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Se lotti sei un migrante. Punti di vista su nuove composizioni giovani e scenari di conflitto dall’interporto di Bologna

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Negli ultimi giorni nei magazzini del settore della logistica a Bologna c’è agitazione. Dopo anni di consolidamento, successivo alla conclusione della “vertenza Granarolo”, delle istanze rivendicative degli operai e delle operaie organizzati soprattutto nel SI Cobas, sono tornati gli scioperi e i blocchi stradali per impedire il carico/scarico merci nel grande interporto, e non solo, della città.

“Licenziamenti ingiustificati” tra cambi appalto delle cooperative di mano d’opera e ri-allocamenti di magazzini sul territorio nazionale. In realtà i licenziamenti sono politici e riguardano in larga parte operai e operaie sindacalizzati capaci quindi di far valore la propria forza e peso politico nelle decisioni di magazzino. Nel classico schema piramidale logistico c’è una multinazionale (in questo caso la Philip Morris- sulla quale avevamo abbozzato una prima inchiesta), c’è la manifattura tabacchi, c’è la grande impresa di settore logistico (la spagnola Logista), e poi ci sono le cooperative di facchini e Lega Coop che sembrano determinate a tentare un nuovo sfondamento del fronte della forza-lavoro per alzare i profitti padronali e schiacciare resistenza e interessi di classe.

Venerdì scorso c’è stato un primo tentativo di aggressione alla lotta per mezzo di decine di celerini e carabinieri che con usuale violenza hanno tentato per ben sei ore di sgomberare il blocco stradale – picchiando a più non posso e concludendo l’iniziativa repressiva con l’arresto di un operaio, processato per direttissima e scarcerato il giorno seguente. Numerosi i feriti tra gli operai, le operaie e i solidali accorsi a dare manforte allo sciopero. Se il volume di violenza poliziesca è sembrato in linea con la recente storia delle lotte sociali a Bologna (ci riferiamo a quanto accaduto negli scorsi mesi ed anni durante gli sgomberi delle case occupare o nei picchetti antisfratto così come nelle vertenze e mobilitazioni degli studenti universitari), un elemento di novità ha invece colto l’attenzione dei protagonisti e degli “osservatori partecipanti” tra le proprie file: la presenza notevole di operai e operaie di origini italiane e l’età molto giovane (tra i 20 e i 25 anni) di numerosi scioperanti (tendenza che avevamo provato ad accennare qui).

La mano d’opera italiana nel settore logistico non è una novità, semplicemente nelle lotte precedenti è stata a guardare svogliata e scettica (dandosi talvolta al crumiraggio) e per lo più asserragliata a difendere la briciola in più di salario e diritti che nella scala etnicizzata del sistema cooperativo gli veniva garantita. Stiamo notando invece che nelle ultime lotte nel distretto logistico padano (Pavia, Milano, Piacenza, Modena, Bologna) la presenza di operai e operaie italiane è accresciuta rispetto al passato e in generale si sta abbassando di molto l’età – e anche l’adesione femminile alle lotte è aumentata. Nel caso degli italiani si tratta sia di migrazione interna di prima e seconda generazione e non solo, ma anche di seconda generazione migrante soprattutto giovanile.

Durante i blocchi e gli scontri della scorsa settimana all’interporto si è assistito ad alcune scene paradossali e grottesche ma da cui si possono trarre non poche indicazioni politiche per il futuro: tra gli insulti e le minacce dei celerini e dei carabinieri durante i faccia a faccia con gli operai, oltre alle solite offese alle madri e ai frequenti “bestie, cani, merde” molto spesso abbiamo ascoltato “torna a casa tua maiale!”, “ti tolgo il permesso di soggiorno dopo che ti arresto!”, “vi ritocca sul barcone”. Scontate le risate degli operai che magari a Bologna ci sono nati o che al massimo il barcone che conoscono sono i pescherecci di qualche città del sud. Anche il compagno operaio pestato e arrestato sanguinante è un giovanissimo italiano assunto da poche settimane e unitosi alla lotta per esprimere solidarietà ai colleghi del magazzino Logista che magari durante i momenti più cruenti insieme alla imprecazioni scandite negli slang e nelle lingue di mezzo mondo hanno fatto risuonare un liberatorio o arrabbiato “porco dio!”. Crediamo che questo dato che solo in apparenza può apparire aneddotico stia impensierendo la Santa Alleanza di padroni di multinazionali e cooperative, quotidiani, politici e poliziotti di ogni ordine e grado coinvolti nel soffocare e reprimere questa importante lotta, e dall’altra parte da un punto di vista antagonista si può parlare di una serie di ipotesi per il futuro immediato e indicare sia tendenze o elementi politici importanti – soprattutto se scagliati sull’attuale fase politica nazionale configuratasi tramite il paradigma del “prima gli italiani” del governo giallo/verde. Si tratta certamente di embrioni di un fenomeno ma che iniziano ad essere ricorrenti.

Razza e generazione operaia. Il colore della pelle come abbiamo raccontato in precedenti interventi è un fatto politico, l’esempio dei celerini bolognesi decisamente caricati dal nuovo contesto politico nazionale è esemplare: nel momento in cui si lotta per il salario, o si partecipa solidarizzando con la vertenza, si diviene migranti. La presenza in un picchetto diventa un fattore di razzializzazione. I processi di impoverimento e declassamento che abbiamo analizzato e che i contesti di lotta hanno tentato negli scorsi anni di organizzare e politicizzare hanno reimmesso anche nei livelli più bassi e duri del mercato del lavoro mano d’opera indigena e giovane, più o meno educata fin dalle scuole superiori al comando di fabbrica tramite la riforma reazionaria di Renzi della “Buona Scuola”. Le “agenzie di formazione” alla catena del lavoro salariato per gli indigeni non funzionano più, o non solo, per preparare nuovi operai professionalizzati o creativi, ma formano mano d’opera disponibile anche nei settori di sfruttamento più duri segnati da condizioni schiavistiche e di competizione altissima. Il caso della Logista/manifattura tabacchi è esemplare: solo pochi anni fa l’apertura della Philip Morris nella provincia di Bologna era stata presentata come una delle più grandi occasioni di sviluppo del territorio dalla crisi ad oggi e suoi giornali locali era stata presentata come una Bengodì di occupazione e accesso al reddito. Oggi la domanda è: sviluppo per chi? Bengodì per chi? Di certo non per gli operai migranti e italiani che mentre stiamo scrivendo tengono con tenacia il presidio all’interporto pronti a tornare ai blocchi e a fare appello alla solidarietà.

L’altro elemento è quello generazionale: per chi ha partecipato alle mobilitazioni operaie nel settore della logistica almeno dall’arresto di Aldo Milani in poi non ha potuto fare a meno di constatare che l’età si è molto abbassata: se nella fase emergente delle lotte nel settore era presente una mano d’opera migrante che era arrivata in Italia tra gli anni Novanta e i primi Duemila entrando in magazzino tra i 30 e i 40 anni, oggi ci sembra di vedere l’ingresso di una forza lavoro giovanile migrante, di seconda generazione e indigena che porta nelle lotte rabbia, linguaggi, esigenze e comportamenti propri di una generazione a cui non è stata fatta alcuna promessa generale di possibilità e riscatto dalle proprie condizioni di vita e che con il cinismo renziano è stata sbattuta nel magazzino senza aspettative di chissà quale miglioramento della qualità di vita. È una generazione operaia rabbiosa che tempo addietro abbiamo descritto come ”imbufalita” quando c’è da lottare e rispondere alle provocazioni della polizia o alle ingiustizie in busta paga o nel magazzino. Mustafà, il compagno nordafricano appena ventenne incarcerato e poi condannato ad anni di carcere per la manifestazione antifascista di Piacenza e Nicolas, il compagno italiano di 22 anni picchiato e arrestato per essersi precipitato a dare manforte ai propri colleghi in lotta, ci parlano di una possibilità politica per il futuro. Oltre ad essere i protagonisti di vertenze conflittuali sul terreno del salario, crediamo che in prospettiva aiuteranno i movimenti antirazzisti e contro questo governo a tornare a orientarsi all’attacco e non con la postura di mera resistenza moralista.

Come un baleno questi eventi di lotta di classe pongono le domande giuste per dare risposte collettive per smantellare il “prima agli italiani” di Salvini il cui pugno duro nelle lotte a venire è già messo a servizio della sinistrissima Lega Coop. A partire da queste possibilità, la lotta antirazzista a venire più che semplicemente evocare l’#aprireiporti contro Salvini deve poter tornare a sognare concretamente e praticare l’aprire insieme agli operai e le operaie i porti e gli interporti logistici alla lotta. E assieme ai molti altri segmenti di scontro possibile che si smuovono nel sottosuolo ricomporre nuovi orizzonti del conflitto.

 

 

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