Lo specchio della situazione attuale. Intervista ad un compagno sul 15 Ottobre
Ok, allora.. Diciamo che stiamo facendo questa intervista con un compagno che è stato arrestato il 15 Ottobre del 2011 a Roma. Ormai è passato un anno e mezzo abbondante e sostanzialmente con l’intervista di oggi volevamo, anche per la voglia del compagno di condividere il più possibile la sua esperienza personale, stiamo facendo questa intervista anche come intervista-dialogo. Per iniziare partirei dal chiederti perché sei sceso in piazza il 15 Ottobre, che motivazioni sostanzialmente ti portavano ad essere in piazza quel giorno.
Questa domanda è molto interessante, io dico sempre una cosa: il non pensare solamente al proprio orticello, e se è rigoglioso e verde il nostro e quello del nostro vicino, di chi ci sta accanto, secca va bene uguale; non funziona così secondo me. Per cui in linea generale mi verrebbe da dire, ecco, che sono sceso in piazza perché non mi va bene che la crisi, questa crisi devastante che hanno creato pochi, pochissime persone a livello mondiale prima e nazionale dopo debba essere pagata da studenti (ed in quanto sono uno studente sento molto vicina la situazione di chi è universitario e di chi è studente liceale), migranti, precari e lavoratori. E poi perché viene devastato e continua a essere devastato quello che è il mondo del lavoro. E’ un disegno che è partito molto tempo fa con la legge Biagi, la precarizzazione di quello che era il famigerato posto fisso, posto sicuro. Più in generale sono sceso in piazza perché così non si poteva e ad un anno e mezzo di distanza si ha la conferma che non si può andare avanti.
Entrando subito nel vivo di quello che è stato purtroppo anche l’iter giudiziario che ho dovuto affrontare, soprattutto quello di primissima battuta quindi l’interrogatorio, l’interrogatorio di convalida a Regina Coeli, ricordo che mi fu mossa un’obiezione da parte del magistrato che mi interrogava quando mi diceva: “E lei anziché andare via quando vedeva, quando aveva appreso che era un corteo caldo, lei ha deciso comunque di andare in piazza in corteo?!” . Partendo dal presupposto che fra l’andare a casa e il mio diritto a manifestare preferisco sicuramente il secondo, ecco, ricollegandomi a quello che ho detto prima è la stessa risposta che ho dato anche al magistrato: quello che mi ha spinto a scendere in piazza è la voglia di una società diversa che sia uguale per tutti, che dia le stesse chance e le stesse possibilità a tutti e tutte, che faccia vivere in maniera più vicina ai nostri bisogni, più vicina ai nostri tempi, a quelle che sono le nostre esigenze di studenti, di lavoratori, di soggettività, ognuna diversa a sé, ognuna differente che poi va a creare una rete (ideale) che è quella della nostra società (altra, meticcia e solidale). Tornando al 15 Ottobre nello specifico, sicuramente mi ha spinto a scendere in piazza la vicinanza che ho provato in quei mesi verso le rivolte arabe, quindi questo rigetto, mi verrebbe da dire, di ciò che è precostituito, di ciò che è governante a prescindere, ovvero il governare su qualcun altro. Ecco io lo dico sinceramente: quello che mi ha spinto a scendere in piazza è il non ritrovarmi più all’interno… lo dico con una frase, non mi sento più conciliabile con questo tempo e con questo spazio. E’ proprio questo il discorso. Non riesco più a stare in sintonia con scansione dei tempi di questa università, che se non ti laurei nei tre o cinque anni imposti non va bene non sei meritevole, sei choosy come direbbe il nostro ministro. Sono sceso in piazza perché choosy non è sicuramente chi si laurea in sette anni perché magari faceva, o ha dovuto fare, allo stesso tempo, il barista. Sappiamo che devastano e saccheggiano le nostre università: con politiche che vogliono sempre più all’interno delle università le aziende, l’economia in senso lato e non (eh chissà se tra qualche tempo non saranno quotate in borsa!?); con mense sempre più care e meno accessibili ai più; con borse di studio sempre più ridotte all’osso.
Cosa ti aspettavi da quella giornata?
Facendo movimento fortunatamente da un po’ di tempo, prima del 15 ottobre 2011, e quindi sapendo tra virgolette cosa stava vivendo il popolo italiano, conoscendo le varie situazioni che ogni persona quotidianamente vive; e quanto invece media e governanti stavano mascherando forse è brutto da dire.. mi aspettavo questo. L’indignazione! Mi è stato detto: ma sono posizioni che si potrebbero conciliare. Partendo dal presupposto che non si può “trattare” sul nostro futuro, non si può più conciliare il bisogno e l’esigenza di chi è perennemente sotto ricatto. Il ricatto potrebbe chiamarsi Marchionne per chi lavora in Fiat; il ricatto per chi vive la Valle si può chiamare Tav, il ricatto per chi è un migrante, e non per scelta perché sappiamo che nessuno migra per piacere, è essere respinti in mare; il ricatto è l’Ilva per i tarantini, un tumore a cielo aperto legalizzato. E’ questo il discorso..
Senza scendere nei dettagli della giornata, passiamo a subito dopo. Tu vieni arrestato in piazza, e vieni trasferito in caserma e poi in carcere. Ti chiederei un po’ di raccontare come hai vissuto quei momenti.
Innanzitutto il primo dato è che quel giorno sono stati 12 gli arrestati in flagranza di reato. Premettendo che gli altri arrestati (eccezion fatta per le ragazze in quanto detenute nella sez. femminile di Rebibbia) gli ho potuti vedere solamente nella notte in cui ci veniva comunicato l’esito della sentenza di convalida. Solo in quell’occasione, mentre si attendeva in una celletta veramente piccola. Una cosa che secondo me va detta, che secondo me è giusto dirla anche per rendere giustizia agli altri ragazzi arrestati è che erano tutti malconci.. Il romeno aveva quattro punti in testa, il musicista aveva il ginocchio gonfio, l’altro ragazzo si è calato i pantaloni e aveva le cosce zebrate, perché all’interno della camionetta da ammanettato lo manganellavano sulle gambe.
Io ho raggiunto il commissariato a piedi, camminavo allo stesso passo degli agenti, in tutto quattro. La cosa interessante da specificare è che io tra virgolette non ero solo. Nel senso che al momento dell’arresto ero seguito da almeno trenta-quaranta persone che non stavano zitte, non stavano ferme. Gridavano: “Ma cosa state facendo? Non stava facendo niente!”. Ricordo di una altro signore di età avanzata, si intende sui quaranta-quarantacinque, che diceva: “Lui non ha fatto niente, l’ho visto io” però ovviamente con modi insomma, non molto corretti, sono stati subito zitti e addirittura ad un ragazzo è stato detto: “se continui il prossimo sarai tu”. Una cosa paradossale è che questa passeggiata fino al commissariato è durata cinque-dieci minuti, in quanto era lontano, un agente continuava a ripetermi che era un gioco, era un gioco era un gioco, continuava a ripetermi che era un gioco. Era una cosa abbastanza angosciante. Mi è stata ripetuta di continuo questa frase. Ovviamente per me non è stato mai nulla un gioco. Non è stato un gioco la giornata del 15 Ottobre è non è stato un gioco il mio fare politica da quando ho 15-16 anni, perché ho sempre pensato come concrete determinate battaglie che ho portato avanti, che abbiamo portato avanti con altri compagni. Una volta arrivati in commissariato, non sono stato trattato male nella dimensione fisica fortunatamente. Però ovviamente le angherie verbali del tipo: “Oh, er pischello è cresciuto col mito de Carlo Giuliani” già etichettato come un black bloc e giù di lì, non sono mancate. Un’altra cosa sicuramente da dire è che una volta che hanno proceduto con la reale identificazione, con la prima perquisizione ecc.. mi è stato confidato che a me era andata bene, (addirittura!), che dovevo ritenermi un fortunato rispetto agli altri arrestati, in quanto arrestato dalla Digos. Sennò “la sveglia non me la levava nessuno”. Mi venne facile pensare cosa fosse la sveglia insomma. Io avevo paura, una volta che avevo realizzato che ero stato arrestato a tutti gli effetti ho avuto paura. Per un momento ho anche avuto paura di essere picchiato, però per fortuna così non è stato. Questo è il momento dell’arresto che si è concluso una volta fatte le foto segnaletiche ecc.. In quel momento processualmente si procedeva per direttissima. La direttissima prevede un fermo di 48 ore, entro le quali ci deve essere un magistrato che deve giudicare. Per cui sapendo che dovevo essere giudicato secondo quel tipo di rito mi fu accordato, dopo ripetute richieste da parte mia, di alloggiare-dormire nella celletta di sicurezza del commissariato. Purtroppo poi i piani sono stati cambiati in corso d’opera. Infatti dopo due ore che ero stato chiuso nella celletta di sicurezza è arrivato uno della Digos con un altro verbale, dove si dichiarava che il verbale era stato riaperto perché tutti quelli arrestati quel giorno dovevano andare a Regina Coeli. Il magistrato li voleva tutti a Regina Coeli. Per cui io arrivai a Regina Coeli che saranno state mezzanotte, mezzanotte e dieci più o meno. Io vengo inizialmente fermato per il reato di “lancio di oggetti pericolosi”. Tale reato si estingue se viene richiesta l’oblazione (ammenda pecuniaria potrebbe essere definita) dalla parte. Il reato cambia per poter giustificare l’arresto, e diviene resistenza a pubblico ufficiale pluri-aggravata. Pluriaggravata significa che il reato è di quelli cosiddetti “anomali”, per cui il giudice può decidere, può spaziare con una pena che va dai 3 anni ai 15 anni, come meglio gli pare.
Quindi arrivato a Regina Coeli faccio la visita medica e vengo condotto subito alla sezione settima, che praticamente è la sezione di maggiore sicurezza dove si vive in situazioni di maggiore restrizione. Arrivo alla settima e c’erano i due secondini che mi dicevano in romano “o pischellé, stasera dormi per terra, dormi per terra” ed effettivamente così è stato. Entro in una cella da due però abbiamo dormito in tre. Ho dormito in questa cella per due notti, il discorso è che l’aberrazione sta nel fatto che per due notti ho dormito a terra. A terra si intende senza materasso, senza coperte o cuscino e senza neanche il famigerato kit che quando il detenuto arriva all’interno del carcere gli viene consegnato. Questo kit prevede il piatto di plastica, il coltello e la forchetta di plastica, più il pigiama. Io non avevo neanche il pigiama. Usavo un rotolo di carta igienica come cuscino. La prima doccia l’ho potuta fare dopo quattro giorni. Era questo il tipo di situazione che si presentava. Una situazione già di per sé molto restrittiva, e negativa. A questo si aggiunge una permanenza e una condizione carceraria delle peggiori. Come ho detto io secondo me il carcere è una società nella società, perché risponde a parametri differenti, a dinamiche ed equilibri differenti che si sviluppano fra le stesse persone. Non sono gli equilibri che si sviluppano tra il soggetto Caio il soggetto Sempronio, soggetti liberi all’interno di una società che è, appunto, libera.. Lì è proprio un’altra dimensione. Arrivando all’interno del carcere a me si palesava anche questa situazione.
Una cosa importante, una cosa carina, è che la mattina dopo che mi sveglio nel settimo, che prevede determinate restrizioni come la sveglia alle sei, la doccia non la si può fare ogni giorno, non è prevista l’ora d’aria, non si può uscire dalla propria cella, i colloqui si possono fare solo in determinati giorni… Mi sveglio alle sei e conosco per la prima volta gli altri due compagni di cella. Tra l’ufficio matricole, la perquisizione personale molto, come dire, precisa e oculata… Arrivo in cella all’una che le persone stavano dormendo e le ho conosciute solo la mattina dopo. Una cosa da evidenziare molto importante è che emergeva il loro disagio. Anche il loro essere incazzati che ci fosse una terza persona. Me l’hanno proprio palesato: non è che erano incazzati perché in quel momento sono arrivato io. Me l’hanno specificato: non sarebbero stati incazzati neanche se fosse arrivato il marocchino,o il cinese, o il migrante in generale. No. Loro erano incazzati per il fatto che c’erano persone che dormivano per terra .. perché se noi continuiamo ad accettare implicitamente che persone in più di quelle che una cella può ospitare vengono poi effettivamente ospitate, è come se indirettamente noi avallassimo questo discorso. Quindi loro in conclusione dicevano: “A noi non vanno bene le condizioni carcerarie, non perché ci troviamo a condividere gli spazi con un marocchino “di troppo” o un senegalese “di troppo”, ma perché non ci deve essere la persona che dorme per terra, non deve esistere la situazione che si palesa troppo spesso: celle da quattro dove si dorme in cinque o in sei, di celle da due dove si dorme in tre e via dicendo”. Ripetevano sempre: “Tocca fa qualcosa, tocca fa qualcosa” e mi specificavano: (uno spunto molto bello) “Non contro di te o contro chi verrà dopo di te ma contro questo modo di fare perché non lo vogliamo avallare neanche indirettamente”.
Rispetto ai tuoi stati d’animo lì dentro..
Parlando con tutta sincerità, credo che la persona oltre che persona-militante ecc.. l’essere umano, più in generale, è fatto anche di stati d’animo. All’interno del carcere, magari non subito, si è palesato il senso di mancanza d’aria. La mancanza degli spazi. Ma non perché avessi problemi a condividere gli spazi, anche piccolini, con più persone, ma perché accusavo la mancanza degli spazi aperti. Dell’essere appunto libero. Sembra una cosa scontata ma in realtà non lo è. I primi giorni li ho trascorsi alla sezione settima, e poi successivamente al mio primo colloquio con l’avvocato, torno in cella e mi viene consegnata una cartuscella dove mi veniva comunicato che io ero stato trasferito alla sezione seconda, che è quella dei reati comuni. Ci sono delle leggere sfumature in merito alle restrizioni: si può andare all’ora d’aria, ora non ricordo se tutti i giorni o due tre volte la settimana, la doccia si può fare ogni giorno, si hanno le celle aperte sia al mattino sia al pomeriggio, e questa cosa è molto importante. Si possono fare i colloqui quando il magistrato li fissa. Appena arrivato alla sez. seconda i primi giorni stavo in cella. Mi ero tuffato assolutamente nella lettura, e leggevo. Infatti ero l’unico che faceva sempre richieste alla biblioteca per far sì che mi dessero dei libri di lettura. Ricordo un fatto, ci fu un detenuto romano il quale mi si avvicinò, venne proprio all’ingresso della cella, e mi disse: “A pischellè, nun te fa prendere così la galera, a pischellè, cerca di uscire… perché sennò non ti passa il tempo, così non reagisci a questa situazione detentiva”. E’ stato molto importante questo episodio, ma che gli stimoli o gli sproni che venivano da altri detenuti. Con il susseguirsi dei giorni, cercavano di coinvolgermi: il pranzo con loro, oppure il caffè in una determinata cella piuttosto che in un’altra. E poi erano molto importanti anche le passeggiate (per quanto si potesse camminare all’interno della sezione) in quanto io rifiutavo l’ora d’aria, perché sapevo che bisognava stare in un vascone di poco più di venti metri quadrati con le mura alte venti, venticinque metri, in questo vascone di cemento armato con tre quattro secondini che ti guardavano a vista. Anche l’aria non è trattabile, per cui preferivo rifiutarla, come è avvenuto sempre.
Era molto importante parlare con gli altri detenuti, per me, anche in chiave del motivo per cui stavo lì dentro. Un sacco di detenuti, dal momento che c’è una dimensione molto individuale, mi dicevano: “A pischellè, sei partito per farti il corteo, per un qualcosa che neanche ti torna a tè”. Perché ovviamente nella loro mentalità l’essere detenuto è legato ad un tornaconto: io faccio la rapina perché forse mi posso fare il bottino.Mi dicevano di essermi andato “a grattare” la testa in un corteo le cui istanze comunque condividevano, erano in gran parte assolutamente condivise. “Te fai la galera per che cosa? Te stai a fa la galera pensando agli altri. Devi pensare a te. Mò gli altri so liberi e tu stai qui dentro”. Uno dei motivi per i quali penso tutt’ora, e pensavo in quel momento, bisognava essere in piazza il 15 ottobre, era anche per questi discorsi di istanze differenti, non più per me o per poche persone, ma per tutti. Perché pochi decidono per tutti. Le condizioni di tutti dovevano essere migliori e devono tutt’ora essere migliori.
In questo senso, tornando al discorso delle sezioni differenti, era molto importante nella sez. seconda la possibilità di andare nelle celle di altri, o comunque la possibilità di avere le celle aperte e uscire, perché era molto importante la socialità, quel continuare a tenere non dico dei legami, forse neanche una complicità, però un’intesa anche con i detenuti , una solidarietà tra persone Si! Questo era importantissimo. Un’ultima battuta: era bello pensare che non eri detenuto in cinque metri quadrati, forse lo si era in cento duecento metri quadrati. Avere la possibilità di contatto con altre persone serviva. Per me era importante stare alla sez. seconda, o meglio, erano importanti i benefici dello stare in tale sezione in quanto mi permettevano proprio di dialogare… Ricordo di lunghe passeggiate, interi pomeriggi, proprio per parlare con gli latri, soprattutto in funzione dl motivo per il quale stavo dentro. Bene o male la voce era girata e in molti lo sapevano. A me interessava confrontarmi su questo, in quanto fin dal primo momento in cui sono entrato a Regina Coeli ho trovato tanta solidarietà.
Una solidarietà di due tipi: ho trovato una solidarietà umana. Avevano capito subito che ero un soggetto che entrava per la prima volta in quegli ambienti e che tra virgolette non ci sapeva fare, non si sapeva muovere. L’avevano capito ecco. Ad esempio una volta mi saltò la spesa ed ebbi bisogno di determinate cose proprio per poter continuare la giornata… mi furono subito procurate, parlo proprio della carta igienica o anche del sapone.. E poi è stato importante dal punto di vista del confronto, perché una volta che gli ho esplicitato i motivi del mio essere in piazza e tornando allo stereotipo del criminale che fa il crimine per un suo tornaconto personale: tra virgolette lì era un attimo saltato, e gli sembrava strano. E allora confrontandomi, loro mi dicevano: Ma chi te l’ha fatto fare? E allora io cercavo di far capire che indirettamente forse la crisi la stavano pagando anche loro stessi anche se non a piede libero, che la crisi non è solo quella economica, è anche una crisi umana in quanto si vive peggio nelle carceri di come si viveva prima, è una crisi che colpisce le varie fasce sociali della società. Non una crisi economica. Cioè: che ci sia una crisi a Piazza Affari a me poco importa, non è quella la crisi che cercavo di esplicitagli. Da questo punto di vista ho trovato molta solidarietà. Gli altri detenuti concordavano, con me, quando gli dicevo che crisi è anche quando tagliano su determinate spese dello Stato, su determinate spese sociali come ad esempio la cultura, perché vogliono persone tutte uguali, vogliono persone con lo stesso tasso di spinta culturale, spinta critica, perché uno più cultura ha più possibilità ha di rapportarsi a determinate problematiche con uno spirito critico. Criticando appunto ciò che viene somministrato in maniera tutta uguale, omologata perché così bisogna essere… No, devono saltare questi schemi, e quindi con quelle che erano, che sono le mie potenzialità, ovvero di un semplice studente che fa politica e che è un militante, cercavo di esplicitargli che anche l’approccio con cui si arrivava a quella piazza, che era quello di gente che voleva dire basta, un basta incondizionato, veniva a causa delle condizioni di vita di ognuno di noi.
Era anche un basta politico, in quanto le istanze che portava avanti quella piazza, criticavano una rappresentatività che ormai aveva e ha fallito. Quindi una non rappresentatività. Pochi che fanno gli interessi loro. Quindi le istanze di quella piazza erano anche i loro interessi e ripeto, ho trovato veramente una forte solidarietà. Certo, c’erano una-due persone che non capivano, non condividevano e non comprendevano assolutamente. Però a me colpì molto un detenuto, che disse “io te capisco quando esplode la rabbia… La macchina bruciata si ripaga, il futuro di una persona non vale quanto una macchina bruciata. O ancora loro dicevano: che quel modo di rapportarsi alla piazza e il modo di portare le istanze loro lo capivano anche nel senso che… vabbè lo dico come lo dicevano loro: “Se non te sentono devi gridà!”.
Vuoi riportare qualche aneddoto?
Sì… Successe una cosa abbastanza carina la prima mattina. Si palesa una persona, uno di quelli che (avevo avuto modo di capire) in qualche modo aveva già navigato da qualche tempo quegli ambienti e sapeva come destreggiarsi. Non era di certo uno come me, ci stava da un po’ ecco.. E non so se già lo sapeva o se lo immaginasse… questo non lo so sinceramente, però era venuto col fare di chi era sicuro della risposta, o sicuro dell’obiettivo. Venne e mi chiese se io ero uno… “uno del corteo”. Non siamo stati arrestati tutti nelle stesse ore, per cui in quei giorni in quelle ore, man mano che le persone venivano arrestate entravano a scaglioni di tre-quattro ore, e sono continuati ad arrivare a Regina Coeli anche la mattina della domenica per cui c’era un po’ di movimento… le televisioni le avevano viste. Mi disse: “Ma tu sei uno degli arrestati?” Insomma sapeva il tipo di reato. Gli risposi di si e rimasi spiazzato perché si alzò la maglietta e aveva tatuato Che Guevara sul petto. E con fare un po’ così mi disse: “che te pensi pischellè, qua dentro ci so pure compagni, non ci so solo criminali”. E poi ovviamente con questa persona si è instaurato un rapporto non di confidenza, però ecco di rispetto reciproco sicuramente, anche se era molto più grande di me e sicuramente più navigato di me.
Detto questo, la sua frase l’ho letta lì per lì come un modo di ulteriore resistenza all’interno del carcere. Ribaltata nei miei confronti la lessi come una spinta a resistere, anche se pensando al passato la resistenza è un qualcosa di più alto…, a continuare a vivere la situazione carceraria in maniera non sommessa, a testa alta, uno sprono per cercare di vivere quei giorni al meglio, per cercare di superare quella situazione. E anche quello è un modo di resistere..
Un altro aspetto particolare, diciamo anche un po’ scabroso della mia permanenza a Regina Coeli, è quello delle famigerate “battiture”. Praticamente la battitura si manifesta quando un gruppo di secondini entrano nella cella e con un asse di ferro battono contro le sbarre della finestra. Questo è avvenuto in tutto quattro-cinque volte, sia alla sez. settima sia alla sez. seconda. La prima volta non capivo cosa fosse, poi mi è stato spiegato. Io lì per lì la davo per scontata, come qualcosa che fosse normale. Invece poi parlando con gli altri compagni di cella mi confessarono: “A pischellè, ma a noi la battitura non ce la fanno da tre mesi, da quattro mesi, mò ce sei tu qua e ce l’hanno fatta già tre volte in due settimane”. E capì il motivo di queste battiture così frequenti, guarda caso proprio nelle celle in cui io stavo io, in quanto (non ricordo se era alla terza o alla quarta battitura che mi facevano) captai un sibilo di uno dei secondini che disse: “Sennò sti anarchici segano le sbarre, se ne escono”. Quindi una persecuzione nella persecuzione, è questo che volevo sottolineare.
Un altro momento rilevante, proprio a testimonianza che il carcere è un mondo attivo, frizzante, non assopito, è sicuramente quello durante il quale ho partecipato ad una battitura (questa volta messa in atto da noi detenuti) in sezione, che durò un’ora. Ovviamente consiste nel battere con degli utensili contro le grate. E anche quello era un modo, che ho condiviso subito partecipando assieme agli altri detenuti, che i carcerati utilizzano e utilizzavano per rivendicare migliori condizioni carcerarie… Ci si può riferire a molti aspetti, entrando nello specifico: si può volere l’acqua calda alla doccia (in quanto era fredda), o rivendicare il diritto per un musulmano di non mangiare maiale, o sottolineare la volontà che non sia tutto lasciato al caso. Ecco, una cosa tremenda del carcere, che a me forse dava ancora più angoscia, è che tutto è lasciato al caso. E’ lasciato al caso per esempio il colloquio, nel senso che se tu non sei lì con l’orecchio “mpizzato” a sentire il lavorante chiamare il tuo cognome quando è il momento dell’incontro, salti il colloquio. Se lo senti bene, se non lo senti lo salti. E magari i tuoi parenti o i tuoi genitori son venuti da fuori. O ancora, non posso dimenticarmi di un detenuto che stava nel mio stesso braccio il quale aveva bisogno di tre insuline al giorno, e un giorno ne saltò due. Ne saltò due… Perché forse non c’era l’infermiere, perché forse non salirono fino al secondo piano a passare la terapia… Le saltò. Ecco e allora la battitura è anche un modo di protestare contro le condizioni generali nel carcere. E mi sembrava un metodo per dare fastidio quanto basta, per dire comunque che il detenuto c’è, non è che è quello che viene schiacciato continuamente e si deve stare zitto. Magari mi sto zitto però faccio due ore di battitura e ti viene mal di testa alla fine. E comunque indirettamente la mia l’ho detta. Anche quello è un modo di presenza attiva da parte dei detenuti e del detenuto singolo.
Hai altre considerazioni sul carcere?
Io prima ho definito il carcere come una piccola società all’interno di un’altra società, perché credo in fondo sia anche questo. Personalmente scrivevo molto quando stavo lì dentro. Scrivevo molto per me e perché è importante mantenere un filo con l’esterno. E mi è capitato di scrivere questo:
ROMA 28/10/11 H: 19:00
Il carcere mi pare essere un negativo (proprio come quello dei rullini fotografici) della nostra società. Già perché se si pensa al fatto che i negativi fotografici, prima di essere sviluppati, si possono vedere solo in bianco e nero e solo dopo essere andati dal fotografo possiamo godere della foto a colori, a me il carcere pare essere la stessa cosa. Ovvero esplicitando la similitudine col negativo, stando in carcere capisci quale è la vera umanità, la vera personalità dei detenuti (è una società ribaltata). Coloro che fuori dal carcere delinquono a vario titolo, si mostrano non solo insensibili ma anche lontani dai sentimenti (da intendere nell’accezione più ampia del termine), qui dentro si sono mostrati e si comportano con me in maniera diametralmente opposta di come, stando all’etichetta “wanted” applicatagli, avrebbero dovuto. Ed ecco “sviluppato” il negativo. I detenuti sono esseri umani, il cui grigiore apparente è dovuto solo alla negatività degli ambienti che sono costretti ad attraversare, sono persone vive. E’ gente che riacquisterà i propri colori vivi solo una volta fuori, una volta liberi!
Fin dai primi giorni e soprattutto una volta trasferitomi nel secondo braccio o sezione, con me si sono comportati con positività. Vedendomi spaesato in questo groviglio di sbarre e ringhiere affisse su finestre e scale, in questo circolare a metà tra il frenetico e lo scocciato ed annoiato di tute blu (che purtroppo non sono quelle di operai metalmeccanici a me molto cari) mi hanno in senso figurato indirizzato la strada. Strada che porta a vivere in maniera migliore e non “pesante-oppressiva” la stessa vita carceraria.
Rispetto agli altri arrestati del 15 Ottobre?
Siamo stati arrestati in 12 in flagranza di reato. Se andiamo un attimo ad analizzare le personalità, le soggettività che sono state arrestate insieme a me, possiamo indirettamente notare e capire quella che è stata la linea repressiva che hanno portato avanti in quei giorni. Ci ricordiamo Maroni: “Pene certe, pene esemplari, pene severe” e quant’altro. Si evince, secondo me, che non sono stati arresti del tutto casuali. Hanno semplicemente buttato la rete, come il peschereccio che va in mare e pesca a strascico, anche se non si può, e pesca la bicicletta arrugginita, lo scarpone, il pesce… Hanno esattamente buttato le reti. C’era ad esempio il ragazzo di Siracusa, musicista, presente lì semplicemente perché era indignato di tutto quello che gli stava succedendo intorno a livello politico e sociale in quei mesi, e quindi giustamente sentiva il bisogno e il dovere di esserci. Hanno arrestato me, che scendevo un’altra volta in piazza per ribadire che questa crisi non deve e non dev’essere fatta pagare ai soliti, un’altra volta. Per “fondare” questa mia tesi (che sono stati arresti fatti a caso…) c’è anche il fatto giuridico burocratico che l’attesta. Ad esempio hanno arrestato un ragazzo che era fermo alla fermata del bus, in Piazza san Giovanni, ad aspettare la ragazza. Tanto è vero che è stato scarcerato dopo pochi giorni (in sede di udienza di convalida fu l’unico ad essere scarcerato). Anche questo ci dà la percezione della casualità degli arresti. Io penso che determinati poteri in quei giorni avevano bisogno “di carne fresca e subito”. In quei giorni in carcere si sentiva una certa pressione anche se non chiara… Carne fresca e subito per i giornali e per i media, che hanno detto tutto e di più… Carne fresca e subito per il potere politico… Alemanno, Maroni… Non ci dimentichiamo che vi era ancora il governo Berlusconi, un governo che con i movimenti sociali e con le lotte sociali non c’è mai andato giù dolcemente… Così come hanno fatto anche gli altri governi eh… Non è che ci vuole bene nessuno a noi… E allo stesso modo serviva anche carne fresca e subito per i processi. Perché serviva subito gente che doveva essere processata e processata con determinate accuse.
Tu sei rimasto in carcere 21 giorni…
21 per via di un errore, di una svista.. Perché quando ci sono le procedure da seguire non si tratta di una firma in più o una firma in meno… Sono cose di un determinato valore… come la libertà ad esempio. Sono Stato a regina Coeli fino al 5 Novembre, anche se dovevo uscire il 4. Il 4 faccio l’udienza del riesame in cui mi vengono concessi gli arresti domiciliari. I miei vengono a Roma nella speranza che l’udienza andasse bene. L’avvocato aveva confermato che, nel caso in cui si fosse proceduto per gli arresti domiciliari, il detenuto privatamente o con mezzo proprio può raggiungere nel minor tempo possibile e percorrendo il minor spazio possibile il luogo in cui sconterà i domiciliari. Però il magistrato si dimentica di mettere questa postilla a piè di pagina ed io faccio una notte in più a Regina Coeli e torno a casa con un giorno di ritardo a buffo, mi verrebbe da dire, con la scorta chiaramente. Con la polizia penitenziaria e dentro una volante, e dietro ovviamente i miei genitori…
Qui diciamo che inizia un po’ una seconda fase no? Quindi diciamo, come vivi questa esperienza anche rispetto alle fasi processuali?
In totale ho subito un anno di detenzione, quindi le tre settimane in cui sono stato a Regina Coeli ed il resto a casa. Ovviamente è innegabile che casa non è Regina Coeli. Però col passare del tempo passa l’ubriacatura (per così dire) del poter finalmente tornare a coricarsi nel proprio letto, a rivedere i propri cari ecc.. Diciamo dopo le prime due settimane ti rendi conto che sei comunque succube di determinate ristrettezze.. Di una chiusura. Durante quel tempo il film vita, il film amicizie, scorre.. Però tu rimani fermo, tu sei lì mentre il resto va avanti.. Siccome iniziavo a rendermi conto che la detenzione iniziava a farsi sempre più lunga e che bisognava come dire aspettare un po’ più di tempo rispetto a quello previsto, ho un pochino chiuso con quello che è la quotidianità, con tutti gli amici.. Può sembrare effimera come cosa, ma si era chiuso con quasi tutte le situazioni del mondo circostante.. Per cui arrivato a casa a me sembrava che l’unico modo per mantenere (forse anche in maniera indiretta), l’unico modo che continuava a farmi stare legato con l’esterno era lo studio. Se la repressione, i magistrati mi avevano precluso e chiuso una serie di “porte” (le amicizia, il continuare a fare politica, determinate situazione ed esperienze di vita), l’unica che mi è stato possibile tenere aperta l’ho tenuta aperta, quindi mi sono tuffato nello studio. Gli unici momenti che son potuto uscire e tenere un contatto con la mia vita sociale di prima, per quanto anche legati diciamo così, ad alcuni obblighi… sono stati gli esami.
Stando a casa, soprattutto il periodo finale, per me è stato il peggiore. Sei lì e la casa inizia proprio a soffocarti, a opprimerti. Quindi come dicevo prima si avevano due modi per mantenere il contatto con l’esterno, di cui avevo un forte bisogno. Quello diretto era quello di scrivere, e scrivevo parecchio.. Un po’ con tutti, poi come è ovvio con alcuni hai un carteggio più intenso. Questo era il canale più facile, poi c’era quello di mantenere un legame con il mondo esterno per continuare a resistere, a stare lì, in piedi, presente.
Io ho fatto il processo con rito abbreviato, e ho preso quattro anni, quindi sei..
Secondo me è importante ricordare anche un altro aspetto del processo. Io in corso di udienza paleso al magistrato quelle che erano state le mie condizioni in carcere e quindi esplicito il discorso dell’aver dormito a terra, dell’aver due docce per cinquanta settanta persone in base ai piani delle sezioni, di aver potuto fare la prima doccia soltanto dopo sei giorni.. Pensa bene [il magistrato] con un’altra delle sue sviolinate, che io con le mie dichiarazioni, con quanto ho sostenuto, mi propongo come vittima di un sistema che non ha né carceri né docce adeguate. Quando ovviamente la mio denuncia non era proprio così effimera.. Il mio grado di denuncia era un altro, era che le carceri non possono essere l’aberrazione della razza umana, perché quello sono. Non possono essere quel bordello a cielo chiuso dico io, perché nessuno veda e nessuno sappia.
Rispetto alle procedure processuali..?
Sì allora… Parlo sempre dal mio punto di vista.. Anche se ne ho fatte pochissimi di udienze, tre o quattro, per il primo procedimento… le ho vissute sempre male. Le ho vissute male perché soprattutto l’esito della prima sembrava fosse già scritto. Forse è legge ma non giustizia mi venne da dire subito dopo.. Secondo me sono due cose diverse. Può essere legge ma non può essere allo stesso tempo il giusto o la giustizia. Era già scritta perché il magistrato fece quaranta cinquanta minuti di camera di consiglio, se non anche mezz’ora. Nonostante le tante memorie e testimonianze.. Vabbè ecco le ho vissute sempre in maniera un po’ negativa.. si conclude finalmente questa vicenda giudiziaria e si arriva al secondo grado, arriva la mia scarcerazione e riprendo di nuovo contatto con l’esterno, perché comunque mi ero reso conto tutto ad un tratto che un anno non erano sei mesi, che un anno non erano due o tre settimane.. Mi ero reso conto che un piccolo pezzo della mia vita era stato dedicato ad altro… o meglio mi hanno costretto a dedicarlo ad altro.
E quindi la prima volontà è stata immediatamente quella di chiudere, a livello dialettico, con i pensieri, con determinati discorsi, di dismettere totalmente una determinata vicenda e tornare subito alla vita di prima, alla vita vissuta. E così è stato, tranne che dopo qualche mese dalla scarcerazione… Da notare la tempistica…
Quando si pensava di aver dismesso definitivamente determinati pensieri, dinamiche, una determinata tempistica di scadenza di udienze, a Gennaio mi viene notificato un nuovo atto di chiusura delle indagini per un nuovo procedimento penale istruito assolutamente da zero, partendo da zero, che riguarda 25 compagni/persone, tutti quanti riuniti sotto l’unica insegna di devastazione e saccheggio. Ora qui l’analisi da fare è di due tipi: una di tipo prettamente burocratico giurisdizionale, la esplicito subito. La seconda è più soggettiva. Se è vero quello che si studia nel diritto, non si può procedere due volte nei confronti dello stesso soggetto per la stessa situazione di reato. Sarebbe il famigerato ne bis in idem. E credo sia accaduto proprio questo. La situazione di reato che mi contesta è quella del 15 ottobre. Per il 15 Ottobre ho fatto un processo che si è fermato in secondo grado, ho preso anche una condanna (divenuta definitiva!), ho fatto un anno di detenzione perché mi venivano contestati determinati reati: resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale. Dopo 15 mesi istruiscono una nuova pratica, sempre per la stessa situazione di reato, il 15 Ottobre, però entrano dalla finestra questa volta, anziché dalla porta. Cambiano il reato: devastazione e saccheggio. Il soggetto, colpevole o innocente che sia, quante volte deve pagare? Quante volte deve stare appresso a queste aberrazioni giudiziarie.
Da un punto di vista mio più personale (ed ecco l’aspetto soggettivo), penso che sia un film che si ripete, penso sia un qualcosa di già visto da parte dei movimenti sociali. E’ un qualcosa che i compagni capiscono bene. Non è una qualsiasi inchiesta o un qualsiasi procedimento penale, è un filo che è partito nel 2001 e che pian piano sta continuando. Quando i poteri precostituiti, quando il potere giudiziario, quando chi governa una città come Roma o chi governa una nazione, non riesce più a tenere testa a determinate lotte sociali o a determinati movimenti, “parte” con i reati di devastazione e saccheggio. Sono reati che ci portiamo dietro dall’epoca fascista, ma a parte questo sono dei meccanismi che vengono di tanto in tanto rispolverati per tagliare le gambe al movimento. Per reprimere. Sono reati aberranti, che hanno pene dagli 8 ai 15 anni, e quel che è peggio è che molto spesso si può rispondere anche di concorso in devastazione e saccheggio. Che è un reato ancora più subdolo.
A me interessa parlare di questo mio procedimento, ed è bene che anche gli altri compagni e le altre soggettività ne prendano coscienza, perché per me è più importante di prima, perché si mette a disposizione proprio dall’interno, al movimento, diciamo la possibilità di vedere quali sono i meccanismi che si innescano quando è adoperato il reato di devastazione e saccheggio. Quindi anche una maggiore consapevolezza da parte dei movimenti, qualora ce ne fosse bisogno. Quando loro non ce la fanno più, partono con devastazione e saccheggio. L’hanno fatto a Genova, lo hanno rifatto per il 15 ottobre.
Si potrebbe fare anche un’altra analisi, che è di contenuto. Perché bisognerebbe intendersi su cos’è devastazione e saccheggio, e si potrebbe fare una lista. Perché a me la devastazione e saccheggio non mi basta più che sia un semplice articolo del codice penale, perché io la intendo in un’altra accezione. Per me la devastazione e saccheggio per esempio sono i respingimenti in mare, messi in atto senza far neanche approdare le persone, i migranti che di certo non si imbarcano per piacere. Ecco, questo è devastante e saccheggiante. Devastazione e saccheggio è quando i pescatori di Lampedusa pescano cadaveri. Ancora: nel mondo del lavoro è il ricatto al quale sono dovuti sottostare i lavoratori, che già fanno un quarto d’ora venti minuti di pausa; poi se diventano dieci minuti è uguale. Ma così non è in quanto se un lavoro è usurante quei dieci minuti in più a me servono anche per riposare i miei arti, i miei muscoli… Devastazione e saccheggio è anche quella del territorio, della natura e dell’ambiente come la vediamo in Val di Susa. Poi come vogliono prospettarla la prospettino i media, a me poco interessa. Si diceva: se non si va non si vede. E allora noi siamo andati e abbiamo anche visto. Sono andato e ho anche visto: un buco di 22 chilometri o forse anche di più, che non si capisce quanti miliardi costa, una montagna piena di amianto e una Valle che non lo vuole… Quello è devastante e saccheggiante. Devastante e saccheggiante è vivere da detenuti in un carcere, dove vivi come un numero, come un pacco che viene spostato in base alle esigenze di chi deve amministrare il carcere. Ecco allora bisogna intendersi su cos’è devastazione e saccheggio e si può continuare, e veramente non penso che questi siano stereotipi. Questo penso che sia devastazione e saccheggio, e non un semplice retaggio del codice Rocco.
E colgo l’occasione pure per.. Siccome ci sono stato in un carcere e capisco che significa, secondo me è devastante e saccheggiante il modo in cui si stanno comportando nei confronti di Davide Rosci, che viene spostato come un pacco, è sottoposto a un regime di carcere severo (anche lui deve rispondere di devastazione e saccheggio). Devastante e saccheggiante è il modo in cui stanno facendo vivere la detenzione a questo ragazzo. I valori, le dinamiche, non sono sempre quelle che prefigurano i governi, i poteri precostituiti, i rappresentanti istituzionali, troppo spesso i sindacati.. No. Devastazione e saccheggio è anche altro. La bilancia non è per forza con le loro tarature, perché loro hanno le tarature per una società che è quella che vedono loro, che vogliono vedere loro, che prospettano loro. E’ altro il termometro di un malcontento sociale. Questa crisi è lacerante. La dignità delle persone che avevano un lavoro e non ce l’hanno più, e pur di non chiedere si suicidano.. Quanto è devastante e saccheggiante? E non penso siano luoghi comuni, stereotipi o cose di questo tipo.
Passato tutto questo tipo, che ragionamenti hai fatto su quella giornata?
Per dissipare ogni dubbio diciamo che, qualora si potesse riavvolgere il nastro, ritornerei al 15 ottobre, l’appuntamento sarebbe sempre alle 14, in piazza. Poi è ovvio che molto spesso ho fatto analisi personale su quella giornata. A caldo, a casa, ai domiciliari, una volta finito… Sicuramente è una domanda abbastanza difficile. Io non so se doveva andare effettivamente così. Però penso che quando ci siano situazioni di quel tipo, esse siano i reali termometri di quello che sta accadendo. La gente la mattina non si sveglia così e decide di andare in piazza in un determinato modo, di riappropriarsi degli spazi, di riappropriarsi di determinate dinamiche.. così.. perché “tanto per…” non si fanno le battaglie. Io penso che, senza soffermarci come troppo spesso fanno i media a quello che è l’apparenza, a me interessa soffermarmi a ciò che invece non è apparso da quella giornata. Forse non è apparso quanto doveva apparire. Magari l’unico piccolo errore che si è fatto, e comunque non devo dare io giudizi sul movimento, è stato non palesare ciò che non si palesa a livello visivo.. Cosa c’era sotto. Ancora meglio di come è stato fatto. Per il resto io penso che il modo in cui si è arrivati in quella piazza è lo specchio della situazione attuale.
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