciva l’immediata condanna della riduzione in schiavitù. Lo sviluppo di istituzioni di polizia orientate alla supremazia bianca inizia proprio in continuità con la schiavitù. La polizia, il suo apparato e le sue istituzioni sono la risposta alla minaccia posta dal lavoro nero libero, e dalla mobilità del lavoro nero libero che segue l’abolizione della schiavitù. É dunque un lungo processo storico quello che vediamo ancora al lavoro.

La continuità tra la fine della schiavitù e l’avvento della carcerazione di massa è un tema cruciale per comprendere le tensioni razziali negli Stati Uniti contemporanei, come mostra anche la popolarità del libro di Michelle Alexander, The New Jim Crow. Tuttavia, gran parte delle risposte maturate intorno alle questioni sollevate da quel libro si sono limitate a sostenere una riforma tout court delle leggi sulla carcerazione. Possono invece i fatti di Ferguson dimostrare il fallimento di un approccio che intende affrontare la storia della razza negli Stati Uniti dal mero punto di vista di una riforma giuridica?

In questi momenti, come costante tentazione e di pari passo con la questione della pacificazione cioè con la volontà di mettere a tacere le persone nelle strade di Ferguson (che in fin dei conti sono già tra le persone più silenziose in assoluto), emerge il tema di una riforma. Ciò è ricorrente soprattutto tra i commentatori liberal che dicendo: “Sì, forse è legittimo resistere e protestare, ma ci piacerebbe davvero che fosse la polizia a dettare i termini della protesta” provano a barcamenarsi tra domanda di riforma e domanda di pacificazione, con il solo obiettivo di mettere a tacere le proteste. Affermano di comprendere la necessità del cambiamento sociale, ma in realtà i presupposti delle loro convinzioni sono quasi del tutto sbagliati. I cambiamenti sociali si verificano spesso attraverso momenti di sollevazione di massa e rivolte spontanee che i riformisti provano a cooptare aprendo processi di cambiamento. Così, da un lato penso che dobbiamo sicuramente essere dubbiosi, resistere e mettere a critica le tentazioni riformiste. Dobbiamo anche riconoscere che esse emergeranno con maggiore probabilità quando il cambiamento sta per verificarsi. Ma il pericolo, soprattutto in questa situazione, è il tipo di riforme di cui stiamo parlando. Stiamo parlando di riformare le modalità dell’addestramento della polizia, della formazione della loro sensibilità, o stiamo parlando di un qualche tipo di quota per cambiare la natura demografica del dipartimento di polizia di Ferguson? La realtà è che la funzione della polizia rimarrà comunque inalterata. Si può avere un dipartimento di polizia completamente nero le cui funzioni saranno però ancora improntate alla supremazia della razza bianca. E non solo perché proteggono la proprietà, ma perché, dato il rapporto tra proprietà e bianchezza negli Stati Uniti, la polizia protegge comunque la bianchezza e riproduce la linea del colore determinando chi è soggetto alla violenza e chi no, chi deve essere controllato e chi no. Quindi, non saranno davvero le riforme a risolvere questi problemi, cosa che ci riporta alla questione della cosiddetta “America post-razziale”, in cui l’elezione di un presidente sembra dirci molto circa la natura della società, mentre in termini dialettici la stessa elezione può dirci il contrario, può cioè essere l’ultima trovata di una nuova strategia per contrastare la resistenza popolare alla supremazia bianca, celandone accuratamente le intenzioni. Così c’è Obama che in televisione dice cose apparentemente corrette sul comportamento della polizia durante le proteste, ma dice anche che non può esserci giustificazione per la violenza contro la polizia. Si tratta di dichiarazioni senza senso, che non dicono nulla delle lotte per i diritti civili quando la polizia stava violentemente abusando dei neri americani. Anche lo stesso Obama avrebbe dovuto riconoscere, in circostanze come queste, la legittimità della legittima difesa. Così, il riformismo non ci dice molto su come rispondere nel presente alle tensioni razziali. Anzi, possiamo vedere, tutto il pericolo insito nel riformismo a partire dalla richiesta alla FBI di gestire le indagini sull’uccisione di Michael Brown: alla FBI suvvia, non è nemmeno un suggerimento serio! Eppure, molte organizzazioni per i diritti civili, spesso troppo riformiste, vere e proprie istituzioni senza denti, stanno sostenendo ciò invece di sostenere la richiesta di un controllo più sostanziale della comunità sulla polizia.

Credi sia possibile leggere, dentro questa escalation di uccisioni di giovani neri da parte della polizia, un’ulteriore strategia di controllo sulla comunità nera che va ad affiancarsi alla già largamente diffusa pratica della carcerazione di massa?

Assolutamente sì. Penso che l’incarcerazione di massa non abbia a che fare solo con il carcere, ma sia un sistema che comprende sia la polizia che le carceri. É un meccanismo finalizzato a terrorizzare le comunità e che individua, diciamo piuttosto a caso, alcuni membri di tali comunità per metterli in prigione. Comunque, come dicevamo, il 92% degli arrestati per “condotta disordinata” a Ferguson sono neri. Non c’è neanche bisogno di dire che le statistiche dimostrano che i bianchi non vengono accusati di “condotta disordinata” perché si tratta di reati inconsistenti, stronzate, come l’attraversare la strada in modo irresponsabile, ciò di cui è stato accusato Michael Brown. Se siete mai stati in prossimità di un agente di polizia negli Stati Uniti, e credo anche in molti altri luoghi, tutto quello che dovete fare per vedere veramente la sua furia è metterne in discussione l’ autorità. Questo perché il sistema prevede che essi non abbiamo solo la forza giuridica che è loro concessa per il ruolo che svolgono, ma anche la discrezionalità in strada, che è una discrezionalità davvero sovrana, di decidere chi sta in galera e chi no, chi può essere oggetto di violenza e chi no. Io stesso, camminando per strada, non vengo generalmente giudicato come un oggetto di questa violenza, ma qualsiasi giovane nero è sempre già potenzialmente un obiettivo legittimo per la violenza. E così la polizia è parte di questo sistema di carcerazione di massa che infligge terrore sulle comunità, che distrugge le comunità e fa a pezzi le famiglie come ha fatto per lungo tempo la schiavitù. Si tratta, concretamente, di un tentativo di controllare le comunità attraverso la sottomissione. Non si tratta semplicemente di togliere dalla circolazione una gran percentuale di neri americani, cosa che sicuramente avviene, serve anche a terrorizzare e costringere gli altri alla sottomissione. Ci sono stati, come dicevo, diversi giovani neri uccisi dalla polizia nel corso del mese scorso, ma quello che risalta a Ferguson non è l’uccisione, bensì la resistenza: la natura veramente eroica della resistenza. Non è la resistenza di migliaia di persone, ma una resistenza fatta da piccoli numeri in una piccola città che, ogni notte, è in strada non curante di tutta la forza e di tutta l’attenzione in campo e dei tentativi di cooptazione. È una resistenza che sta rispondendo in modi diversi ai tentativi di cooptazione della polizia propagandati nei giorni scorsi dai media.

A proposito di quella che chiami una “resistenza fatta da piccoli numeri”, ci interesserebbe approfondire il processo di soggettivazione, ovvero come è stato possibile trasformare la paura esercitata dalle violenze di polizia e dalla carcerazione di massa in quella rabbia che ha riempito le strade.

L’attuale momento storico deve essere considerato nel pieno della sua specificità ma, nello stesso tempo, come parte di una lunga traiettoria storica. Ciò significa che la risposta emotiva all’ennesimo omicidio di un giovane uomo di colore è causa di rabbia, ma anche di disperazione e di una sorta di impotenza, visto che non si tratta di una cosa nuova o di un’eccezione. È una realtà che accompagna quel senso di impotenza che dà luogo alla convinzione che non c’è molto da perdere resistendo. Se ti metti nei panni di un giovane nero, che semplicemente in quanto giovane nero ha una probabilità del 30% di spendere una buona parte della sua vita in prigione, il rischio che corri nel continuare a vivere a queste condizioni è alto quasi quanto quello di scendere in strada a resistere, anche se non è garantito alcun tipo di trasformazione. Si tratta di combinare tale percezione con la consapevolezza che stiamo uscendo dall’ipnosi post-razziale al suo apice nel 2008 con l’elezione di Obama. Una dimensione ipnotica sin da subito, visto che, la mattina del primo gennaio del 2009, poco prima che Obama entrasse in carica, Oscar Grant è stato assassinato da un agente di polizia a Oakland. La cosa ha scatenato una serie di disordini, in cui sono stato coinvolto direttamente, che hanno dato luogo a una grande trasformazione della situazione politica a Oakland e in California. Non molto tempo dopo Trayvon Martin ha portato alla ribalta nazionale la stessa questione. Così vedi che le persone gradualmente si stanno rendendo conto che l’idea del “post-razziale” è un brutto scherzo e, per questo si spostano dall’ambiente confortevole della presidenza Obama assumendo una maggiore volontà di lottare e resistere. Credo che questo sia un enorme passo avanti in termini storici e, nonostante tutto, l’elezione di Obama è stata importante per realizzare che lui non ci avrebbe salvato. Adesso che abbiamo un presidente nero che è disposto a chiudere un occhio su questo tipo di violenza razziale, a rilasciare dichiarazioni ridicole su Trayvon Martin e Michael Brown, a continuare a finanziare il governo israeliano mentre bombarda Gaza, e ora che abbiamo un potenziale candidato come Hillary Clinton che è disposta a fare molto peggio, allora diventa molto più facile per le persone comprendere la situazione e agire di conseguenza.

Un altro precedente storico da interrogare è quello dei collegamenti nazionali che si sono formati rapidamente tra Ferguson e altre città. Possiamo pensare a Occupy come un momento di accumulo che oggi funziona per l’attivazione di questo piano allargato di solidarietà resistente?

La risposta, come per qualsiasi domanda su Occupy, è sì e no. Sì, perché Occupy è un banco di prova importante per i recenti fenomeni politici negli Stati Uniti e ha certamente influenzato un’intera generazione di radicali e militanti a livello nazionale. Ha galvanizzato la volontà di agire e ha forgiato e rafforzato alcune modalità di azione, come le assemblee, la democrazia popolare, le proteste di piazza. No, nel senso che dobbiamo capire Occupy come parte di una traiettoria storica. Nella Bay Area, Occupy ha avuto la sua natura militante radicale in gran parte a partire dai processi organizzativi attivati per la morte di Oscar Grant nel 2009. Questi processi fornivano una precisa idea della polizia accompagnata dalla volontà di impegnarsi in azioni di strada riconosciute come potenziali concreti per produrre trasformazioni e benefici. Sono tutti insegnamenti che abbiamo portato dentro Occupy. E anche al di là della realtà locale, parlare di Occupy vuol dire considerare una scala globale, e quindi le insorgenze arabe e nordafricane, gli indignados in Spagna e le ondate di rivolte in tutto il mondo che hanno definito gli ultimi dieci o vent’anni. Lo stesso Occupy è parte di questo percorso più ampio, in cui ha saputo spingere in avanti e da cui ha tratto elementi di comprensione e connessioni. Se ci limitiamo a considerare solo Occupy corriamo il rischio, ancora una volta, di ricadere nel libertarismo civile o nell’abbandono delle realtà storiche e di ciò che significa polizia negli Stati Uniti. Così c’è per esempio Anonymous che, al di là di tutte le critiche che si possono fare, ha svolto un ruolo molto importante sul piano politico complessivo e negli eventi di Ferguson, dove ha fatto molto di più di tutti gli altri liberal su Twitter. Anche Anonymous, tuttavia, chiede riforme limitate relative alla sorveglianza della polizia e alla militarizzazione, con la motivazione che se ti astrai dal rapporti storico tra la polizia e la supremazia bianca, puoi vedere che, come a Ferguson, l’apparato tecnico in dotazione alla polizia è in contrapposiziione alla sua funzione strutturale. Ed è qui che abbiamo bisogno di considerare, insieme, la supremazia bianca e la militarizzazione della polizia. Un punto questo che riguarda anche Occupy, che si era lacerato sulla questione se stavamo semplicemente riformando la democrazia americana in accordo con la Costituzione degli Stati Uniti o la stavamo radicalizzando in modo da comprende la storia della supremazia bianca di cui la Costituzione è parte.

Un’ultima domanda per tornare brevemente alla comunità nera di Ferguson. Alcune delle immagini veicolate dai media proponevano tra gli abitanti – e non tra i liberal bianchi – una critica della violenza che non distingueva i riot dalla violenza della polizia. Pensi che si possa in questo leggere, a Ferguson e non solo, il segno di una frattura nella comunità nera lungo la linea di classe?

Sì, ma tenendo ben presente che la classe non si manifesta strettamente come fenomeno economico, ma come fenomeno politico, nel senso che essere classe media è una mentalità, un’identità indipendentemente dal proprio reddito. Quindi penso che questa frattura ci sia, e che negli Stati Uniti abbia a che fare con ciò che si chiama politica della rispettabilità. In altre parole, dimostrare quanto ben educati si può essere, nella speranza che comportarsi bene possa effettivamente trasformare i rapporti sociali, anche se sappiamo che in realtà non è così. L’argomento costante è che se i giovani neri fossero vestiti un po’ meglio e tirassero su i pantaloni, se parlassero meglio, allora forse la loro situazione cambierebbe. Ma sappiamo che questo non è reale, che non ci sono posti di lavoro là fuori in attesa di persone che si comportano meglio. Eppure ciò si mostra un’altra cosa. Ci sono commentatori liberal che insistono sulla questione della violenza delle proteste, che è davvero l’incredibile perverso rovescio della realtà. A Ferguson non si sono visti eccessi di violenze da parte dei manifestanti, anzi sono protesta contro la violenza. I manifestanti di Ferguson – ma non dovrebbe essere neanche ricordato – non hanno ucciso un singolo essere umano, cosa che non si può dire per la polizia nelle strade. Quindi, se stiamo parlando di qualcos’altro dalla violenza della polizia, allora siamo già in territorio nemico. Ma oltre questo, anche chi sottolinea la violenza della polizia assumendola come frutto della militarizzazione, omette la vera causa della protesta che è la violenza contro Michael Brown. É questo deve essere il punto di partenza. Le persone non sono scese in strada per protestare contro la violenta risposta della polizia nelle strade, ma contro l’omicidio suprematista bianco di Michael Brown. Penso che gli stessi manifestanti abbiano, in questo senso, inviato un messaggio molto chiaro agli auto-nominati mediatori che sostengono di avere una migliore comprensione del cambiamento sociale, questi portavoce liberal che insistono sul fatto che il modo migliore per cambiare la società negli Stati Uniti è passare attraverso i canali stabiliti ed eleggere rappresentanti democratici. Io penso che tutta la storia degli Stati Uniti e forse la storia del mondo dimostri che questo semplicemente non è vero. Il movimento per i diritti civili ha vinto grazie alla minaccia esercitata dal movimento del Black Power. Le istituzioni politiche a Oakland, quando è stato assassinato Oscar Grant, hanno cominciato a muoversi solo quando le persone hanno iniziato a insorgere e ribellarsi. La stessa cosa sta accadendo oggi a Ferguson. Possiamo dire che queste proteste hanno già cominciato a lavorare semplicemente indicando il fatto che lo sceriffo della contea è stato ritirato dalle strade. Ma soprattutto, i riot di Ferguson sono il chiaro segno che l’ipnosi post-razziale comincia a vacillare.

 

da commonware

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