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Logistica e America Latina: Introduzione

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Introduzione dell’ebook Logistica e America Latina, a cura di Into the Black Box e edito dal Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna.

Di Camilla De Ambroggi, Federico De Stavola, Alessandro Peregalli e Gianmarco Peterlongo

Negli ultimi anni diversi studiosi hanno condotto ricerche e prodotto analisi che mettono l’accento sulla dimensione logistica del capitalismo contemporaneo. Tali approcci considerano la logistica non tanto e non solo come uno specifico settore economico, quanto come una vera e propria lente per analizzare le recenti trasformazioni e accelerazioni dell’organizzazione della produzione e della circolazione globale e l’impatto che queste hanno sui territori, in termini di ridefinizione della spazialità geopolitica, di intensificazione del comando del capitale sul lavoro e di produzione di soggettività. Da questa angolatura, risulta evidente come la logistica, intesa come intelligenza indispensabile al capitale per dettare i ritmi di produzione, circolazione e consumo, si intersechi a condizioni e ambiti molto eterogenei del presente globale: da quello della scienza militare, campo nel quale la logistica è nata, a quello più strettamente geopolitico, nel quale la logistica, attraverso la produzione di una molteplicità di corridoi, enclave, “zone speciali” e forme inedite di governance ad esse connesse, mette in tensione le logiche consolidate della politica interstatale; dall’organizzazione delle metropoli a partire dalle necessità di governare i flussi, come nel caso delle cosiddette logistics cities sul modello di Dubai, alla creazione di supply chains sempre più globali lungo le quali riorganizzare interi cicli produttivi in base a condizioni eterogenee a livello territoriale, culturale, infrastrutturale e di disponibilità della forza lavoro; dalla cosiddetta Rivoluzione Industriale 4.0, che ha dato vita alla gig economy e ai sofisticatissimi meccanismi di gestione algoritmica del lavoro, della produzione e del mercato,alle nuove “fabbriche” della distribuzione globale come Wallmart e Amazon, fino alle nuove accelerazioni del commercio globaleche hanno imposto la costruzione e modernizzazione dei terminal portuali in tutto il mondo, e che hanno portato l’industria navale sull’orlo di una colossale bolla speculativa.

In questo lavoro collettivo abbiamo provato a mettere in luce il rapporto tra logistica e territorialità, il modo cioè secondo cui la logistica “produce” spazi e territori eterogenei. Il mondo logistico, di fatto, viene presentato come una superficie liscia e omogenea, dove la compressione dello spazio e del tempo giunge
al suo apice: eppure, se osservato in profondità, quello stesso spazio risulta poroso e irregolare, fatto di margini, interstizi e smagliature che la logistica impone di livellare e nascondere. Ciò che spesso risalta è la tensione tra l’asse “intensivo” del capitale, che si espande costantemente ridefinendo qualsiasi rapporto e relazione sociale che cada sotto il proprio dominio, e l’asse “estensivo” tramite cui il capitalismo si presenta sempre come orizzonte globale all’interno del mercato mondiale. Riprendendo la prospettiva teorica di Sandro Mezzadra e Brett Neilson,
crediamo che le operazioni logistiche, al pari di quelle estrattive e finanziare e in relazione con esse, assumano oggi una posizione centrale nell’articolare le dimensioni intensive ed estensive del capitalismo globale, e i modi in cui attraverso di esse il capitale tenti continuamente di espandere le proprie “frontiere”.

Se la produzione logistica dello spazio ricorre in questi testi come bussola teorica, abbiamo però indirizzato le nostre analisi verso un macro-spazio geograficamente definito: l’America Latina. Da sempre laboratorio tanto delle politiche più predatorie del capitale quanto delle resistenze e alternative ad esso, l’America Latina diventa nella nostra analisi un terreno privilegiato da cui osservare sia le modalità attraverso cui la “razionalità logistica” si sta imponendo come una logica capace di incidere sulle nuove forme di sovranità e governamentalità politico-territoriali, producendo profonde trasformazioni nei territori, nelle forme del
lavoro e nella produzione di soggettività, sia il modo in cui questo processo sta creando nuovi spazi intersezionali che danno vita a nuove forme di resistenza. Una regione che, mentre rafforza sempre più alcuni aspetti tradizionali della “dipendenza” come la vocazione esportatrice di materie prime e la ri-primarizzazione dell’economia, assiste allo stesso tempo a trasformazioni che
vedono l’affermarsi di logiche sempre più brutali di “annichilimento del tempo con lo spazio”, e l’emergere e il moltiplicarsi di “zone” privilegiate per il flusso di merci e capitali globali, come le enclave informatiche, i porti e le stesse città globali, con articolazioni inedite tra nuove e vecchie forme di precarietà, di informalità e di “capitalismo di piattaforma”. Tutto ciò, mentre una riconfigurazione degli assetti geopolitici e della stessa lotta di classe incide, si articola e in molti casi resiste
all’imporsi di questa “razionalità logistica”.

Il contesto latino-americano offre una posizione epistemologica privilegiata anche per osservare come il dispiegamento del neoliberismo si traduce in un campo di battaglia, come dimostrano i turbolenti mesi finali del 2019, caratterizzati da
ondate insurrezionali disperse in tutto il subcontinente contro l’estrema intensità della violenza economica e strutturale prodotta dall’egemonia neoliberale. Dopo più di un decennio di democratizzazione politica, maggior inclusione sociale, maggior
indipendenza da Washington e relativa prosperità e stabilità economica, portate avanti da una serie di governi considerati “progressisti” in vari paesi della regione (dal Venezuela al Brasile, dall’Argentina all’Uruguay, dalla Bolivia all’Ecuador fino a Nicaragua, El Salvador e, per un breve periodo, Honduras e Paraguay) ma ancorate di fatto al boom dei prezzi delle materie prime, negli ultimi anni la regione è tornata scenario di accese dispute e rivolgimenti di ogni tipo. I governi progressisti furono
capaci di imprimere importanti, sebbene superficiali, azioni ridistributive (a livello sociale, simbolico e materiale) a favore delle fasce popolari, delle minoranze etniche e delle persone che versavano in condizioni di povertà estrema, ma non riuscirono ad intaccare minimamente la struttura socio-economica della regione, né a sfidare le condizioni dettate dalle catene globali del valore. Infatti, proprio quando l’onda lunga della crisi economica del 2008 ha portato all’abbassamento dei prezzi delle materie prime, dagli idrocarburi ai minerali, e dei prodotti agroindustriali, i governi progressisti hanno iniziato ad essere attraversati da fratture e tensioni e a perdere consenso. Ed è proprio attorno a queste fratture che l’egemonia neoliberale nella
regione è andata rafforzandosi.

A partire dal 2013, con il moltitudinario movimento brasiliano contro le spese per le grandi opere previste per il mondiale di calcio del 2014 e i Giochi Olimpici del 2016 e i loro effetti sociali, si è iniziato ad avere la percezione che quello che è stato definito “ciclo progressista” stava attraversando una crisi di egemonia. In un contesto in cui il malcontento sociale (contro la devastazione dei territori, l’iper-indebitamento delle famiglie, l’autoritarismo e la corruzione dei governi progressisti) non trovava sponde in una sinistra politica ormai diventata “partito dell’ordine”, questo è stato sempre più catturato da una nuova destra conservatrice,
ultra-religiosa (vincolata soprattutto alle chiese evangeliche e neo-pentecostali emergenti) e portatrice di una martellante retorica anti-corruzione. A fine 2015 la risicata vittoria presidenziale di Mauricio Macri in Argentina metteva fine a 12
anni di governi peronisti a guida di Nestor e Cristina Kirchner, mentre la vittoria parlamentare dell’opposizione di destra in Venezuela dava vita a un periodo di profondissima crisi istituzionale in quel paese. Questi eventi furono seguiti, nell’anno successivo, dalla sconfitta di Evo Morales in un referendum in cui
chiedeva la possibilità di ri-elezione indefinita alla presidenza della Bolivia e dal cosiddetto “golpe istituzionale” con cui il parlamento brasiliano esautorava la presidentessa eletta Dilma Rousseff del Partito dei Lavoratori (PT) e la sostituiva con il suo vice neoliberale Michel Temer. Infine, proprio in Brasile la
vittoria presidenziale dell’outsider di estrema destra Jair Bolsonaro, nell’ottobre del 2018, con un programma economico iper-liberista e di privatizzazioni, sanciva apparentemente il trionfo del nuovo momento reazionario.

Tuttavia, sebbene questi eventi sembrino a prima vista descriverci una situazione di semplice transizione egemonica da un ciclo politico progressista a uno conservatore e con preoccupanti accenti fascisti, altri importanti episodi sembrano mettere in crisi interpretazioni troppo lineari. In primo luogo, nel luglio del 2018, il trionfo elettorale in Messico di Andrés Manuel López Obrador, che dopo diversi tentativi andati a vuoto a causa di conclamati brogli elettorali, ha dato per la prima volta al paese una guida progressista dopo 36 anni di governi neoliberisti guidati dai partiti
PRI (Partido Revolucionario Institucional) e PAN (Partido de Acción Nacional). Tale vittoria è stata da poco imitata dal candidato peronista argentino Alberto Fernández, che si è imposto nelle elezioni dello scorso ottobre su Macri. Infine, o
meglio soprattutto, la nuova egemonia neoliberale e conservatrice è stata messa tremendamente in crisi nei mesi scorsi in Ecuador, Honduras, Haiti, Cile e Colombia, paesi attraversati da una serie di insurrezioni popolari che hanno fatto traballare i rispettivi governi. Il caso cileno è di particolare rilevanza, in quanto è proprio in quel paese andino che il modello neoliberale – nella sua versione elaborata a Chicago dai teorici della scuola neoliberista americana – basato su politiche macro-economiche
monetariste, privatizzazione di asset pubblici e aperture commerciali ai mercati di capitali, era stato sperimentato per la prima volta dopo il colpo di Stato contro Salvador Allende nel 1973, e aveva trasformato il Cile, secondo gli analisti mainstream di scuola neoclassica, in un riferimento di indiscutibile successo
economico e sociale e in un modello da imitare in tutta l’America Latina.

Quest’ondata di rivolte anti-neoliberali, che hanno in qualche misura replicato il ciclo di lotte di inizio anni ‘00 in Bolivia (2000 e 2003), Argentina (2001) ed Ecuador (2005) , è stata tuttavia accompagnata da altri movimenti e tumulti che hanno attraversato paesi ancora retti da governi progressisti: è il caso del Nicaragua e soprattutto del Venezuela, colpiti negli ultimi anni da crisi economiche e sociali enormi, emigrazioni di massa e un conflitto geopolitico estremo che ha portato, nel caso venezuelano, a un tentativo di colpo di Stato appoggiato dagli Stati Uniti; ed è il recente caso della Bolivia, dove lo scorso novembre Evo Morales è stato costretto ad abbandonare il paese dopo che l’opposizione, appoggiata dalle forze armate, l’aveva accusato di aver vinto le elezioni politiche in maniera illegittima
e con il sospetto di brogli elettorali.

Di fronte a un panorama politico, sociale e geopolitico così complesso, e che testimonia una situazione di forte e profonda crisi di governabilità in tutta la regione, è forse bene indagare cosa si muove al di sotto di questi repentini cambiamenti e tensioni, ai movimenti carsici che si sono diffusi e generalizzati nel
subcontinente in maniera certamente più sotterranea e impercettibile rispetto ai semplici cambiamento di colore di un governo o di un altro. Ancora una volta, riprendiamo una proposta di Mezzadra e Neilson:

‹‹Many analyses that make reference to the concept of neoliberalism in
a generic sense point to the hegemonic circulation of economic
doctrines or processes of deregulation and governance without really
taking stock of the underlying transformations of capitalism that we try
to highlight by focusing on extraction, finance, and logistics. Crucial to
our analysis is the concept of operations of capital, which draws
attention to both the material aspects of capital’s intervention in specific
situations and their wider articulation into systemic patterns. (…) While
the hegemony of neoliberal economic doctrines has definitely been
questioned (and in some cases even shattered) by the turbulent pace of
the crisis, the trends we analyze have only been entrenched››.

In America Latina è ormai comune l’idea che l’estrattivismo,ovvero la pratica capitalista di appropriazione di valore economico a partire dalla rimozione forzata di materie prime e di commodities dal suolo, dal sottosuolo e dalla biosfera e della loro esportazione, sia sempre più la logica organizzativa dell’economia regionale, l’asse indiscusso su cui i paesi della regione puntano per attrarre investimenti, rafforzare le proprie bilance commerciali e finanziare politiche sociali. Questo assunto è diventato centrale a partire da quando si è reso evidente che gli
stessi partiti progressisti, in molti casi arrivati al governo grazie ad alleanze con movimenti sociali rurali, comunitari e indigeni, avevano sacrificato le loro buone intenzioni di inseguire un modello di sviluppo basato sul buen vivir e sul rispetto della natura e degli ecosistemi, rompendo di conseguenza l’alleanza
con questi settori sociali, non solo accettando ma, inebriati dagli alti prezzi delle materie prime nei mercati finanziari, anche radicalizzando le loro politiche estrattive, con l’intenzione di utilizzare una quota dell’eccedente prodotto da queste per finanziare politiche sociali di riduzione della povertà. Si tratta di
un modello che il sociologo uruguayano Eduardo Gudynas ha chiamato “neo-estrattivismo progressista” e che la sociologa argentina Maristella Svampa ha definito “Consenso delle Commodities”, indicando nella politica comune di depredazione delle risorse naturali un nuovo consenso regionale che avrebbe
preso il posto del Consenso di Washington, messo in crisi con la bocciatura del trattato di libero commercio delle Americhe (ALCA) nel 2005. Rispetto a quest’ultimo, il Consenso delle Commodities risulterebbe più multipolare, non vincolato esclusivamente agli Stati Uniti ma geopoliticamente aperto a
investitori, multinazionali e acquirenti di altri paesi, soprattutto della Cina.

Da una prospettiva della longue durée, possiamo intendere quest’incremento delle politiche estrattive non solo come una scelta politica di una serie di governi, ma come la conseguenza di fenomeni più profondi, condizionati sì da scelte politiche molto precise ma anche risultanti dalle complesse articolazioni storiche del mercato mondiale e della divisione internazionale del lavoro. Da questo punto di vista, dinamiche complesse e di lunga durata come la riorganizzazione capitalista in senso neoliberale a partire dagli anni ‘70, i processi di finanziarizzazione dell’economia, le
delocalizzazioni produttive, l’ascesa della Cina e dell’Asia orientale come nuovi importanti zone industriali, l’affermarsi di nuovi modelli tecnologici e di nuovi regimi di accumulazione intorno alle industrie elettronica e informatica, i fenomeni
dell’iper-urbanizzione, i processi di autonomizzazione del lavoro su scala globale e la smisurata crescita della cosiddetta surplus population in ampie zone del globo, sono tutte dinamiche che hanno contribuito a ridisegnare la configurazione storicoterritoriale e produttiva del subcontinente latinoamericano nello scenario della globalizzazione neoliberale.

Seppure la profonda eterogeneità di questi fenomeni ha avuto conseguenze di grande impatto nell’aumento delle attività estrattive nella regione, l’importanza che è stata data a quest’ultimo aspetto ha in qualche modo offuscato altre trasformazioni: in primo luogo perché, come hanno proposto Mezzadra e Neilson, ma anche una teorica argentina come Verónica Gago, l’estrazione si può intendere non solo come mera attività o settore economico relativo all’appropriazione di valore da oggetti inanimati, ma anche come estrazione di valore nel lavoro e nell’attività sociale nel suo insieme (si pensi per esempio all’attività di data mining in seno alle piattaforme digitali), portando quindi il concetto di estrazione a leggersi non come alter ego, ma come complementare con, e articolato a, quello dello sfruttamento; in secondo luogo, perché un’attenzione agli aspetti dell’estrattivismo ha impedito di riconoscere altre logiche che guidano i processi di trasformazione, riconfigurazione e “produzione” dei territori in America Latina. Una di queste
logiche è rappresentata dalla logistica.

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I diversi contributi che compongono questo libro, pertanto, dialogano tra loro a partire dall’analisi degli effetti che l’affermarsi della razionalità logistica produce sugli spazi geopolitici, sui territori, sul lavoro e sulle soggettività. In ognuno di essi viene descritto il modo eterogeneo in cui le operazioni logistiche globali toccano il suolo e la realtà sociale latinoamericana (“hit the ground”). Si guarda alla pianificazione di giganteschi corridoi logistici transnazionali, ai territori indigeni
che rappresentano la frontiera privilegiata di vecchi e nuovi processi di colonialismo ed estrattivismo, alla rilevanza dei mercati pubblici metropolitani nei processi di accumulazione, alla trasformazione rapida e profonda delle megalopoli
latinoamericane attorno alla promozione di grandi eventi, alle nuove frontiere del lavoro urbano digitale e alle sue nuove soggettività in lotta.

Maura Brighenti e Karina Bidaseca analizzano la politica dei grandi eventi – in questo caso i Giochi della Gioventù 2018 a Buenos Aires – come vettori di trasformazione urbana che condensano le principali operazioni del capitale: logistica, finanza ed estrattivismo.

Il contributo di Camilla De Ambroggi si focalizza sugli effetti generati dalla governamentalità logistica sul governo del MAS di Evo Morales e sull’organizzazione politica e sociale delle comunità guaranì boliviane. In particolare, partendo dall’analisi del progetto idroelettrico “Rositas” che si sta sviluppando in un territorio guaranì nel sud-est boliviano, dimostra come la
trasformazione delle frontiere del capitale operata dal piano IIRSA ha portato con sé una ridefinizione delle soggettività, degli spazi, delle relazioni sociali di potere e delle forme di resistenza all’interno del territorio indigeno. L’analisi etnografica di queste trasformazioni fa emergere la dialettica che si produce tra l’affermarsi delle infrastrutture logistiche nei territori indigeni e i processi di resistenza ad esse.

Federico De Stavola situa il suo contributo sul confine tra centro e periferia che i processi di espulsione, sussunzione e innovazione su scala mondiale rendono sempre più poroso. Le piattaforme digitali, tanto di food delivery come di altro tipo, dimostrano una grande capacità di adattarsi a contesti metropolitani e modi di
accumulazione estremamente diversificati. Precariato-impiego tradizionale, sfruttamento-supersfruttamento, subordinazioneautonomia, informalità-contrattualità, ecc: sono dicotomie messe in crisi nella metropoli latino-americane dalle piattaforme, le quali si installano in zone d’ombra risignificandole. Le lotte e la
nascita di organizzazioni di repartidores gettano luce sugli interstizi neoliberali che le app mettono a valore. Osservando il caso di Città del Messico e di Buenos Aires De Stavola offre una riflessione sul lavoro e sulle resistenze nella piattaforma
colombiana Rappi, intesa come un modello estrattivo e logistico, mostrando come il work-on-demand via app permette di ripensare il lavoro e il sindacalismo.

Il capitolo di Alessandro Peregalli si propone di analizzare l’articolazione tra la dimensione dell’estrazione con quelle della finanza e della logistica nell’Iniciativa para la Integración de la Infraestructura Regional Suramericana (IIRSA). Questa
prospettiva gli permette di riscattare i contributi teorici e le resistenze anticapitaliste sorte negli ultimi anni intorno al concetto di “neo-estrattivismo” in una chiave più complessa e globale, dove la logica fondamentale dell’estrazione si connette con quelle della finanza e della logistica. In questo modo, seguendo le evoluzioni storiche che hanno attraversato l’IIRSA a partire dall’ascesa e poi crisi dei cosiddetti governi progressisti, mette in evidenza come la “politica dei corridoi” risulti sempre più resiliente rispetto ai cicli e controcicli delle politiche degli
Stati.

Gianmarco Peterlongo prende invece in considerazione le conseguenze della razionalità logistica nello spazio urbano di Città del Messico; partendo dalla storia dei mercati e dei flussi di merci nella capitale messicana fin dall’epoca preispanica, entra poi nel vivo della quotidianità del più grande mercato della città, La Merced, osservando la materialità dell’organizzazione della logistica del mercato grazie a due figure di lavoratori informali: i parcheggiatori (franeleros) e i facchini (diableros). L’economia informale, che in Messico impiega più della metà del totale dei lavoratori, diventa territorio privilegiato per osservare fenomeni che stanno alle frontiere del capitale, e che esprimono un tipo di pratiche economiche che mescolano logica del profitto e solidarietà comunitaria, che la sociologa argentina Veronica Gago chiama ‘Economie Barocche’.

Alberto Valz Gris utilizza la logistica come punto di connessione fra i processi di urbanizzazione planetaria e la commodity chain analysis. L’analisi dell’estrazione del litio nella regione Puna de Atacama tra Cile e Argentina diventa il caso di studio per
ricostruire una filiera produttiva globale e, al contempo, per sottolineare l’impatto che queste dinamiche estrattiviste hanno sulla sopravvivenza delle popolazioni locali.

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Da lamericalatina.net

Bibliografia

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